L’integrazione e la formazione della doppia identità
I.1 Italo Svevo, un’identità ebraica camuffata
I.1.2 Il gusto del segreto e l’ebraismo di Italo Svevo
[…] egli [Svevo] non tentò di dimenticare o di rinnegare il proprio retaggio. Ma anche se Svevo continuava a considerarsi ebreo - e, in una certa qual misura i suoi brevi, amari riferimenti al fatto lo confermerebbero - si considerava un ebreo di una specie tutta particolare76.
La cultura mitteleuropea, e in particolare quella austro-ungarica, è indispensabile per la comprensione della poetica sveviana e della sua intima complessità. Nella sua opera e nella vita privata, Italo Svevo non lascia apparentemente intravedere la sua formazione originaria, quella ebraica; nella sua scrittura certi temi vengono affrontati in modo allusivo. Ciò ha permesso l’occultamento della matrice ebraica, caratteristica che in seguito all’emancipazione si ritrova anche in altri scrittori mitteleuropei, come per esempio nel caso di Franz Kafka. La reticenza dello scrittore triestino sarebbe un aspetto rappresentativo di un determinato momento della condizione e della coscienza dell’ebreo occidentale:
L’uomo d’affari di Svevo ha alle sue spalle […] la storia di una assimilazione. Infatti gli ebrei che dopo l’editto giuseppino di tolleranza emigrano dalle regioni orientali e vengono nelle zone dell’impero a costituire gradualmente una nuova forte classe economica di banchieri e commercianti portano con sé una particolare concezione di cultura e di razza77.
Si crea un rapporto complesso tra l’assimilazione ebraica mitteleuropea e la tematica degli scrittori di quest’area geografica, che si manifesta in modo esemplare in Italo Svevo. Egli
76 H. S. Hughes, Prigionieri della speranza, cit., pp. 50-1.
esprime “un personale gusto ebraico per il segreto”78, che fa parte della sua personalità e del suo cosmo letterario; alla base della sua opera si ritrova la “poetica della reticenza”79. A ragione Kafka parlava di quell’“oscuro complesso dell’ebraismo universale che contiene tante e svariate parti impenetrabili”80. In effetti, molti scrittori ebrei mascherano la loro origine:
Quante maschere sono sovrapposte in un uomo a quello che copre la sua identità più essenziale e più vera? […] L’uomo vive una sua vita nascosta, e vive nascosto […] si accomoda alle esteriorità e alle circostanze; diviene indecifrabile per gli altri uomini, che si fanno di lui un concetto diverso dal vero81.
Si devono individuare per quanto possibile i motivi “di questa reticenza, la cui origine è evidentemente inerente alla condizione ebraica”82. Investigare il rapporto che il gusto del segreto dell’ebreo intrattiene con la pratica letteraria è, nel caso di Svevo, un percorso da seguire poiché la sua scrittura, apparentemente priva di elementi ebraici, è intrisa di una sensibilità per il “non detto”. Facendo uso dell’occultamento, lo scrittore non dichiara mai esplicitamente il contenuto e la tematica specificamente ebraici, ma ciò nonostante si possono individuare nella sua opera narrativa caratteri esistenziali e psicologici che appartengono a quegli ebrei occidentali che non si ispirano alle forme di vita e alla spiritualità del ghetto e che si sono allontanati dalla religione ebraica e dalle sue pratiche, ma pure esprimono particolari psicologi e spirituali che li distinguono dai non ebrei. Arnaldo Momigliano parla di Svevo come di “un grande scrittore […] impregnato di cultura ebraica e […] riluttante ad ammettere il suo passato ebraico”83. Ci si renderà conto che avrà detto tutto di sé come ebreo senza tuttavia affermare apertamente la propria identità ebraica. Anita Pittoni sottolinea ne L’anima di Trieste che “quello che in Svevo fu strettamente privato, egli mai lo espresse nelle sue pagine private: il suo segreto privato egli lo espresse nell’opera, trasfigurando quella realtà ch’egli aveva composto ad arte
78 Questa espressione appartiene a Jacques Derrida: “ho il gusto del segreto, il che ha certo a che fare con la
non appartenenza, ha un misto di timore o terrore davanti a uno spazio politico, per esempio, a uno spazio pubblico che non dia spazio al segreto. Per me, esigere che si metta tutto in piazza e che non ci sia faro interno è già il farsi totalitario della democrazia. Posso trasformare quanto ho detto in etica politica: se non si mantiene il diritto al segreto, si entra in uno spazio totalitario. L’appartenenza, il fatto di confessarla e di mettere in comune, che si tratti di famiglia, di nazione o di lingua, significa la perdita del segreto”, in J. Derrida, M. Ferraris, Il gusto del segreto, Laterza, Bari-Roma 1997, p. 53.
79 L. De Angelis, La reticenza di Aron. Letteratura e antisemitismo in Italo Svevo, cit., p. 49. 80 F. Kafka, Lettere a Felice (1912-1917), trad. di E. Pocar, Mondadori, Milano 1972, p. 742.
81 S. Benco, La Coscienza di Zeno, in I. Svevo, Carteggio Italo Svevo - Eugenio Montale, cit., pp. 171-2. 82 L. De Angelis, La reticenza di Aron. Letteratura e antisemitismo in Italo Svevo, cit., p. 50.
vivendo”84. Sarà quindi proprio nell’apparente negazione letteraria della condizione ebraica che si ritroveranno le intime e segrete relazioni di Ettore Schmitz con la sua ebraicità. E, infatti, non a caso, sulla natura del segreto e sull’opportunità di interpretare l’oggetto del segreto taciuto da un artista, Elias Canetti propone una serie di osservazioni illuminanti in Massa e potere:
Il silenzio presuppone una precisa conoscenza di ciò che si tace. Poiché non è praticamente possibile tacere sempre, si opera una scelta fra ciò che si può dire e ciò che si tace. Ciò che è taciuto è ciò che si conosce meglio, con maggiore precisione, e che si reputa più prezioso. Il silenzio non solo difende il segreto, ma lo concentra. Un uomo che tace molto è in ogni circostanza più concentrato; si congettura che egli sappia moltissimo proprio quando tace. Si sospetta che egli pensi molto al suo segreto, e ciò gli accade ogni volta che deve custodirne uno. Chi tace non deve dimenticare il segreto di cui è depositario. Egli è tanto più stimato quanto più il segreto brucia in lui sempre più forte, cresce in lui, e tuttavia non è da lui rivelato85.
Il silenzio di Svevo sulla sua condizione ebraica implica, secondo l’idea che si tace là dove non ci si vuole trasformare, un rifiuto di cambiare il suo destino di ebreo e di scrittore. Non si può negare che Ettore Schmitz sia “Arone”86 e che nello scrivere sia un ebreo. Egli, volente o nolente, è portatore di ebraicità: nella sua opera lo scrittore ebreo riporta inevitabilmente vicende ebraiche e i suoi personaggi presentano caratteri ebraici. E così essere ebreo è determinante per il suo modo di scrivere, l’ebraicità riaffiora in diversa misura e maniera. A questo proposito importanti sono le parole di Luca De Angelis:
Ogni ebreo quando scrive non può che inevitabilmente metterci del suo. L’ebreo non si dissolve quando ha la penna in mano. Per forza di cose viene condotto ad una letteratura della differenza, con molte caratteristiche della scrittura minoritaria, da cui per tutta una serie di motivi tenta comprensibilmente di sottrarsi87.
Anche, quindi, se nella sua opera ci sono solo annotazioni allusive all’ebraicità, la scrittura sveviana può essere individuata come ebraica ed è possibile metterla in relazione alla condizione di ebreo.
Queste riflessioni sono di grande importanza per uno scrittore come Svevo con un personale gusto per il segreto, che si manifesta nella sua opera letteraria sotto una forma particolare di “scrittura fra le righe”. Per esempio, nella prima stesura della Prefazione del
84 A. Pittoni, L’anima di Trieste, Vallecchi, Firenze 1968, p. 75. 85 E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 1337.
86 I. Svevo, Epistolario, cit., p. 639.
87 L. De Angelis, Qualcosa di più intimo. Aspetti della scrittura ebraica del Novecento italiano: da Svevo a Bassani, cit., pp. 148-9.
romanzo Senilità, pubblicato nel 1927, s’intravede il riserbo dello scrittore triestino sull’origine del protagonista Emilio Brentani:
Io non so neppure l’origine di esso, non so se attribuii un carattere senile al protagonista del romanzo, alla sua razza (a proposito: mi accorgo di non aver trovato mai il modo di dire che era un ebreo), o all’ambiente in cui si muoveva88.
Una dichiarazione singolare come questa mette in evidenza la riflessione sveviana sul “non detto” e sul segreto, in base alla quale è possibile individuare la sua condizione personale di ebreo. In questo senso, sono importanti le parole del letterato Mario Samigli del racconto Una burla riuscita:
[…] le cose non dette hanno una vita meno evidente di quelle che sono state rivelate dalla parola, ma una volta che questa vita l’hanno acquistata non si lasciano sminuire da altre parole soltanto89.
Sarebbe poi da spiegare il motivo per cui Svevo abbia successivamente cancellato la nota sull’origine ebraica di Brentani. Questo dato importante viene posto in ombra probabilmente per una ragione espressa dallo scrittore nel saggio Del sentimento in arte, per cui di solito “l’uomo o almeno molti uomini non amano che le cose comodamente evidenti”90. La “lectio facilior” non è una caratteristica dell’ebreo e d’altronde ciò che lo riguarda non è di comoda evidenza, idea sostenuta anche da Svevo se si tiene conto dalla testimonianza di Giacomo Debenedetti, che si ricorda queste parole dello scrittore triestino: “Certo, quella dell’ebreo non è una posizione comoda…”91. Paradossalmente, per quanto Svevo abbia eliminato tutti gli espliciti riferimenti alla condizione ebraica, molti elementi della sua opera tendono a evocarla e a suggerirla. D’altronde, secondo Eugenio Levi “anche se l’Ebreo lo volesse, non potrebbe cancellarsi. Se pur gli riuscisse di camuffarsi del tutto da Ariano, la sua vecchia anima ebraica, […] l’andrebbe a cercare”92. Così, per esempio, nella narrativa sveviana nessun personaggio è espressamente indicato come ebreo, ma il nome di Guido Speier ne La Coscienza di Zeno nasconde in sé la sua valenza ebraica, la sua origine ebraico-tedesca e la sua provenienza
88 I. Svevo, Introduzione a Senilità, cit. in A. Cavaglion, Italo Svevo, p. 164. Esistono cinque versioni
dell’Introduzione a Senilità con varianti notevoli, tra cui anche la prima, appunto, la più interessante perché Svevo afferma l’ebraicità del personaggio Emilio Brentani.
89 I. Svevo, Una burla riuscita, in Racconti, cit., pp. 254-5. 90 I. Svevo, Racconti. Saggi. Pagine sparse, cit., p.60.
91 G. Debenedetti, Lettera a Carocci. Intorno a Svevo e Schmitz in Saggi critici, a cura di C. Garboli,
seconda serie, il Saggiatore, Milano 1971, p. 93.
dal ghetto della città renana di Speyer (Spira). La variante Speyer appare in Umbertino, una continuazione de La Coscienza che doveva rappresentare il materiale di un quarto romanzo e si riferisce al figlio di Guido, Carlo. Inoltre si viene a sapere che Guido, lettore di Otto Weininger finirà suicida come lo scrittore austriaco. Il cognome può riferirsi a Samuele Speier, che era il direttore del collegio di Segnitz, frequentato da Svevo:
Il signor Speier [...] aveva il vizio di sognare e da ciò il suo nome di ‘Halomes’ o ‘Halomespeter’, nato dalla fantasia ebraica dei fratelli Schmitz, che è unito dalla parola ebraica ‘Halomes’ che significa sognatore e ‘Peter’ (Pietro) che in tedesco si dà per dileggio93.
Per tutti questi motivi, si può pensare che Guido sia ebreo: un modo peculiare di Svevo di dichiarare l’origine del personaggio. Allo stesso modo, nel romanzo Una vita i nomi dei personaggi non sono ebraici, ma la ditta Maller con i suoi lavoratori presenta tutte le caratteristiche di una società commerciale ebraico-triestina di fine Ottocento. Per esempio gli impiegati ebrei più bravi potevano essere accolti nella casa del proprietario per frequentare il salotto e possibilmente per corteggiare la figlia, come appunto nel caso di Alfonso Nitti. A ragione Giorgio Voghera, profondo conoscitore del mondo ebraico e in particolare di quello triestino, osserva che “forse mi sbaglio, ma credo che nessuno che conosca bene gli ebrei semi-assimilati dell’occidente possa dubitare che, ad esempio, Una
vita sia stata scritta dalla penna di uno di loro”94. E Giacomo Debenedetti mette in evidenza “il fondo ebraico” di Svevo, ben riconoscibile nella sua opera narrativa:
La materia romanzesca e anche, in alcuni momenti, l’intenerimento lirico di Italo Svevo sono tratti dal fondo ebraico di Ettore Schmitz. Sennonché, come Schmitz si presenta letterariamente sotto il pseudonimo di Italo Svevo, così anche il suo eroe interiore, nel diventare protagonista di romanzi, prende dei pseudonimi: in senso letterale, perché i suoi nomi non sono mai ebraici, e in senso figurato, perché la sua psicologia ebraica non è mai denunciata esplicitamente come tale95.
Nei suoi romanzi, le parole “ebreo”, “ebraismo” o simili sono quasi assenti, circostanza che si deve attribuire al gusto dello scrittore per il pudore e per il segreto. Di tutta l’opera narrativa, tranne l’Epistolario, solo in un unico passaggio de La coscienza di Zeno compare la parola “ebreo”:
93 I. Svevo, Lettere a Svevo. Diario di Elio Schmitz, cit., p. 206. 94 G. Voghera, Gli anni della psicanalisi, cit., p. 138.
Una sera della fine di marzo […] ero caduto nelle mani di un dotto amico che aveva voluto confidarmi certe sue idee sulle origini del Cristianesimo: Era la prima volta che si voleva da me ch’io pensassi a quelle origini, eppure m’adattai alla lunga lezione per compiacere l’amico. Piovigginava e faceva freddo. Tutto era sgradevole e fosco, compreso i Greci e gli Ebrei di cui il mio amico parlava, ma pure m’adattai a quella sofferenza per ben due ore96.
Questo suo amico può essere quasi sicuramente James Joyce: Ulisse è il romanzo in cui le idee sui greci e sugli ebrei, oggetto di quella conversazione, confluiscono nel personaggio di Leopold Bloom. Joyce s’informava da Svevo sulla psicologia, sulle abitudini e sulle caratteristiche specifiche degli ebrei per la costruzione del suo personaggio. Lo scrittore irlandese poteva parlare a lungo dell’ebraismo di Svevo, che era il suo consulente sulle cose ebraiche. È noto ai suoi biografi l’impegno di Joyce a informarsi da Svevo sulla cultura ebraica del personaggio Bloom e a interrogarlo su questioni ebraiche97.
Il riserbo dello scrittore è una caratteristica tipicamente ebraica presente nella sua opera letteraria, e la segretezza appartiene alla sua condizione ebraica, al suo modo di essere e di manifestarsi come ebreo e di conseguenza come scrittore. Non a caso, nel saggio Soggiorno londinese, Svevo affermava che parlare di se stesso è, se non un problema, almeno un mistero:
Gli antichi facevano un gran caso del fatto che anche il proprio io è un mistero. Ma anche ogni altra cosa vivente è misteriosa e l’accesso ad essa è ben più difficile che al proprio essere. Guardatevi in uno specchio ed avrete un’occasione unica di poter studiare come una fisionomia umana s’atteggi per dare idee e impressioni che sapete immediatamente perché sono vostre. Naturalmente che anche qui il risultato non è sicuro. Intanto che vi guardate vi è già difficile di pensare. E se pensate che cosa pensate se proprio vi guardate? […] Sono un museo ambulante. Ride subito anche la mia immagine. Ridiamo insieme. E il riso è un’espressione che cela invece che rivelare il pensiero. Quando si studia non bisogna ridere perché il riso cela troppe cose98.
Sia sul piano esistenziale che su quello psicologico, Svevo si rivela uno scrittore profondamente ebreo; il sistema dei suoi valori è impregnato dalla sua condizione ebraica.
La questione ebraica in Italo Svevo è stata oggetto di studio da parte della critica letteraria. Per ciò che riguarda la reticenza dello scrittore di fronte agli elementi ebraici presenti nella sua opera letteraria, il saggio Svevo e Schmitz di Giacomo Debenedetti è di
96 I. Svevo, La coscienza di Zeno (1923), a cura di C. Benussi, introd. di F. Marcoaldi, Feltrinelli, Milano
2001, p. 31.
97 Cfr. J. McCourt, Schmitz/Svevo, in James Joyce. Gli anni di Bloom, trad. di V. Olivastri, Mondadori,
Milano 2004, pp. 146-53.
peculiare importanza. Il suo testo è, secondo Carlo Fonda, “uno degli studi più maturi e più profondi sullo scrittore triestino”99, anche se, come si vedrà, in alcuni punti non è d’accordo con il critico piemontese. Il primo che ha però parlato di reticenza nella narrativa sveviana è stato Sergio Solmi che nel 1927 scriveva: “nonostante la rattenutezza [ritenutezza] del romanziere, che si è soltanto preoccupato di metterci innanzi volti e figure, e aspetti dell’animo individuale, giungiamo a respirare la desolata atmosfera da cui nacquero i suoi miseri eroi”100. In quella “rattenutezza” si sottolinea la “perduta nostalgia del sangue che dalla nascita è stanco di portarsi”, e che riflette la sradicata condizione dell’ebreo semi-assimilato e il fondo morale di Svevo, quell’“acredine dolente e spietata del suo scetticismo ebraico, incapace di accogliere la vita se non dopo averla spogliata d’ogni ordine umano e razionale”101. In una lettera del 16 gennaio 1928 indirizzata a Giuseppe Menasse, scrittore triestino e solariano, Svevo osservava che l’articolo di Solmi “è magnifico (non solo per me) e ne traspare una coscienza critica matura. Ho più ammirazione che riconoscenza per lui, questo so dire subito”102. In un’altra lettera del 1 febbraio 1928 all’amico e scrittore Valerio Jahier, l’autore de La coscienza di Zeno esprime un altro giudizio considerando l’articolo “pieno di belle osservazioni”103. In una lettera di risposta a Svevo del 19 febbraio 1928, Solmi insiste sull’ebraismo dei personaggi sveviani:
Riconosco invece esatta la sua osservazione su quell’atteggiamento mortificato e ripiegato su di sé ch’è proprio del mio modo di pensare. Anche senza essere ebreo, sento in modo fin troppo doloroso la mia estraneità dal mondo in cui vivo104.
La lettera in cui lo scrittore triestino parlava forse del fondo ebraico della sua opera, è andata perduta. È possibile che lo scrittore abbia accennato al sentimento di estraniazione e alla condizione di “straniero”, tipica dell’ebreo. Secondo Luca De Angelis, “Solmi fu uno di coloro che più si avvicinarono all’intimo e nascente significato dell’opera sveviana, uno dei più vicini all’uomo e all’ebreo Svevo”105.
In Otto ebrei, Debenedetti s’interroga su “che cosa sia l’ebraismo negli ebrei” e afferma che è una “faccenda di stretta intimità” e non si può “venirne così facilmente a
99 C. Fonda, Svevo e Freud, cit., p. 49.
100 S. Solmi, Italo Svevo. Senilità, in I. Svevo, Carteggio Italo Svevo - Eugenio Montale, cit., p. 192. 101 Ibidem.
102 I. Svevo, Epistolario, cit., p. 861. 103 Ivi, p. 864.
104 I. Svevo, Lettere a Svevo. Diario di Elio Schmitz, cit., p. 172.
capo”. Egli vede nei suoi correligionari dei “modi interiori, originali, profondi di sentirsi ebrei” che sono “cose di privato sentimento, tutte confinate nella zona dei pudori, non mai estrovertite nell’azione: e non toccano quindi il contegno sociale dell’uomo, né lo differenziano dai suoi simili - e tanto meno glielo contrappongono”106. Alberto Cavaglion si chiede invece sul perché Debenedetti non abbia visto queste caratteristiche che ha assunto per sé, anche in Svevo: “Non sarebbe stato più leale riconoscere che, forse, ‘nelle ore di più geloso raccoglimento’107, anche a Svevo fosse dato riascoltare melodie sinagogali udite nell’infanzia, senza poi essere costretto a parlarne nei suoi dubbi?”108 Luca De Angelis cerca però di spiegare quest’atteggiamento di Debenedetti riguardo alla critica sveviana:
Potrà sembrare strano o paradossale, ma spesso il dialogo tra pubblico ebraico e scrittore ebreo si è rivelato difficile e venato di una certa risentita suscettibilità: non a caso che proprio Debenedetti, anch’egli ebreo assai complesso, abbia individuato e calcato sull’inquietudine di questo atteggiamento letterario di Svevo109.
Nel saggio Svevo e Schmitz, Giacomo Debenedetti mostra che “sotto la chiarezza di Svevo sono nascoste delle involontarie reticenze, delle parole inconfessate, che vietano l’abbandono”110, dichiarando che l’insuccesso dello scrittore “consiste […] nell’avere lasciato in ombra il mistero delle proprie origini”111, perdendo così l’occasione di essere “l’artista di un certo momento dell’anima semita: quando gli ebrei dell’occidente europeo, emancipati, venuti a contatto pratico, entrati in vivo scambio sentimentale e culturale con popoli ariani […] prendono coscienza di se stessi: dei propri difficili pregi e duri limiti”112. Ebreo anche lui, il critico piemontese sostiene che lo scrittore, mettendo sotto silenzio o occultando il proprio ebraismo, abbia rinunciato a una parte importante del suo essere, con il risultato di limitare la propria autenticità letteraria. Luca De Angelis rifiuta