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Economia nel perseguimento dei valori della tecnica: La differenza aristotelica tra prassi e poiesi.

Nel percorso che va dalle verità socratiche alle bugie aristoteliche ciò che il nostro denuncia è l’avvenuta scissione tra teoria e prassi a scotto dell’assioma di partenza parmenideo per cui “la stessa cose è essere e pensare” ed in cui il pensiero si arena nella riflessione inautentica nel momento in cui non sa liberarsi nella pura azione, ovvero quella che mantenga uno stretto legame con la sua pura intenzione, il suo scopo, il suo fine.

La scissione intervenuta da Aristotele in poi riguarda la differenza tra prassi e poiesis. Tale differenza sussiste in una differenza tra fini. « Mentre infatti la poiesis è un’attività produttiva, il cui scopo, costituito dall’opera messa in essere, è dunque diverso dall’attività che lo produce, è cioè trascendente rispetto all’agire, per la praxis il fine è rappresentato dall’agire stesso, ed è perciò interno ed immanente all’attività”191:“Infatti

190 U. GALIMBERTI, Linguaggio e civiltà. Analisi del linguaggio occidentale n Heidegger e Jaspers,Milano,

Mursia,1977 p.29.

191

LUCIO CORTELLA, Aristotele e La razionali,Un’analisi del dibattito filosofico sulla filosofia pratica

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della creazione tecnica v’è un fine diverso da essa stessa, dell’azione invece non ci può essere: il fine infatti è la stessa bontà dell’azione” Da ciò deriva la caratteristica tipicamente strumentale dell’operare produttivo: esso infatti non è altro che “attività- per” riferita a ciò che è altro da essa: “chiunque crea per qualche altro scopo e ciò che egli fa non è il fine in sé, bensì solo in relazione ad altro e a causa dell’altro”».192

La differenza che sussiste tra prassi e poiesis è inscritta in quella tra potenza (dynamis) e atto (energheia). L’attivtà produttiva dunque in quanto poietica dichiara la sua insufficienza rispetto all’agire stesso poiché rivolgendosi ad altro e non a sé la sua azione rimane incompiuta ed inscritta all’interno dell’ “universo del codificabile e manipolabile”193

.Differentemente la prassi, possedendo la ratio in sé stessa non si obiettiva in alcunché e rimanendo immanente al suo scopo essa consiste nell’azione stessa. Come evidenzia J.Habermas la differenza tra praxis e poiesis mette in campo una nuova separazione: quella tra politica ed etica: ciò che muove il politico non è più il fine volto al bene bensì, orientando il proprio agire sul comodo e sulla sopravvivenza egli muta il proprio oggetto che passa dall’universalità dei modi atti alla giustizia alle condizioni ossia ai mezzi volti alla sopravvivenza ed al benessere. In secondo luogo la separazione ricollega l’agire politico ad un agire strumentale ossia poietico riconducendolo alla techne che per i greci atteneva solo all’ambito produttivo. Quest’inversione di rotta fa si che nell’epoca contemporanea si ricerchi «la sicurezza del sapere tecnico-artigianale in un campo fino ad allora riservato all’inesattezza di una saggezza pratica non trasmissibile»194.

«secondo Habermas il processo è diventato poi macroscopico nell’età contemporanea, di tecno-scientificizzazione della politica, un processo che lungi dal raggiungere il suo obiettivo di razionalizzare la politica, ha prodotto proprio l’esito opposto»195

.

Per Habermas ciò ha prodotto nell’epoca contemporanea due effetti: il decisionismo in quanto “il prezzo delle scelta dei mezzi è un decisionismo scatenato sulla scelta dei fini ultimi” e l’irrazionalismo, cioè quanto non rientri nella tecnica viene posto come fatto arbitrario generando “una massa di irrazionalità nell’ambito della prassi stessa”196

Due diverse disposizioni caratterizzano i due diversi ambiti dell’agire: la disposizione poietca ovvero la techne che riguarda sia l’arte che la scienza ed è in riguardo solo

192

Ivi,p.23.

193 Ibidem. 194

J. HABERMAS, Prassi politica e teoria critica della società, Il Mulino, Bologna, 1973, pp. 77-125

195

P.25

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all’agire strumentale, e la disposizione pratica, la phronesis in italiano tradotta con prudenza o saggezza.

Essa, nonostante sia la facoltà attraverso la quale l’azione possa raggiungere l’atto, si rapporta solo in merito ai mezzi da impiegare e non ai fini. Essa è tale come disposizione individuale mentre prende la connotazione di economia, legislazione e politica quando si determina a livello collettivo all’interno della polis. Essa si differenzia dalla techne, non per una disposizione teleologica bensì solo in rapporto ad un differente “ambito di applicazione, i prakta”197

A ricollegare l’agire ad un agire in sé scevro della distinzione mezzi-fini, è dunque più che la phronesis, la quale si pone comunque in un rapporto derivato con la sophia (l’ unica che delibera a proposito dei fini) la virtù.

La virtù dianoetica che rimane iscritta nell’ambito a-priori delle facoltà umane non si acquisisce né con la ragione raziocinante né per mezzo delle conoscenze: «la virtù dell’uomo deve essere una disposizione a causa della quale l’uomo divenga buono»198

. La virtù è infatti un essere-disposti-verso-il-fine, quindi non una facoltà intellettuale con cui si conosce, ma una disposizione etica con cui l’uomo viene posto nella condizione di operare il bene. Il fine non è un fine qualsiasi che può a sua volta generare un altro fine bensì è un fine etico, è il bene come fine ultimo. Questo scopo è individuato in una finalità in grado di contenere in sé tutte le altre: la “salute” o la “eudemonìa”199

. È dunque la virtù l’aprioristica condizione garante dell’identità tra teoria e pratica e conferisce unità all’azione tra la sua intenzione ed il suo effettivo dispiegamento. La virtù non è qualcosa che necessità di essere saputa né prerogativa del dotto o del sapiente bensì è propria del buono anche là dove egli si mantenga in una condizione d’ignoranza. La virtù in questo modo si pone come oggettiva e non sottomessa a principi di ragione o di ordine superiore.

Infatti per il goriziano il motivo per cui Aristotele sarebbe tacciato di materialismo è proprio il seguente: “Cercare negli individui inferiori la causa razionale dei superiori è la caratteristica del materialista, ma a se stesso non è ragione nessun individuo poiché la finalità metafisica è negazione della finalità fisica – e l’ultima conoscenza è la

197

L. CORTELLA, Aristotele e la razionalità,cit.,p. 46.

198

Etica .Nicomachea, II, 1106a 22-23

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negazione della coscienza l’uomo vede l’identità col tutto e con sé stesso nel nulla nella volontà che intanto è quanto non è”200

Dunque più che la pronesis, la quale si mantiene sempre dal lato della pratica collegata ai fini e la sophia che invece rimane aggrappata all’ambito teoretico sebbene sia la sola a deliberare a proposito dei fini, la virtù è il principio unificatore che precede la distinzione della teoria e della pratica.

Inoltre la virtù non è specificatamente una inclinazione naturale bensì la natura dispone l’uomo affinché si possa comportare eticamente ma è solo e soltanto con l’esercizio della virtù che essa può essere padroneggiata e messa in pratica concretamente. «la natura ci offre dunque solo la disponibilità a comportarci secondo virtù, non certo la capacità»201.

«La virtù etica è dunque un “sapere” che sta a metà tra quello “innato” delle facoltà naturali e quello “appreso” con l’istruzione».202

L’inversione mezzi-fini a proposito della differenza instaurata da Aristotele tra teoria e prassi può essere spiegata considerando la differenza che intercorre tra la mentalità greca e la morale cristiana. Nella prima la natura è il tutto immutabile, entità che governa tutte le cose attraverso la normatività dell’ anánke, i suoi equilibri non disturbati né tantomeno la tecnica può usare metodi contro di essa. La morale cristiana offre invece all’uomo il frutto della natura come prodotto e come dominazione, giustificando la tecnica anche la dove si presenta come sofisticazione o sopraffazione nei suoi confronti.

Abbiamo già accennato riguardo alla questione esistenziale come per filosofo goriziano l’uomo nella società non possiede o ha perduto la propria virtù. La virtù non è una condizione aprioristica dell’uomo bensì è posta alla sua base la condizione di iperbolicità per mezzo della quale l’uomo può solo avvicinarsi alla giustizia, il sommo bene attraverso una sconfinata azione che sia giusta per sé e per gli altri e che comunque non riuscirà mai a lambire la retta della giustizia.

Non essendo in sé originaria la virtù non può conferire all’azione l’immanenza del fine che le corrisponda. Ciò di cui il Goriziano non si avvede è che egli pone al di sopra di sé la realizzazione della propria virtù venendo così essa a consistere in un’ideale

200

C. MICHELSTAEDTER, Opere,Scritti vari, cit. p808.

201

L. CORTELLA, Aristotele e la razionalità,cit., p.58.

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trascendente nell’ al di là del desiderio, il quale congenitamente si configura come irraggiungibile, e pone dunque la volontà che lo muove come volontà di dominio. Questo probabilmente il motivo del suo arenamento nei confronti di qualsiasi azione che non trova nessun compimento. Difatti l’unico capace di compiere un’azione pura, un atto (energheià) è la figura dell’eroe il quale però vive completamente in preda e succube della sua soggettività che fa sconfinare la sua azione nel campo trascendente alla vita, ossia la morte, estremo sacrificio.

Nonostante la disposizione nei confronti di un fino etico la sua trascendenza si traduce in impossibilità di dispiegare l’azione e di tradurla in atto, almeno per quanto concerne la vita concreta.

Anche l’ideale di persuasione dunque consiste in questo travalicamento nella sfera della morte come conseguimento dell’assoluto.

Ciò che invece egli guarda nitidamente nella nascente società contemporanea203 è la fuoriuscita dell’etica dal campo della politica e la sostituzione della tecnica che guarda ai mezzi e non ai fini. La condizione aprioristica che muove l’uomo nei confronti dell’azione è il meccanismo, ossia il mito del progresso o della rivoluzione scientifica, il quale viene perseguito nell’irrazionalità sotto le mentite spoglie del soddisfacimento dei bisogni. Ciò che muove l’uomo non è la soddisfazione del singolo bisogno fine a sé stesso bensì la vana speranza di poter provvedere attraverso la pianificazione ed il calcolo all’estinzione del bisogno ed approdare in questo modo alla salvezza, all’effettivo dominio di sé.

In effetti il mito positivista non ha in sé alcuna disposizione teleologica, non predispone nessun fine se non quello “dell’auto potenziamento di sé stesso”, la virtù che lo muove dunque si presenta anch’essa come dissociata dalla sua effettiva realizzazione e viene a consistere in un ideale trascendente, anche’esso desiderio che pone oltre di è la sua realizzazione:

203 C.Salinari: “probabile che un’analisi meno di maniera della cultura italiana precedente la prima guerra

mondiale debba proprio riconoscere in Michelstaedter e in Pirandello gli scrittori che riuscirono a cogliere gli aspetti più profondi della società del loro tempo” (C. SALINARI, Miti e coscienza del decadentismo

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