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L’integrazione e la formazione della doppia identità

I.2 L’identità multipla di Primo Le

[…] è un po’ una mia costante quella di sentirmi ibrido e impastato di materiali diversi223.

Primo Levi (1919-1987) appartiene a una famiglia ebraica di origine sefardita224, poco religiosa, colta ed emancipata, ma orgogliosa della sua identità, anche se tendeva a dissolversi con la conservazione di pochi riti. Così Levi ha fatto il bar-mitzwà225, ha portato i filatteri226 per due anni, ha mangiato pane azzimo227 a Pesach228, ha festeggiato il

Purim229:

Nella mia famiglia la religione contava poco: ritengo che questo si possa spiegare col fatto che la parità dei diritti civili, ottenuta dagli italiani non- cattolici solo verso la metà del secolo scorso, era stata frutto del carattere prevalentemente laico del ‘Risorgimento’ italiano; la partecipazione alle lotte risorgimentali comportava, se non l’obbligo, almeno un forte invito alla laicità. Cionondimeno, sia nella mia famiglia, sia nella generalità degli ebrei italiani, la coscienza del proprio ebraismo non era spenta. Si manifestava nella conservazione di alcuni rituali familiari (soprattutto le feste di Rosh- Hashanà230, di Pesach e di Purim), nell’importanza che veniva riconosciuta allo

223 G. Pacchioni, Segrete avventure di eroi involontari, in «Il Globo», 13-14 giugno 1982; ora in G. Poli, G.

Calcagno, Echi di una voce perduta. Incontri, interviste e conversazioni con Primo Levi, Mursia, Milano 1992, pp. 214-5.

224 I sefarditi sono gli ebrei di origine spagnola. Il termine Sefarad designava in ebraico la Spagna, dove la

presenza degli ebrei era molto numerosa, fino al loro esilio avvenuto nel 1492. Cfr. A. Foa, Ebrei in Europa

dalla peste nera all’emancipazione, cit., p. 92.

225 Bar-mitzwà che significa letteralmente “figlio del comandamento”, “è la cerimonia in occasione del

tredicesimo compleanno del ragazzo, che da quel momento viene considerato adulto e responsabile della propria condotta religiosa”. Cfr. G. Poli, G. Calcagno, Echi di una voce perduta. Incontri, interviste e

conversazioni con Primo Levi, cit., p. 291.

226 I filatteri “sono custodie contenenti i precetti della Torah, la Legge; si legano con strisce di cuoio alla

testa e sul braccio sinistro durante le preghiere del mattino”. Cfr. Ibidem.

227 Il pane azzimo, cioè non lievitato - in ricordo del pane che non ebbe tempo di lievitare la notte della fuga

degli ebrei dall’Egitto - si consuma negli otto giorni di festa di Pesach, in particolare durante il banchetto pasquale (seder). Cfr. Ibidem.

228 Pesach, commemorativo della liberazione degli ebrei dalla schiavitù in Egitto, è una ricorrenza che per

l’ebreo rappresenta un momento di meditazione sulla schiavitù dell’esilio. Cfr. L. De Angelis, Qualcosa di

più intimo. Aspetti della scrittura ebraica del Novecento italiano: da Svevo a Bassani, cit., p. 157.

229 Purim è la festa ebraica durante la quale si legge il libro di Ester: commemora le circostanze in cui gli

ebrei sfuggirono al massacro ordinato da Aman, crudele ministro persiano; c’è l’uso di scambiarsi i doni e di farne soprattutto ai bambini e ai poveri. Cfr. G. Poli, G. Calcagno, Echi di una voce perduta. Incontri,

interviste e conversazioni con Primo Levi, cit., p. 291. 230 Rosh-Hashanà è il Capodanno ebraico.

studio e all’educazione, e in una modesta ma interessante differenziazione linguistica. […] nelle famiglie ebree delle varie province italiane si erano sviluppate curiose varianti dei dialetti, con inserti ebraici più o meno distorti in conformità della fonetica locale231.

I suoi antenati sono ebrei piemontesi provenienti dalla Spagna e dalla Provenza: “Sono nato a Torino, nel 1919, da una famiglia moderatamente agiata di ebrei piemontesi”232. Infatti, nel racconto autobiografico Argon che apre il volume Il sistema periodico, lo scrittore ricostruisce, attraverso le abitudini, lo stile di vita e i linguaggi, la storia della sua famiglia e dell’ambiente ebraico-piemontese: un ambiente culturale e sociale ormai perduto per il suo particolare lessico familiare, che è “la lingua della famiglia e della casa”233, una “parlata scettica e bonaria”234, ormai quasi scomparsa. Si tratta di una sorta di ebraico-piemontese, la cui comicità deriva dal “contrasto fra il tessuto del discorso, che è il dialetto piemontese scabro, sobrio e laconico, mai scritto se non per scommessa, e l’incastro ebraico, carpito alla remota lingua dei padri, sacra e solenne, geologica, levigata dai millenni come l’alveo dei ghiacciai”235. Questo linguaggio suggerisce il fondamentale tema ebraico della famiglia come simbolo di intimità, di protezione e di affetto, che affonda le sue radici nella tradizione domestica, tema che d’altronde si è potuto individuare anche nel caso di Italo Svevo. La figura della madre, Ester Luzzati (1895- 1991), è emblema di tenerezza, di calore umano della famiglia, che si dedica con amore ai figli, senza trascurare tuttavia la passione per la musica e per la letteratura. Ester era laica e ciò nonostante, come ricorda Primo Levi, comprava il pane azzimo per Pesach e portava lui e sua sorella Anna Maria dal nonno “per il seder e per il carnevale di Purim”236. Anche il padre Cesare Levi (1878-1942) era laico, “pur se attaccato a talune usanze”:

Per una forma - io credo - di paura superstiziosa non mangiava carne di maiale. Però il prosciutto gli piaceva da pazzi e così, ogni tanto, ci cascava. Allora lo assaggiava, ma facendo la faccia di chi si sente in colpa, guardando noi figli con l’aria di dire: io pecco perché la carne è debole, voi non cedete,

231 P. Levi, Itinerario d’uno scrittore ebreo, in «La Rassegna Mensile di Israel», vol. I, maggio-agosto 1984,

pp. 376-90; ora in P. Levi, L’asimmetria della vita. Articoli e saggi 1955-1987, a cura di M. Belpoliti, Einaudi, Torino 2002, pp. 218-9.

232 P. Levi, Prefazione all’edizione scolastica di La tregua, Einaudi, Torino 1965, p. 5; ora in P. Levi, L’asimmetria della vita. Articoli e saggi 1955-1987, cit., p. 20.

233 P. Levi, Prefazione a Ebrei di Torino, in AA.VV. Ebrei a Torino. Ricerche per il Centenario della Sinagoga (1884-1984), Allemandi, Torino 1984; ora in P. Levi, L’asimmetria della vita. Articoli e saggi 1955-1987, cit., p. 216.

234 P. Levi, Il sistema periodico (1975), in Tutti i racconti, a cura di M. Belpoliti, Einaudi, Torino 2005, p.

369.

235 Ivi, p. 368.

comportatevi bene. Andava al tempio per Kippur perché era - come dire? - bon

ton per la Torino di allora, come per quella di oggi237.

Cesare si è laureato in ingegneria elettrotecnica, lavorando per un lungo periodo all’estero, in Belgio, in Francia e in Ungheria. Figura austera ed estroversa, amante della letteratura e della scienza, trasmette al figlio un’educazione intellettuale complessa, scientifica e letteraria, determinando in lui la ricerca della conoscenza, che costituisce la componente essenziale della sua personalità:

Ho letto molto perché appartenevo a una famiglia in cui leggere era un vizio innocente e tradizionale, un’abitudine gratificante, una ginnastica mentale [...] Mio padre aveva sempre in lettura tre libri contemporaneamente238.

Durante gli anni liceali, lo scrittore diventa un lettore appassionato di testi scientifici e nel 1937 s’iscrive al corso di chimica della facoltà di Scienze presso l’Università di Torino. Nonostante la promulgazione delle leggi razziali, nel 1941 si laurea con il massimo dei voti, ma il suo diploma contiene la menzione “di razza ebraica”:

A 18 anni mi sono iscritto all’Università, nel corso per la laurea in chimica. […] sono cresciuto e ho compiuto i miei studi in tempo fascista: non comprendevo appieno il senso oppressivo del fascismo, ma nutrivo una imprecisa irritazione e avversione contro gli aspetti più volgari e illogici della cosiddetta cultura fascista. Nel 1938 furono proclamate in Italia le leggi razziali. […] leggi assurde, inique e vessatorie; i giornali, ogni giorno, erano pieni di menzogne e di offese239.

Il racconto Zinco del volume Il sistema periodico si riferisce a situazioni e a fatti che precedono la deportazione di Levi, e rispecchia la sua condizione di ebreo assimilato e integrato nell’Italia di Mussolini che ancora non era fascista. Si è nel 1938, le leggi razziali non sono state ancora promulgate, ma se ne avverte la presenza nell’atmosfera: giornali e riviste parlano degli ebrei come diversi, come potenziali e attuali nemici del fascismo, come impuri rispetto agli italiani. E l’impatto delle leggi antisemitiche è devastante sulla popolazione ebraica italiana, che viene improvvisamente espulsa dal contesto sociale poiché considerata “inferiore”:

[…] non passava giorno senza che i giornali e le riviste ci definissero estranei alla tradizione del Paese, diversi, nocivi, abietti, nemici. […] Gli ebrei erano stati cacciati da tutti gli impieghi statali, dall’insegnamento, dall’amministrazione, dalle forze armate; i medici e gli avvocati ebrei non

237 Ibidem.

238 P. Levi, La ricerca delle radici. Antologia personale (1981), Einaudi, Torino 1997, p. XX. 239 P. Levi, Prefazione all’edizione scolastica di La tregua, cit., pp. 20-1.

potevano avere clienti ‘ariani’; nessun ebreo poteva possedere un apparecchio radio, stipendiare una persona di servizio cristiana, gestire un’impresa industriale, possedere terreni, pubblicare libri240.

In questa situazione che ha portato all’esclusione degli ebrei dalla società italiana, si può comprendere il motivo per cui in Italia, la diversità e la separazione non essendo vissute in modo così sofferto come altrove, per l’alto grado di integrazione che gli ebrei avevano raggiunto, gli effetti della persecuzione razziale sono stati doppiamente traumatici. Infatti, gli ebrei piemontesi hanno contribuito allo sviluppo della città di Torino, che senza di loro, secondo Primo Levi, “sarebbe stata diversa”:

Quando i nostri avi (per lo più non torinesi, ma residenti in gran parte nelle comunità minori del Piemonte) si sono inurbati, verso la fine del secolo scorso, hanno portato con sé il grande, forse l’unico, dono specifico che la Storia ha legato agli ebrei: l’alfabetismo, la cultura, religiosa e laica, sentita come un dovere, un diritto, una necessità e una gioia della vita241.

Per canto suo, la borghesia cristiana ha dimostrato tolleranza nei confronti degli ebrei, che erano “una classe di buoni cittadini, rispettosi della legge, leali allo Stato, alieni dalla corruzione e dalla violenza”:

Sotto questo aspetto, l’integrazione dell’ebraismo italiano è peculiare nel mondo; ma forse ancora più peculiare è l’equilibrio dell’ebraismo torinese- piemontese, che si è facilmente integrato pur senza rinunciare alla propria identità242.

In questo clima, il chimico Primo Levi, integrato a tutti gli effetti nella società d’accoglienza, trascurava la sua identità ebraica, considerava la sua appartenenza al popolo ebraico un’origine familiare, un fatto marginale, come avere il naso storto e i capelli rossi:

[…] non mi era importato molto di essere ebreo: dentro di me, e nei contatti coi miei amici cristiani, avevo sempre considerato la mia origine come un fatto pressoché trascurabile ma curioso, una piccola anomalia allegra, come chi abbia il naso storto o le lentiggini; un ebreo è uno che a Natale non fa l’albero, che non dovrebbe mangiare il salame ma lo mangia lo stesso, che ha imparato un po’ di ebraico a tredici anni e poi lo ha dimenticato243.

240 P. Levi, Il faraone con la svastica, in «La Stampa», 9 settembre 1983; ora in P. Levi, L’asimmetria della vita. Articoli e saggi 1955-1987, cit., p. 108.

241 P. Levi, Prefazione a Ebrei di Torino, cit., p. 213. 242 Ivi, p. 214.

Per Levi, essere ebreo era “qualcosa di vago, non propriamente un problema”, significava “una tranquilla consapevolezza della antichissima storia del [suo] popolo”, “una tendenza spiccata verso il mondo dei libri e delle discussioni astratte”244. Come altri della sua generazione, lo scrittore arriva a dare importanza al fatto di essere ebreo solo quando le leggi antisemitiche lo raggiungono. Infatti, le circostanze - le leggi razziali, la deportazione, il lager - hanno portato Primo Levi a un recupero dell’ebraismo rimosso, hanno determinato nello scrittore la presa di coscienza, come d’altronde nel caso di Giorgio Bassani, della sua condizione di ebreo:

Se non ci fossero state le leggi razziali e il lager, io probabilmente non sarei più ebreo, salvo che per il cognome: invece, questa doppia esperienza, le leggi razziali e il lager, mi hanno stampato come si stampa una lamiera: ormai ebreo sono, la stella di Davide me l’hanno cucita e non solo sul vestito245.

A questo proposito, Luca De Angelis definisce gli ebrei non solo in funzione di una religione o di una tradizione, ma anche in base alle condizioni sociali che, in questo caso, sono di persecuzione e di discriminazione:

[…] gli ebrei sarebbero state sì la religione, una tradizione, ma anche la persecuzione, avendo fatto riscoprire l’ebreo che viveva in loro e il conseguente senso d’insicurezza di sé e dell’avvenire che dalla condizione ebraica derivava246.

Così lo scrittore conosce la sua ebraicità e il mondo ebraico nella tragica esperienza vissuta ad Auschwitz, diventando in seguito anche uno “scrittore ebreo”, definizione che inizialmente non l’accetta poiché, come Giorgio Bassani o Italo Svevo, Levi vede la sua opera in chiave universalistica:

Dai miei lettori e dalla critica, in Italia e all’estero, io vengo ormai considerato uno ‘scrittore ebreo’. Ho accettato questa definizione di buon animo, ma non subito e non senza resistenze: in effetti, l’ho accettata nella sua interezza solo abbastanza avanti nella vita e nel mio itinerario di scrittore. Mi sono adattato alla condizione di ebreo solo come effetto delle leggi razziali, emanate in Italia nel 1938 quando io avevo 19 anni, e della mia deportazione ad Auschwitz, avvenuta nel 1944. Mi sono adattato alla condizione di scrittore ancora più tardi, dopo i 45 anni, quando avevo già pubblicato due libri, e quando il mestiere di scrivere […] ha cominciato a prevalere sul mio mestiere ‘ufficiale’

244 P. Levi, Prefazione all’edizione scolastica di La tregua, cit., p. 20.

245 F. Camon, Conversazione con Primo Levi, Garzanti, Milano 1991, pp. 71-2.

246 L. De Angelis, “Qualcosa di più intimo”. Alcune considerazioni sulla differenza ebraica in letteratura,

di chimico. Per entrambi gli scalini, si è trattato piuttosto di un intervento del destino che di una scelta deliberata e consapevole247.

L’incontro di Levi nel Lager con gli ebrei dell’Europa orientale è stato inizialmente traumatico e negativo perché gli ebrei italiani non parlavano yiddish, erano quindi stranieri “in quanto non dei loro, in quanto […] non [avevano] neppure nozione che esistesse un ebraismo […]”248. D’altra parte, le comunità ebraico-orientali, non conosciute dagli ebrei occidentali, sono una sorpresa per le loro abitudini, mentalità e linguaggi, sono anche una fonte d’interesse per la conoscenza più approfondita della tradizione ebraica. La curiosità dello scrittore torinese per questo mondo, per quello degli ebrei askenaziti, viene soddisfatta dal lungo viaggio di rimpatrio attraverso la Russia bianca e, in seguito, dalla lettura di libri di cultura ebraico-orientale. La poesia Ostjuden, scritta il 7 febbraio 1946, nasce dalla scoperta della cultura yiddish degli ebrei dell’Europa dell’Est ormai annientati dai nazisti:

Padri nostri di questa terra,/Mercanti di molteplice ingegno,/Savi arguti dalla molta prole/Che Dio seminò per il mondo/Come nei solchi Ulisse folle il sale:/Vi ho ritrovati per ogni dove,/Molti come la rena del mare,/Voi popolo di altera cervice,/Tenace povero seme umano249.

Nel romanzo Se non ora, quando? lo scrittore esprime la propria ammirazione per l’ebraismo orientale con l’introduzione dei partigiani ebrei polacchi che approdano nelle ultime pagine del romanzo in Italia e scoprono l’esistenza dei loro correligionari che, nonostante la persecuzione, continuano a essere integrati nella società:

[…] gli ebrei italiani sono strani […] Non parlano jiddish, anzi, che cosa sia il jiddish non lo sanno neppure. Parlano solo italiano; anzi, gli ebrei di Roma parlano romano, gli ebrei di Venezia veneziano, e così via. Si vestono come gli altri, hanno le stesse facce degli altri…250.

Se non ora, quando? è un romanzo storico che reca omaggio agli ebrei dell’Europa

Orientale, che hanno trovato la forza di opporsi ai nazisti, affermando la propria dignità e la propria libertà. Non si tratta di una storia vera, bensì dell’itinerario, immaginario ma plausibile, di una banda partigiana:

Ho letto tanti libri sull’argomento. Poi ho tessuto insieme i fatti che ho trovato. Quasi tutte le cose che racconto sono successe davvero. […] Invece i

247 P. Levi, Itinerario d’uno scrittore ebreo, cit., p. 218.

248 A. Bravo, F. Cereja (a cura di), Intervista a Primo Levi, ex deportato, Einaudi, Torino 2011, p. 27. 249 P. Levi, Ad ora incerta (1984), Garzanti, Milano, 1984, p. 20.

personaggi sono inventati, salvo la pilota dell’aereo partigiani P2: lei era vera251.

Per scrivere questo romanzo, Levi ha letto documenti e libri sulla cultura e sulla civiltà yiddish, raccolte di detti e di proverbi yiddish. Non a caso, infatti, il titolo del volume è preso da un noto versetto delle Massime dei Padri (Pirké Avoth). Con l’occasione, ha studiato anche un po’ di grammatica e di lessico di questa lingua:

Prima di scrivere il romanzo ho fatto otto mesi di preparazione e immersione totale. Ho smesso tutte le altre letture e ho letto storia yiddish, grammatica yiddish, libri di altri romanzieri per calarmi in questa atmosfera dell’Europa orientale […]252.

Dopo il Lager, Levi non smetterà di nutrire un vivo interesse per la cultura e per la vita ebraica, che prima non manifestava:

Sono diventato ebreo ad Auschwitz, prima non mi sentivo tale. La coscienza di sentirmi diverso mi è stata imposta. […] In questo senso, Auschwitz mi ha dato però qualcosa, che è rimasto. Facendomi sentire ebreo mi ha sollecitato a recuperare, dopo, un patrimonio culturale che prima non possedevo253.

Solo dopo questa esperienza-limite, lo scrittore inizia a formarsi una cultura ebraica, lo afferma egli stesso: “Sono un esempio tipico di ebro di ritorno”254.

Il rapporto di Primo Levi con l’ebraismo è di natura laica, intellettualistica, culturale inteso come “gioco disinteressato dell’ingegno”255 e fascino della “subtilitas”: lo scrittore apprezza la tradizione ebraica per “la flessibilità intellettuale che non teme le contraddizioni, anzi le accetta come un ingrediente immancabile della vita; e la vita è regola, è ordine che prevale sul Caos, ma la regola ha pieghe, sacche inesplorate di eccezione, licenza, indulgenza e disordine”256. Primo Levi non era religioso, si considerava ebreo non praticante e neppure credente, è rimasto per tutta la vita piuttosto agnostico. Ciò nonostante, sposa una donna ebrea e iscrive i figli alla Comunità israelitica di Torino:

251 M. Miccinesi, Un romanzo storico costruito secondo i modelli classici, in «Uomini e Libri», novembre-

dicembre 1982, p. 40; ora in G. Poli, G. Calcagno, Echi di una voce perduta. Incontri, interviste e

conversazioni con Primo Levi, cit., p. 257. 252 Ivi p. 267.

253 Ivi, p. 281. 254 Ivi, p. 291.

255 P. Levi, L’altrui mestiere (1985), Einaudi, Torino 1998, p. 184. 256 Ibidem.

Io sono ebreo come anagrafe, vale a dire che sono iscritto alla Comunità israelitica di Torino, ma non sono praticante, e neppure sono credente. Sono però consapevole di essere inserito in una tradizione e in una cultura. Io uso dire di sentirmi italiano per tre quarti o per quattro quinti, a seconda dei momenti, ma quella frazione che avanza per me è piuttosto importante257.

Levi ribadisce ancora e dichiara che “io religioso non sono”258, pur sapendo che la fede nel Lager rappresentava una grande forza di resistenza poiché permetteva di comprendere l’incomprensibile: “C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo”259. Anzi, l’agnosticismo di Levi viene rafforzato dalla sua esperienza infernale:

Sono entrato nel Lager come non credente, e come non credente sono stato liberato ed ho vissuto fino ad oggi; anzi, l’esperienza del Lager, la sua iniquità spaventosa, mi ha confermato nella mia laicità. Mi ha impedito, e tuttora mi impedisce, di concepire una qualsiasi forma di provvidenza o di giustizia trascendente: perché i moribondi in vagone bestiame? Perché i bambini in gas?260

Anche se non era credente, i suoi scritti attestano la conoscenza della Bibbia. A una lettura attenta, nell’opera di Primo Levi, si possono rintracciare suggestioni tipicamente ebraiche. Il titolo del romanzo Se non ora, quando?, ritornello di una canzone che nel romanzo diventa l’inno dei partigiani ebrei, rimanda alla tradizione ebraico-orientale, con il suo senso di assenza, di esilio e con l’incertezza del futuro:

Il lontano detto del rabbino Hillel […] era stato inserito in alcune canzoni sioniste del secolo scorso. Mi è sembrato adatto come titolo di questo libro in cui si parla di un aspetto particolare dell’Europa orientale, cioè come riscatto nazionale e come recupero d’identità. E perciò ho costruito io una canzone che è attribuita a un chansonnier ebreo mai esistito e il cui ritornello è appunto: ‘Se

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