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Come già accennato, l’economia della Valle Seriana si basa su tre grandi pilastri: l’allevamento, il tessile, l’estrazione e la lavorazione dei minerali. Questa varietà di attività fa sì che questa regione, pur essendo terra di forte emigrazione (non da ultimo verso la Dominante42),

non presenti le caratteristiche di quelle terre alpine e prealpine della vicina Lombardia occidentale, nella quale l’economia è limitata al dualismo tra un regime locale di mera sopravvivenza ed un regime di esportazione di braccia nelle terre più ricche, sia in Italia sia all’estero43. In particolare, a fare la differenza rispetto a queste situazioni è la condizione delle

donne, pienamente inserite sin dal XIV secolo nel del circuito del tessile, che permette la piena integrazione anche di questa parte di manodopera all’interno di un’economia monetizzata, invece di tenerla confinata in attività dure ma poco produttive come quelle dell’agricoltura di montagna.

La produzione cerealicola ha rese molto basse: a seconda delle località si ottengono prodotti sufficienti dai tre ai nove mesi per anno, quindi sempre deficitarie. Questo stato di cose implica che vi sia la necessità di trovare forme di impiego che diano la possibiltà di attingere ai mercati, e che quindi forniscono una provvista monetaria. Rientrano in questa categoria i tre settori trainanti già citati, ma anche quelle forme di silvicoltura in cui spesso ritroviamo come agenti economici gli stessi Comuni: la coltivazione di legname (che potrà poi essere riutilizzato ad esempio nel settore delle costruzioni e che è utile anche alla produzione, sempre locale, di calce da utilizzare ancora in quest’ultima attività), il castagneto (che è anche una fonte di alimenti), la produzione di carbone44.

Troviamo traccia di un’attività fiorente di allevamento un po’ dovunque: nei documenti di tipo cronachistico o memorialistico, quale la Descrizione, ma anche nelle tipologie daziarie, 42 Cfr. A. Zannini, L’altra Bergamo in laguna: la comunità bergamasca a Venezia, in Storia economica e sociale di Bergamo, vol. III, tomo II, pp. 175-194.

43 In particolare mi riferisco alle situazioni descritte da R. Merzario in Adamocrazia. Famiglie di emigranti in una regione alpina (Svizzera italiana, XVIII secolo), Bologna 2000.

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nelle regole che sovrintendono alla loro applicazione, nelle scelte di investimento collettivo da parte dei Comuni (che mantengono ampi pascoli sia per i propri vicini sia come bene da porre in affitto45). In generale si tratta di allevamento di transumanza, non solo bovino: della cosa rimane

traccia nei calendari dei dazi come l’erbatico, che riguardano l’ingresso e la permanenza sul territorio di un Comune (quindi anche nei suoi pascoli) degli animali d’allevamento; tali documenti provano l’ingresso delle bestie in vari momenti dell’anno. L’allevamento bovino è il settore più redditizio; esso inizia a formare dei circuiti di transumanza a partire dal XIII secolo46, ma mostra, proprio negli anni considerati in questo studio, un decollo vero e proprio,

con conseguente formazione di un ceto di allevatori, chiamati bergamini, che non conducono soltanto i capi dai pascoli della Lomellina sino alle terre della montagna bergamasca, ma che posseggono capi ed anche dei pascoli di pianura47. Tale fenomeno conferma peraltro la

ricchezza di questa parte della Bergamasca, definita seconda solo al capoluogo.

Se consideriamo invece il numero complessivo di capi, così come viene presentato dal Da Lezze, si può notare un numero cospicuo anche di ovini e caprini, il cui mantenimento è anche meno oneroso e la cui presenza potrebbe indicare, quindi, attività nel settore di persone e famiglie a reddito inferiore. Questi animali sono però troppo pochi per soddisfare i bisogni della manifattura tessile, la cui materia prima dev’essere quindi importata. Da questo punto di vista già i commentatori contemporanei osservavano la difficoltà per questo mercato periferico in presenza dell’obbligo di far passare da Venezia questo genere di merci, misura che mette fuori gioco un rifornimento, ad esempio, dall’alternativo mercato genovese e che rincara i prezzi di eventuali forniture provenienti dall’Europa centrale48. In realtà, malgrado questi problemi di non

45 Cfr. cap. quarto.

46 Cfr. F. Menant, Bergamo comunale, cit., p. 84 e 132 e P. Grillo, Le campagne bergamasche nel XIV secolo: agricoltura e società rurale, in Storia Economica e Sociale di Bergamo, vol. II, cit., pp. 365-367; M. Cattini, M. A. Romani, Bergamo e la sua economia, cit., p. 7.

47 Cfr. E. Roveda, Allevamento e transumanza nella pianura lombarda: i Bergamaschi nel pavese tra ‘400 e ‘500, in Bollettino della Società pavese di storia patria, n. 40 (1988), pp. 12- 34.

48 D. Sella, Le attività manifatturiere nelle valli bergamasche, in Storia economica e Sociale di Bergamo, vol. III, tomo III, pp. 96-97

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poco conto, questo settore appare molto vitale soprattutto per una caratteristica praticamente unica. Nella valle non vi sono infatti organismi corporativi che possano frenare in alcuna maniera l’adattarsi al mercato delle piccole imprese locali. Tale assenza fa sì soprattutto che non vi siano dei regolamenti sulla produzione, e che quindi si possano variare le tipologie di panni prodotti seguendo appunto la richiesta o, talvolta, addirittura copiando modelli particolarmente in voga e perciò redditizi49. Questo genere di mutamento non sarebbe stato possibile in presenza

di regolamenti corporativi, che comprendevano normalmente descrizione degli standard per tipologia prodotta o venduta. È particolarmente rilevante il fatto che questa capacità di adattamento da parte di un intero settore denota anche la capacità di mantenere sotto stretta osservazione il polso della domanda sui mercati più importanti del continente, con un patrimonio di presenze e non di poco conto non di poco conto su queste piazze.

Sempre in questo periodo, le manifatture tessili sono sempre meno dipendenti dal capitale cittadino; la forma di organizzazione delle maestranze continua ad essere, fino a tutto il XVII secolo, quella classica del lavoro a domicilio tramite putting out, forma che peraltro non necessita di grandi capitali50; non vi è l’introduzione della lavorazione della seta, di cui proprio

il Cinquecento vede un primo boom in Lombardia. Infine, un fattore molto importante per la competitività della produzione laniera di valle sembra essere stato il basso costo della manodopera, numerosa, occasionale e per lo più femminile. Il tessile è dunque un settore estremamente ricco, il che paradossalmente frena la sua capacità di sviluppo produttivo verso forme più evolute (in primis verso la manifattura serica) e, di conseguenza, a partire dalla seconda metà del XVII secolo provocherà prima un ristagno e poi un crollo della domanda per il tipo di prodotto offerto dalla Val Seriana.

È importante infine considerare il settore dell’estrazione e della lavorazione dei metalli. La Val Seriana è ricca di miniere, sfruttate sin dall’età romana; si tratta di giacimenti di piombo, di argento. Tali risorse sono sfruttate da minatori stagionali, attivi soprattutto durante il periodo

49 ibidem, pp. 93-96.

50 W. Panciera, Il lanificio bergamasco nel XVII secolo: lavoro, consumi e mercato, in Storia Economica e Sociale di Bergamo, vol. III, tomo III, pp. 101-102 e P. Mainoni, Economia e politica nella Lombardia medievale. Da Bergamo a Milano fra XIII e XV secolo, Cavallermaggiore, 1994, pp. 34-51

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invernale, secondo tecniche comuni all’area compresa tra il lago d’Iseo e il Lario51, che godono

di buona fama anche al di fuori dell’area lombarda: molti minatori provenienti da questa zona sono infatti rintracciabili nella regione boema e tedesca52. La lavorazione dei minerali è presente

soprattutto nella Valle inferiore, in prevalenza nella forma di lavorazioni di precisione, come quelle di forbici ed aghi, o nel settore delle armi53. Un tipo particolare di attività estrattiva è

quello della produzione di coti, presente nelle valli di mezzo e inferiore.

Dal punto di vista della commercializzazione dei prodotti, la Valle Seriana dovrebbe dipendere totalmente dal mercato bergamasco, con i relativi dazi tesi appositamente ad intercettare parte della ricchezza prodotta sul territorio a beneficio del Comune cittadino. Almeno per ciò che riguarda il tessile bisogna però considerare il ruolo del mercato di Vertova, attivo sin dal XIII secolo54 e dotato di sbocchi sulle piazze dell’est europeo tedesco ma anche

polacco. Tale posizione non è mal vista dalla Dominante, che permette la continuazione di queste attività, ponendosi solo il problema, cui abbiamo già accennato, relativo all’obbligo, o meno, del passaggio attraverso la tappa veneziana di Rialto.