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L’integrazione e la formazione della doppia identità

I.1 Italo Svevo, un’identità ebraica camuffata

I.1.3 Temi ebraici nella narrativa sveviana

Italo Svevo dipinge nei suoi romanzi la crisi dell’uomo moderno e della società in cui vive e l’ansia struggente della condizione borghese: non si tratta certo di una tematica ebraica in senso stretto e tradizionale, ma è pur sempre una tematica che si inserisce all’interno della più grande e insieme ultima stagione della Mitteleuropea, una letteratura intrisa di uno spirito ebraico secolarizzato […]137.

Accanto alla segretezza tipicamente ebraica così fortemente presente nella sua opera, Italo Svevo manifesta uno speciale gusto per l’ironia ebraica, che secondo l’affermazione di Albert Memmi, “fu la seule réussite relative, et d’ailleurs collective, du Juif moderne: il répondait précisément à ce double besoin: dire et cacher, révéler les difficultés du Juif et rendere la révélation supportable”138. E secondo Luca De Angelis, il ridere “rappresenta la forza nascosta e salvifica dell’anima semita nel riferirsi alla condizione paradossale del popolo eletto”139. L’ironia fa parte della personalità di Svevo, lo testimoniano parenti e amici. La figlia Letizia racconta che “anche in Svevo c’è quel fondo dell’antico ebreo perseguitato. Qualche volta papà me ne ha parlato. Ma sempre sorridendo, com’era suo costume. Raccontava barzellette, prendeva in giro se stesso e gli altri”140. E ancora:

Con mamma e con me era sereno e affettuoso; gli piaceva scherzare con noi e con se stesso. Era, in altre parole, straordinariamente simpatico, sicché era un vero privilegio conoscerlo e vivere con lui. [...] Mio padre soleva scherzare su tutto, anche sulla religione. Alcune mie cugine, che erano ebree, avevano dei bellissimi capelli ricciuti; io invece, avevo i capelli lisci. Papà mi diceva: ‘Vedi, Letizia, il battesimo ti ha fatto perdere i ricci’141.

137 A. Ara, Gli ebrei di Trieste tra emancipazione e problema ebraico, cit., pp. 49-50. 138 A. Memmi, La libération du juif, cit., p. 177.

139 L. De Angelis, Qualcosa di più intimo. Aspetti della scrittura ebraica del Novecento italiano: da Svevo a Bassani, cit., p. 133.

140 I. Svevo, Racconti. Saggi Pagine sparse, cit., p. 247.

Allo stesso modo, la moglie Livia, a proposito dell’umorismo dello scrittore, dice:

Svevo era di umore molto vivace [...] Vivacissimo, mi teneva costantemente allegra con una filza di battute spiritose […] il suo umorismo spumeggiava come un vino frizzante [...] Era gioviale, molto allegro alla superficie e aveva il dono di tenere allegra la compagnia142.

Svevo sorrideva anche delle idee che circolavano sul suo conto dopo il successo raggiunto con la pubblicazione de La coscienza di Zeno nel 1923:

Ecco, io rido quando i miei critici per benevolenza non potendo farmi il piacere di proclamarmi un grande scrittore mi dicono grande finanziere e grande industriale. Io non sono né l’uno né l’altro143.

Ironia e umorismo sono per l’autore triestino modi di concepire e di vivere la propria condizione ebraica, caratteristiche che si possono rintracciare nella figura di Zeno. È proprio l’autoironia che rappresenta uno dei tratti geniali de La Coscienza di Zeno e uno degli aspetti più caratteristicamente ebraico. L’ironia si applica di solito su se stessi o tra ebrei, come nel caso dell’incontro tra Zeno e Guido:

Si chiamava Guido Speier. Il mio sorriso si fece più spontaneo perché subito mi si presentava l’occasione di dirgli qualcosa di sgradevole: - Lei è tedesco? - Cortesemente egli mi disse che riconosceva che al nome tutti potevano crederlo tale. Invece i documenti della sua famiglia provavano ch’essa era italiana da varii secoli144.

L’ironia del protagonista che prende di mira Guido poiché ebreo, viene espressa attraverso una favola di stampo ebraico:

Ora bisognava fare la seconda [favola] ma mi mancavano le bestie. Guardai il cane che giaceva nel suo cantuccio ed anch’esso guardò me. Da quegli occhi timidi trassi un ricordo: pochi giorni prima Guido era ritornato da caccia pieno di pulci ed era andato a nettarsi nel nostro ripostiglio. Ebbi allora subito la favola e la scrissi correntemente: ‘C’era una volta un principe morso da molte pulci. S’appellò agli dei che gl’infliggessero una sola pulce, grossa e famelica, ma una sola, e destinassero le altre agli altri uomini. Ma nessuna delle pulci accettò di restare con quella bestia d’uomo, ed egli dovette tenersele tutte’145.

Tra i due personaggi si crea una segreta complicità, tipica tra ebrei. Una convivenza simile si ritrova ne Il giardino dei Finzi-Contini (1962), nell’episodio dell’incontro dei due ebrei che avviene in seguito alla chiusura del circolo sportivo a Ferrara a causa della

142 L. Veneziani Svevo, Vita di mio marito, cit., pp. 10, 42, 74. 143 I. Svevo, L’Epistolario, cit., p. 783.!

144 I. Svevo, La coscienza di Zeno, cit., p. 90. 145 Ivi, p. 327.

promulgazione delle leggi razziali: “Passò rapida tra me [l’io narrante] e lui [Bruno Lattes] l’inevitabile occhiata di ebraica convivenza che, mezzo ansioso e mezzo disgustato, già prevedevo”146.

Zeno è stato accostato da Benjamin Crémieux147 alla figura caricaturale di Charlot: come il personaggio di Charlie Chaplin, egli appare all’inizio bisognoso di compassione, per poi mostrarsi, alla fine, con i segni del vincitore. Ad esempio, i continui sbagli di Zeno subiscono un rovesciamento nel tempo: Augusta che Zeno non voleva sposare, dimostra di essere la compagna ideale; nel fallimento dell’azienda di Guido, egli diventa più determinato del cognato e riesce a salvare una parte del denaro perso. Secondo Stuart Hughes,

Se dobbiamo dunque vedere in Zeno un ebreo inconfessato, dobbiamo considerarlo un ebreo fornito di un senso dell’umorismo familiare a tutti noi per via di innumerevoli aneddoti popolari. Come l’ebreo che apparentemente si autodenigra in continuazione ma nelle storie che narra su se stesso riesce sempre a risultare il migliore. È una persona che in realtà sa amarsi ed essere indulgente con se stesso. Ed è una persona non priva di speranza148.

Questo è anche il senso delle parole di Claudio Magris, che vede proprio nell’umorismo ebraico il segno della doppia identità dell’ebreo moderno assimilato:

Dalla cultura ebraica proviene anche la dissociazione sveviana. È celebre il paragone critico fra Zeno e Charlot. Ora Charlot è caratterizzato dal fatto di essere un clown, dell’essere scisso tra essere e apparire, interiorità e esteriorità, spirito e socialità. La sua comicità nasce da questo divario. È un uomo diviso, che non può apparire per quello che è, mentre non può accettare di essere così come appare; questa è una caratteristica che tanta letteratura sociologica ha individuato nella drammatica condizione dell’ebreo sradicato, dell’emigrato ebreo dell’Europa orientale che, per sopravvivere, può essere ebreo ma non come un ebreo. Un celebre scrittore, Arnold Zweig, in un suo saggio ha parlato della schizofrenia ebraica, della lacerazione dell’ebreo che vive a fondo la tremenda dissociazione moderna fra etica pubblica ed etica privata. Questo è un tema principe di tanta grande, grandissima letteratura ebraica; la figura del clown, dell’uomo fuori posto, e cioè dell’ebreo intruso e rifiutato, presta i propri connotati a tanti personaggi della maggiore letteratura contemporanea ed anche all’ironico Zeno o all’invadente Biggioni di Rigenerazione. Ma la superiore ironia di Svevo, dopo aver fatto saltare tutte le cerniere dell’io e dopo aver messo in subbuglio, con effetti di altissima poesia e di conturbante tragedia, tutti i valori, alla fine si riconcilia beffardamente col reale, dando prova di una scettica e profonda saggezza autunnale austriaca. L’anarchismo totale si maschera da riconciliazioni149.

146 G. Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini (1962), La Biblioteca di Repubblica, Roma 2003, p. 70. 147 Cfr. Benjamin Crémieux, Italo Svevo, in «Le Navire d’Argent», II, 1926, n. 9, p. 25.

148 H. S. Hughes, Prigionieri della speranza, cit., pp. 54-5. 149 C. Magris, Svevo e la cultura tedesca a Trieste, cit., p. 55.!

L’umorismo è una forma di espressione che si fonda sull’equivoco, il ricorso costante ad esso corrisponde all’ambivalenza di Zeno: l’ironia consente al protagonista di nascondersi dietro maschere mutevoli, senza mai trovarsi prigioniero di un personaggio definitivo. L’umorismo di Zeno traspare dal suo modo di parlare, di comportarsi, di rievocare gli episodi della sua vita. L’ironia de La Coscienza è la forza della parola di Svevo e la figura di Zeno colloca l’opera sveviana nella grande tradizione dell’umorismo ebraico:

[…] l’umorismo è la supercoscienza che ironizza sulla contraddizione, che conosce la contraddizione contraddittoria; anche questo è una delle nostre specificità […] è lui che pacifica l’indissolubile contraddizione; ci preservava dalla disperazione quando soffrivamo e adesso ci mantiene in questa vivacità che è anch’essa, dopotutto, uno dei tratti distintivi dell’anima ebraica150.

D’altronde, per Giacomo Debenedetti “la vera causa dell’insolito comico di Zeno è da ricercarsi nel fondo ebraico”151 di Ettore Schmitz. E altre caratteristiche tipicamente ebraiche si possono rintracciare, secondo il critico piemontese, nella passività, nell’inettitudine e nella femminilità dei personaggi sveviani: tratti che hanno una base comune in quella malattia che è l’ebraismo di Italo Svevo. Alla condizione ebraica, per certi aspetti, può essere riconducibile anche il concetto di malattia, così come compare ne

La Coscienza:

La convinzione a priori della malattia, la stessa di Zeno […] è la coscienza di un disagio particolarissimo che riguarda solamente gli ebrei. Ora l’unico modo di dar voce al proprio disagio, disancorandosi da una condizione di estraneità e solitudine umana sarebbe proprio quello di presentare le particolari istanze esistenziali della propria condizione sotto vesti universali, che però non perdono i caratteri e i segni dell’origine152.

Svevo era persuaso che la malattia chiamata “essere ebreo” era da custodire, da amare e da capire: “Io ero sano o almeno amavo tanto la mia malattia (se c’è) da preservarmela con intero spirito di autodifesa”153. Questa dichiarazione può essere collegata a una confessione di Zeno, che afferma: “La malattia è una convinzione ed io nacqui con quella convinzione”154. A questo proposito, Vladimir Jankélévitch155 diceva: “Fra di noi,

150 V. Jankélévitch, La coscienza ebraica, cit., p. 37. 151 G. Debenedetti, Svevo e Schmitz, cit., p. 252.

152 L. De Angelis, La reticenza di Aron. Letteratura e antisemitismo in Italo Svevo, cit., p. 55. 153 I. Svevo, Soggiorno londinese, cit., p. 688.

154 I. Svevo, La coscienza di Zeno, cit., p. 11.

155 Vladimir Jankélévitch (1903-1985), ebreo di origine russa, filosofo francese; insegnò filosofia morale

alla Sorbona. Tra i suoi libri si ricordano: Debussy e il mistero, Il Mulino, Bologna 1991; Henri Bergson, Morcelliana, Brescia 1991; La cattiva coscienza, Dedalo, Bari 2000; Perdonare?, Giuntina, Firenze 2004.

potremmo paragonarci a dei malati […] L’ebreo è nato malato”156, in virtù del fatto che l’ebreo ha spesso incontrato difficoltà esistenziali nella società d’accoglienza dovute all’emarginazione e alla persecuzione. La malattia viene percepita dal protagonista come qualcosa di ereditario a causa dell’impurità del sangue per ragioni “razziali”: “Eppoi - fantolino - sei consanguineo di persone ch’io conosco. I minuti che passano ora possono essere anche puri, ma, certo, tali non furono tutti i secoli che ti prepararono”157. Zeno sottolinea il particolare disagio dell’ebreo nella storia che riguarda da vicino anche Ettore Schmitz che annottava:

Io ridiverrò l’individuo antico che torturerà se stesso e chi gli sta accanto, coi propri dubbi e col proprio passato, tutte quelle esperienze scoranti che non si dimenticano perché sono andate a far parte della carne e dei nervi158.

Nella parte finale del romanzo la dichiarazione del protagonista è più che mai ebraica: “Io sono sano, assolutamente. Da lungo tempo sapevo che la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione”159. E la convinzione della malattia di Zeno, quella con cui era nato, è riconducibile alla Weltanschauung ebraica. Curare una malattia dalla nascita sarebbe un’inutilità e insieme un’impossibilità: la salute dell’ebreo non si manifestava nella negazione delle proprie origini o nell’odio di sé, ma nell’ammissione di essere ebreo, nella accettazione di questa malattia e della propria condizione ebraica. A tale proposito, Svevo scrive all’amico Valerio Jahier:

Perché voler curare la nostra malattia? Davvero dobbiamo togliere all’umanità quello ch’essa ha di meglio? Io credo sicuramente che il vero successo che mi ha dato la pace è consistito in questa convinzione160.

Alla fine de La Coscienza, Zeno sorride alla propria malattia e la ama proprio perché l’aveva capita:

Fu un vero raccoglimento il mio, uno di quegl’istanti rari che l’avara vita concede, di vera grande oggettività in cui si cessa finalmente di credersi e sentirsi vittima. In mezzo a quel verde rilevato tanto deliziosamente da quegli sprazzi di sole, seppi sorridere alla vita ed anche alla mia malattia […] rivedendo la mia vita e anche la mia malattia le amai, le intesi!161

156 V. Jankélévitch, La coscienza ebraica, cit., pp. 12-3. 157 I. Svevo, La coscienza di Zeno, cit., p. 216.

158 I. Svevo, Epistolario, cit., p. 40.

159 I. Svevo, La coscienza di Zeno, cit., p. 363.

160 I. Svevo, Epistolario, 27 dicembre 1927, cit., p. 859. 161 I. Svevo, La coscienza di Zeno, cit., pp. 349-50.

L’accettazione della malattia è il modo più originale dell’affermazione dell’ebreo e della sua condizione umana poiché Svevo “riesce a vedere il suo personaggio sotto specie d’universalità. In altri termini egli scopre, e ci fa scoprire, in un momento dell’anima ebraica un momento dell’anima umana”162. Così la malattia di Zeno non si riferisce solo alla sua condizione ebraica, ma è anche la metafora di un disagio più generale provocato dal malessere mondiale e dalla mancanza di una salute autentica. L’origine della malattia è definibile in termini sociali, di appartenenza a una classe: è la società che crea la malattia. Zeno accetta la malattia per due diverse ragioni: perché sa che non esiste la condizione per guarire e perché non vuole guarire. La salute è l’altra faccia della malattia che è propria dell’uomo moderno: si tratta di una salute apparente che appartiene al mondo borghese con le sue false certezze e superficiali esigenze dello spirito in contrasto con il mondo interiore dello scrittore. Svevo manifesta insofferenza per il concetto borghese di felicità e lo critica nell’articolo Shylock, l’ebreo de Il Mercante di Venezia di Shakespeare:

È ricco ma non per questo felice, tutta la falsità della propria posizione gli è chiara; si sente uomo e non viene trattato come tale, viene insultato e l’insulto gli lacera il cuore, vi uccide ogni sentimento, unico resta a lui quello della vendetta! […] Curvo, solo, abbandonato dall’unico che aveva oltre il dovere di non sprezzarlo anche quello di amarlo; ma chi riderebbe di questa triste figura?163

Lo scrittore triestino rifiuta il concetto borghese di salute: l’ambiente di Augusta, la moglie di Zeno, è il simbolo dell’illusoria salute borghese, quella che ha terrore della malattia, della vecchiaia e della morte. La vita è micidiale, è la malattia più grave e viene assimilata a una patologia inesorabile:

La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Moriremmo strangolati non appena curati164.

Il conflitto tra malattia e salute coincide con quello tra l’uomo e il superuomo, tra l’individuo malato non perché vecchio ma perché uomo, e un essere superiore concepito in base ad astratti e “salutari” modelli di comportamento nei quali la civiltà borghese del tempo rifletteva le sue frustrazioni. Il mondo borghese è un mondo di “sani”, contrapposto

162 E. Levi, Italo Svevo e l’anima ebraica, cit., p. 191. 163 I. Svevo, Racconti. Saggi. Pagine sparse, cit., p. 558. 164 I. Svevo, La coscienza di Zeno, cit., p. 72.

a quello dei malati, degli inetti e degli esclusi: non a caso è diffusa l’avversione alla psicanalisi come terapia negli scrittori mitteleuropei di estrazione ebraico-orientale. Essi, come Svevo, non hanno alcuna intenzione di guarire della loro “malattia” poiché ciò significherebbe rinunciare al loro vero essere per il mondo borghese. Perciò, la psicanalisi non può guarire una malattia, che è parte integrante della vita stessa165.

Il romanzo Una vita traduce una situazione di crisi generale della società borghese di fine Ottocento, nella forma particolare di quella dell’Impero austro-ungarico. Il piano pubblico e privato presentano il difficile rapporto del protagonista Alfonso Nitti con il reale, condizione generale dei personaggi sveviani. A differenza della borghesia affaristica, i protagonisti preferiscono la contemplazione al mondo competitivo degli affari. La “passività” dei personaggi viene espressa in modo eloquente da Giacomo Debenedetti:

Nell’ebreo, diseredato d’ogni felice istinto del vivere manca l’abbandono, la stabilità del fondo morale, ed è invece disponibile e passivo a tutti gli urti […] Nella misura in cui i borghesi irregolari di Svevo s’illudono di potersi inserire in qualche modo nel mondo degli uomini attivi, subiscono un forte trauma e - di fronte al modello dell’assimilato, dell’uomo sicuro di sé e del suo destino non solo economico (come il Maller, il Balli o Guido Speier, per non citare che i più noti) - sono vinti da un irrimediabile complesso d’inferiorità (come Nitti, Brentani o Zeno Cosini)166.

L’individuo contemplativo, come Nitti, si pone in opposizione all’uomo attivo e integrato, come Macario. Il protagonista è in esilio nella società che vive nel culto dell’affermazione e del dominio; egli è incapace di adeguarsi e di accettare la lotta in un mondo che sente estraneo e ostile. Per gli inetti, gli incapaci all’azione, non c’è spazio in un mondo fondato sulla competizione che emargina gli intellettuali sensibili come il protagonista di Una

vita. La città diventa per Alfonso una prigione dove la vita si svolge affannosa e senza

scopo. Ciò comporta la volontà del ritorno e del recupero tipicamente ebraico, del mito del villaggio dopo la fuga da esso: “[…] il suo villaggio non gli apportava soltanto il piacere di sfuggire i luoghi odiati ma anche la felicità di rivedere il suo paesello”167. I luoghi odiati sono quelli della città “dove era venuto apportandovi un grande disprezzo per i suoi abitatori”168. Il protagonista definisce la città “una cappa di nebbia”, dove si

165 Accostandosi ai testi di Freud tra il 1908 e il 1912, Svevo ha introdotto nella letteratura italiana, con La coscienza di Zeno, la psicanalisi, anche data la sua posizione di triestino e di mitteleuropeo. Cfr. B. Maier, Introduzione, in L. Svevo Fonda Savio, B. Maier, Iconografia sveviana, cit., p. 11.

166 G. Debenedetti, Saggi critici, nuova serie, Edizioni del Secolo, Roma 1945, pp. 67-8. 167 I. Svevo, Una vita (1892), introd. di G. Spagnoletti, Mondadori, Milano 1985, p. 148. 168 Ivi, p. 261.!

respira “certa aria densa, affumicata”169, avvertita come un immenso ghetto. Egli contrappone alla città moderna il mito del proprio villaggio, nel quale è possibile ancora riconoscere i segni di una vita più autentica. Il villaggio si presenta prima come “terra natia e poi vera patria irraggiungibile, quasi una Heimat ebraica”170. Il singolo disadattato, oppresso nei ghetti moderni, s’illude di poter evadere in un altrove in sintonia con il proprio essere. Così il ritorno al villaggio natio di Alfonso Nitti si collega al mito universale del ritorno alle origini, alla purezza primigenia secondo l’ispirazione ebraico- orientale che circolava nella cultura austro-ungarica:

In Una vita, il mito della madre, donna idealizzata e angelo di purezza, coincide coll’ansia di ritorno alle origini e di mitico rifugio presente in molti mitteleuropei […] Non si tratta necessariamente di una madre ma anche di una moglie o di una fidanzata o di una sorella (‘angelismo’) o anche di una patria ideale, secondo un’altra lezione ebraico-orientale171.

La tematica del ritorno al paese, alla terra e alla madre, d’altro canto, è rintracciabile anche nella letteratura yiddish. Il suicidio del protagonista, il risultato del suo dramma della solitudine e dell’isolamento per via della sua incapacità di vivere e di agire come gli altri, è l’ultimo approdo che segna la concezione sveviana dell’inettitudine: il protagonista riconosce l’ultima sconfitta verso il mondo attivo; le sue contraddizioni finiscono con la morte. Il sentimento d’inferiorità finisce con il suicidio, che rappresenta una ribellione al destino, all’ambiente e al mondo in generale. Con la storia di Nitti, Svevo si colloca definitivamente tra gli scrittori moderni di estrazione ebraica.

Nel passaggio da Una vita a La Coscienza di Zeno, il rapporto tra l’individuo contemplativo e il mondo affaristico subisce un’ulteriore evoluzione: se in Alfonso l’incapacità all’azione comporta sofferenza, in Zeno i tentativi d’impadronirsi dei segreti

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