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Un caso estremo di assimilazione: la conversione

II.1 La conversione di Italo Svevo al cattolicesimo

Si potrebbe leggere la produzione di Italo Svevo quale opera d’un marrano, ossia di un ebreo convertito, di un giudeo nostalgico e pentito per le svolte ideologiche compiute6.

Parlare della conversione di Italo Svevo alla religione cattolica richiede un’analisi approfondita della vita dello scrittore, dagli anni della formazione, al fidanzamento e al matrimonio. La difficoltà della biografia sveviana deriva, da come si è cercato di spiegare nel capitolo Il gusto del segreto e l’ebraismo di Italo Svevo, dalle notevoli reticenze e ambiguità che circondano da sempre la vita privata di Ettore Schmitz, industriale triestino di vernici sottomarine, che, come scrittore, si firma Italo Svevo. La ricostruzione della sua biografia diventa difficile e complicata:

[…] i pochi e scarni dati biografici relativi alle sue origini israelite si rivelano generalmente schegge sfuggite alla sua reticenza […] l’impostazione metodologica che si deve dare allo studio delle componenti ebraiche in Svevo deve rivelare le rare testimonianze dell’ebraismo biografico di Aron Schmitz […] deve tendere principalmente ad illuminare quelle componenti soprattutto nella sua opera narrativa7.

L’ambiente ebraico del giovane Ettore è documentato nel Diario di suo fratello Elio: la scuola del vice rabbino Melli, la partecipazione del padre ad alcune pubbliche cerimonie rituali, le principali festività ebraiche, il collegio di Segnitz, un’istituzione frequentata maggiormente da ebrei. Senza il Diario di Elio Schmitz nessun biografo di Svevo avrebbe potuto fissare il reticolo di parentele che unisce fra loro i Moravia, gli Schmitz, gli Ancona e i Veneziani.

Italo Svevo è nato e cresciuto in una famiglia tradizionale ebraica. Elio testimonia nel suo Diario gli anni della loro prima formazione avvenuta in ambito ebraico: “mio

6 P. Puppa, Italo Svevo. La scrittura in scena, in M. Carlà, L. De Angelis (a cura di), L’ebraismo nella letteratura italiana del Novecento, cit., p. 33.

7 G. A. Camerino, Italo Svevo, scrittore ebreo, in Ebrei e Mitteleuropea, Shakespeare & Company, Brescia

padre mi mise a scuola e precisamente nella scuola la quale da più anni [dal 1867] frequentavano Ettore ed Adolfo, da Melli. Questa era una scuola israelitica elementare tenuta dal rabbino maggiore di Trieste”8, Raffaele Melli. Situata in via della Legna, questa istituzione era una delle prime scuole ebraiche create in seguito all’editto di tolleranza di Giuseppe II del 1781. La volontà del padre di mandare i figli a studiare in un ambiente costituito prevalentemente da ebrei è chiaro segno del desiderio di dar loro un’educazione ebraica, educazione cui contribuisce anche la famiglia: “Peppina, la zia, c’imparava a leggere e a pregare”9 nella lingua sacra, oppure “al venerdì sera era festa per noi. Restavamo a casa tutti insieme e papà ci contava delle novelle che noi ascoltavamo”10. Il fattore pedagogico è essenziale nella vita dell’ebreo e ha un ruolo importante nella trasmissione del patrimonio tradizionale ebraico. Il padre rappresenta per i figli un modello di educazione sotto il segno prevalente della cultura e della tradizione ebraiche.

Francesco Schmitz (1829-1892) ebreo di origine orientale, ungherese di povera famiglia, commerciante di vetrami, è stato Hadan Bereschid11, “Sposo della Genesi”, della comunità israelitica di Trieste. Nonostante questa carica importante, lo scrittore parla di suo padre nel saggio Profilo autobiografico come di un assimilato alla società: “Il padre d’Italo era già un assimilato quando giovinetto intraprese a Trieste un attivo e lucroso commercio di vetrami”12. Quest’affermazione sottolinea la realtà storica degli ebrei che, dall’Editto di tolleranza emanato dall’imperatore Giuseppe II nel 178113, costituiscono una presenza importante in quanto ceto di banchieri e di commercianti. Con la loro integrazione, la specificità ebraica passa in secondo piano rispetto ai valori culturali e civili che li legano al resto della popolazione di Trieste. Ciò determina molti ebrei ad allontanarsi dalla loro comunità, senza per questo rinunciare alla propria componente ebraica, senza cancellarsi come ebreo:

Il nucleo centrale, borghese, della comunità ebraica triestina mantiene un marcato grado di aggregazione interna, che sopravvive anche alle sconfessioni e alle conversioni, che si manifesta in una fitta rete di rapporti sociali e

8 I. Svevo, Lettere a Svevo. Diario di Elio Schmitz, cit., p. 197. 9 Ivi, p. 198.!

10 Ivi, p. 197.

11 Hadan Bereschid era una carica onorifica che in ambito liturgico consisteva nella lettura nel tempio del Sefer Torah (l’inizio del Pentateuco); tale onore viene dato a coloro che sono noti per la loro religiosità e la

loro sapienza. Cfr. L. De Angelis, Qualcosa di più intimo. Aspetti della scrittura ebraica del novecento

italiano: da Svevo a Bassani, cit., p. 72. 12 I. Svevo, Profilo autobiografico, cit., p. 799.

13 Con l’emanazione dell’Editto di tolleranza, gli ebrei austriaci, boemi, moravi e ungheresi hanno ottenuto

la cittadinanza, anche se le discriminazioni e le disuguaglianze non erano scomparse del tutto. Cfr. A. Foa,

familiari, nelle scelte professionali e in quelle matrimoniali, nei modelli residenziali e nella frequenza delle stesse scuole. La componente israelita o di origine israelita rappresenta così un nucleo compatto ed omogeneo, caratterizzato da saldi legami interni ed endogamici […]14.

In questa realtà, Francesco Schmitz tende ad attenuare la rigidità dei suoi antichi costumi religiosi, pur conservando la celebrazione delle feste ebraiche principali. Ciò viene confermato dal Diario di Elio dove si narra dei contrasti con il ramo Ancona della famiglia che invece viveva “in assai religione: Per idee religiose e per ambizione lo zio Ancona non ci frequenta […]”15. Con l’assimilazione, i figli ricevono un’educazione prevalentemente laica. E in un momento di difficoltà economica del padre, con il declino degli affari, non viene celebrata la festa di Purim del 25 febbraio 1880: “Oggi intanto è

Purim ma si passa sotto silenzio per volontà di papà, che non vuole feste in famiglia che

non sono che ricordanze dolorose e dispiaceri”16. Quest’atteggiamento del padre che rappresenta una trasgressione della tradizione ebraica a causa di un disagio sociale che gli ricorda la difficoltà di essere ebrei, lo determina a riflettere sulla dolente e travagliata condizione ebraica nel tempo. Si tratta di una sorta di difesa contro i ricordi più opprimenti e le esperienze più sofferenti dell’ebreo dell’Impero austro-ungarico. “Passare sotto silenzio” diventa nella famiglia Schmitz una maniera del rapporto con il giudaismo, che, da come si è potuto notare nel capitolo Il gusto del segreto e l’ebraismo di Italo

Svevo, in Ettore Schmitz scrittore prende la forma del segreto, segna il suo modo di

scrivere e definisce la sua appartenenza all’ebraismo. Ignorare, quindi, la ricorrenza del

Purim e accettare un’importante carica all’interno della comunità non è una

contraddizione per un ebreo assimilato. È plausibile accettare la simbologia celebrativa della propria religione e allo stesso tempo mettere sotto silenzio i periodi drammatici di persecuzione o di emarginazione subiti nel corso della storia.

Il padre sceglie per i figli l’attività commerciale, professione che non è in sintonia con i desideri del giovane Ettore. In Vita di mio marito Livia Veneziani, la moglie di Svevo, ricorda Francesco Schmitz come un padre rigoroso e autoritario, che si opponeva alla volontà del figlio di seguire i suoi sogni letterari:

Così era stabilito dal padre. La letteratura era una cosa lontanissima dalla mentalità del vecchio Schmitz ed Ettore, nonostante la sua vocazione di

14 A. Ara, Gli ebrei di Trieste tra emancipazione e problema nazionale, in F. Sofia, M. Toscano (a cura di), Stato nazionale ed emancipazione ebraica, cit., p. 52.

15 I. Svevo, Lettere a Svevo. Diario di Elio Schmitz, cit., p. 200. 16 Ivi, p. 221.

letterato, non aveva in sé la forza di opporsi alla volontà del padre, che reggeva con ferma autorità la famiglia, la cui prosperità andava declinando17.

Il rapporto di opposizione tra padre-figlio in seguito all’emancipazione ebraica è di peculiare importanza. In questo caso le tesi freudiane hanno certamente intuito la problematica della continuità della discendenza:

Con Freud, il problema dell’ebraismo del padre, che ossessionava larghi settori dell’ebraismo occidentale, si trasformava - senza per questo perdere il suo spessore storico - nel problema generale del rapporto di ogni figlio con il

padre e la legge18.

Questo rapporto conflittuale si verifica tra Ettore e Francesco Schmitz: “E rividi tutte le stanchezze della mia vita - si legge in un appunto sveviano del 1928 - da quelle derivate nella mia infanzia dalle mie lotte con l’incomprensione di mio padre. Come tutto fu difficile, insormontabile. Ora soggiaccio. Una grande dolcezza si accompagnò all’inerzia del vinto che mi pervase. Era finita l’ultima lotta”19. La morte del padre di Ettore, avvenuta il 1 aprile 1892, ha però sicuramente lasciato una traccia indelebile sulla sua vita: l’evento può essere accostato all’episodio della morte del padre di Zeno de La

Coscienza, che è l’avvenimento di fronte a cui il tempo gli appare nella sua irreversibilità,

di fronte a cui il suo eterno presente s’interrompe e il futuro diventa incerto e minaccioso perché privo di quelle rassicurazioni socio-psicologiche di cui il padre è garante: “Guardavo nell’avvenire indagando per trovare perché e per chi avrei potuto continuare i miei sforzi di migliorarmi. Piansi molto […]”20. La morte del padre significa la rottura di un equilibrio esistenziale.

La madre Allegra Moravia (1832-1895) proveniva da una modesta famiglia ebraica originaria di San Daniele del Friuli, era una figura amorevole che, con la sua dolcezza, attutiva l’impatto del rigoroso comportamento del padre.

Tutti i sette figli di Allegra e Francesco Schmitz, tranne Ottavio, frequentano scuole ebraiche; le ragazze si sposano tutte con ebrei. Solo il fratello di Allegra Moravia sposa una cattolica, Fanny, la cui figlia Olga sposa un ebreo battezzato Gioachino Veneziani e avrà una figlia Livia che diventerà la moglie di Ettore Schmitz. Da queste precisazioni, si capisce che il nonno materno di Livia, Giuseppe Moravia, era il fratello della madre di Ettore. Così, Svevo sceglie una moglie dentro il confine della cerchia

17 L. Veneziani Svevo, Vita di mio marito, cit., p. 17.

18 D. Meghnagi, Il padre e la legge. Freud e l’ebraismo, cit., p. 30. 19 I. Svevo, Pagine di diario e sparse, cit., p. 841.

familiare, anche se i Veneziani sono cattolici. In questo periodo, negli anni Novanta, le origini ebraiche di Svevo “erano sparite sottoterra. Aveva smesso di essere sia osservante che credente ed aveva sostituito la fede con un’ostilità duratagli tutta la vita, per qualsiasi forma di religione organizzata. Eppure, quando giunse il momento di affrontare la prova del fuoco del matrimonio, si rivolse ad una famiglia ebrea”21. In occasione del fidanzamento avvenuto il 20 dicembre 1895, Livia regala a Ettore un diario dove annottare i suoi pensieri d’amore. Così nasce il Diario per la fidanzata (1986), fonte dello stato d’animo dello scrittore in quegli anni. Questo evento segna l’inizio della “era novella”22 in cui la vita di Svevo prende un cammino diverso: in questi fogli Ettore annotta anche i passaggi cruciali della sua vita e, in particolare, il suo ingresso nelle comodità della vita borghese. Con il suo matrimonio, egli entra in una famiglia più agiata della sua e cambia stato sociale. Abbandona così l’ambito medio borghese a cui apparteneva il padre Francesco Schmitz, che era diventato benestante grazie al commercio di vetrami per poi subire il fallimento negli affari, e può dimenticare le ristrettezze della giovinezza sposando Livia Veneziani, e quindi lavorando nella ditta commerciale del suocero Gioachino Veneziani, che aveva fatto fortuna con l’invenzione di una formula per la fabbricazione di vernici anticorrosive e antivegetative per le chiglie delle navi. Prima di questo lavoro, Ettore si dimostra inquieto per la ristrettezza dei suoi guadagni con il suo posto di impiegato presso la filiale triestina della Unionbank di Vienna come addetto alla corrispondenza francese e tedesca e con l’insegnamento all’istituto Revoltella: il disagio di questa sua situazione provocò in lui un sentimento d’inferiorità sociale ed economico. Si avverte questo malessere nel romanzo Una vita dove Svevo esprime il divario di classe fra il modesto impiegato di provincia Alfonso Nitti e il suo datore di lavoro Maller:

La vita di Italo Svevo alla Banca è descritta accuratamente in una parte del suo primo romanzo […] Quella parte è veramente autobiografica. Ed anche le ore serali di ogni giorno passate alla biblioteca Civile vi sono descritte23.

Dall’esperienza sofferta di Nitti, secondo Enrico Ghidetti, “Svevo trae la forza per analizzare senza pietà, negli atti e nei sogni dell’inetto alla conquista della vita, la propria condizione di intellettuale frustrato e incompreso e quindi per intraprendere una veridica ricognizione della società triestina del proprio tempo”24. E secondo Bruno Maier, Svevo

21 H. S. Hughes, Prigionieri della speranza, cit., p. 49.

22 I. Svevo, Diario per la fidanzata, in Racconti. Saggi. Pagine sparse, cit., p. 794. 23 I. Svevo, Profilo autobiografico, cit., p. 800.

trasferisce nel protagonista di Una vita “i sogni, le illusioni, le perplessità, i dolori, le frustrazioni e le mortificazioni della sua medesima età giovanile”25. Trovandosi quindi in condizioni economiche precarie, Ettore accetta il lavoro presso la ditta Veneziani e rinuncia apparentemente alla letteratura per far spazio alle sue qualità di abile industriale e commerciante. Nel maggio del 1899, dopo diciannove anni di lavoro in banca, con l’assunzione diretta di responsabilità nell’industria dei suoceri si attenuerà, quasi fino ad annullarsi, il suo sentimento d’inferiorità, ma non potrà mai cancellare il disagio e l’insofferenza per la mentalità borghese, per le ipocrisie e i formalismi che la caratterizzano. Diventa così un ricco commerciante: una posizione costruita faticosamente nel corso di un processo di progressiva integrazione. La scalata sociale, però, il segno più marcato dell’assimilazione ebraica, “non è un obbiettivo piattamente utilitaristico ed edonistico, ma una componente preliminare per una migliore realizzazione spirituale”26.

Il matrimonio civile e religioso di Livia ed Ettore avviene in seguito a molti contrasti e discussioni. Egli incontra ostilità nella famiglia della sposa per la differenza religiosa (lui ebreo, lei cattolica), per l’età (Livia più giovane di tredici anni), per la disuguaglianza sociale (Ettore ha un modesto lavoro, il padre è andato in rovina con il suo commercio, invece Gioachino Veneziani, il padre di Livia, è l’inventore della formula chimica per le vernici sottomarine; la sua azienda era molto florida), per la sua riputazione di letterato senza fortuna. Incontrando simili ostacoli da parte della famiglia Veneziani, e soprattutto dalla madre di Livia, Olga, che voleva un altro matrimonio per sua figlia, Ettore decide di trasferirsi con il lavoro a Vienna, progetto che non è stato alla fine messo in pratica. A proposito dell’atteggiamento di Olga di fronte alla futura unione fra i due, Letizia, la figlia di Svevo, ricorda nelle sue testimonianze:

[…] l’idillio fra i due coniugi non solo non fu incoraggiato dai parenti, ma anzi enormemente ostacolato. Mi riferisco ai parenti di mia madre, e in particolare alla severa e autoritaria Olga […] La famiglia Veneziani era profondamente cattolica; e l’idea che Livia sposasse un ebreo doveva parere assolutamente inaccettabile. In verità in origine anche i Veneziani erano stati ebrei, ma poi erano divenuti ‘misti’: già Olga e Gioachino erano cattolici [...]27.

Le resistenze e le difficoltà incontrate da Ettore nella vicenda del suo fidanzamento sono documentate da una lettera del febbraio 1896 indirizzata alla cognata Nella Veneziani:

25 B. Maier, Introduzione, in L. Svevo Fonda Savio, B. Maier (a cura di), Iconografia sveviana, cit., p. 16. 26 G. A. Camerino, Italo Svevo, UTET, Torino 1981, p. 217.

Son due mesi che Livia m’accettò ad onta delle tante circostanze che avrebbero dovuto farle apparire il matrimonio con me come poco conveniente e poco desiderabile ed io ho la coscienza di non aver da aver paura di niente e di nessuno […]28.

Nonostante questa situazione sgradevole, i due si fidanzano, ma la differenza religiosa ha rappresentato un grave motivo di disagio e di incomprensione fra la cattolica Livia e l’ateo ed ebreo Ettore. Ciò ha portato anche al rinvio di un anno della loro unione religiosa. Della vicenda del loro matrimonio Livia dice:

Un giorno improvvisamente tutto si risolse nel modo più inaspettato: quando Livia, non trovando più altra via d’uscita, s’era ormai rassegnata al volere di Ettore, cioè al matrimonio civile, egli disse: - Tu, dunque, accetti di legarti a un ebreo? - Sì, rispose Livia seria con fermezza. Ed Ettore allegramente esclamò: - Allora mi battezzo! - Il battesimo avvenne nella chiesa di S. Giacomo, nel rione operaio, e qui fu pure celebrato il matrimonio29.

La stessa versione dei fatti viene narrata anche dalla figlia Letizia:

Dato che mio padre non intendeva farsi cattolico (cosa che recò un vivo dolore a mia madre), Ettore e Livia si sposarono soltanto con rito civile. Ma l’anno successivo, in un giorno di agosto, mio padre disse a mia madre: ‘Visto che tu mi hai accettato così, - ossia senza costringerlo ad abbracciare la fede cattolica, - io per te farò il sacrificio di farmi cattolico’. E in quel mese stesso si recarono nella chiesa di San Giacomo […] e lì, nel medesimo giorno, mio padre venne battezzato e si unì in matrimonio religioso con Livia […]30.

Dai documenti del Commissariato Civile per Trieste e Territorio (Registri dei Cambiamenti di confessione religiosa), risulta che il 29 maggio 1896 Schmitz Aron detto Ettore rinuncia alla fede ebraica e si dichiara un agnostico. Allo stesso modo, Livia abiura alla sua fede cattolica poiché la legge vigente nel territorio dell’Impero austro-ungarico prevedeva il rito civile solo tra i non credenti: i due hanno dovuto dichiarare all’autorità civile di non appartenere ad alcun credo religioso. Nel periodo di circa un anno che separa il rito civile (30 luglio 1896) da quello religioso, la discussione fra loro deve essere stata intensa. Nonostante le testimonianze di Livia e di Letizia sulla ragione della conversione di Ettore, i fatti si sono forse svolti in modo diverso. Si presuppone che soltanto all’ultimo momento, in circostanze singolari, a causa della difficile gravidanza di Livia, Ettore abbia preso la decisione di ricevere il battesimo, avvenuto il 25 agosto 1897, un mese prima della nascita della figlia Letizia, quando Livia teme di morire in peccato mortale per aver

28 I. Svevo, Epistolario, cit., p. 49.!

29 L. Veneziani Svevo, Vita di mio marito, cit., p. 231.

sposato solo con rito civile un ebreo. Ettore decide allora di farsi battezzare, anche su suggerimento del medico di famiglia. In questo senso, Marie Anne Comnène, la moglie dell’amico e italianista francese Benjamin Crémieux, riporta una testimonianza importante che riguarda una conversazione con Svevo sulla sua conversione:

‘Io sono un ebreo convertito, ma io non credo che la mia conversione avrebbe fatto piacere al papà’ […] qualche anno fa mia moglie è stata malata assai gravemente, sì, in prossimità della morte […] il dottore mi disse (era il dottore di famiglia, un vecchio amico dei miei e un uomo che non poteva mentire): ‘Io credo, Ettore, che la nostra cara Livia si sia sempre augurata la sua Conversione al Cattolicesimo; lei me ne ha spesso parlato […] ‘Potrebbe guarirla?’ dissi. ‘Davvero non si è mai visto uno choc del genere!...’ ‘Ebbene, andiamole a dire che io sono cattolico di cuore, tra questa sera e domani noi andremo in chiesa per le cerimonie. Lei sarà il mio testimone, d’accordo?’ La mia povera moglie, ancora tutta febbricitante, accolse la notizia con così tanta emozione che io non ho cercato di sapere se era stato il Dio degli ebrei o dei cristiani ad essere l’autore del miracolo31.

La stessa idea viene espressa anche da Henry Stuart Hughes nel suo bellissimo libro

Prigionieri della speranza del 1983:

Durante il suo primo anno di matrimonio Livia soffrì penosamente a causa di ciò che ella riteneva il suo ‘peccato’: avere sposato un ebreo. La nascita di una figlia le servì per mettere le cose a posto. Gravemente ammalatasi dopo il parto, ella istillò nel suo impetuoso, affettuoso e remissivo consorte il desiderio di fare ammenda ed egli si recò da un sacerdote per il battesimo32.

La scelta di farsi battezzare può essere anche il risultato delle insistenze di Olga, la

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