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Il ruolo dei beni comunali come risorsa finanziaria

Imposizioni sulle bestie, sulla carne e sui latticin

1. Il ruolo dei beni comunali come risorsa finanziaria

Come abbiamo accennato nel capitolo terzo, di fronte ad un ricorso endemico al prestito per far fronte alla domanda fiscale della Dominante le comunità della Val Seriana devono trovare strumenti per ripianare il proprio bilancio. Le soluzioni adottate sono fondamentalmente l’applicazione di taglie locali aggiuntive e, in alcuni casi, l’utilizzo dei ricavati dai beni comunali, mutandone il sistema di gestione in modo da ricavarne quanto più possibile profitto e, di conseguenza, prezioso numerario per pagare creditori pubblici e privati.

Questa mutazione, è stato già accennato, si accompagna alla rivalutazione del ruolo del canepario in senso più imprenditoriale e, si può dire, con un ruolo molto più attivo nella diretta gestione delle finanze pubbliche. Il cambiamento di indirizzo nella gestione dei beni comunali è quindi parte di una più generale tendenza di alcune comunità a riconfigurare l’antica istituzione comunale in modo tale da adattarla a condizioni di economia politica e di mercato che, nella loro mutabilità, mettono in forte difficoltà i bilanci e quindi l’autonomia dei Comuni stessi, cedendo parte di questa autonomia ad alcuni individui e, in contemporanea, preservando i vicini dall’impoverimento che minaccia di minare gli equilibri politici locali col sopraggiungere di inasprimenti imprevisti della pressione fiscale. In questo senso, i beni comunali entrano pienamente a far parte del sistema fiscale, in quanto diventano un ingranaggio fondamentale per il pagamento di quella quota di fiscalità che risulta più minacciosa per la stabilità delle finanze comunali, quella della Dominante, la cui pressione può espandersi in modo improvviso e incontrollabile.

Molti indizi indicano nel Quattrocento la fase iniziale di questa evoluzione. È infatti durante questo periodo che si stabilizzano le basi normative e si formano, per così dire, gli ingranaggi che appaiono ben rodati durante il secolo successivo, quando abbiamo accesso alle fonti amministrative. Nel XVI secolo il sistema capitalistico dei beni comunali ha un suo ritmo annuale, che corrisponde al ciclo di vita delle foreste e dei pascoli, una standardizzazione delle scritture amministrative e del personale ad esso addetto. Se consideriamo quella parte degli Statuti che viene aggiornata dall’arengo dei Comuni, ossia gli Ordini, non troviamo grandi innovazioni in questa materia, come potrebbe accadere (tanto per rimanere in tema di fiscalità e finanza) per le tariffe daziarie.

Siamo davanti quindi ad un sistema stabile (caratteristica importante per garantirne la tenuta agli occhi dei potenziali investitori), ma che è comunque in grado, di fronte a pressioni derivanti da un’inasprimento della domanda fiscale della Repubblica, di reagire senza che vi

siano scompensi particolari nel mercato. La maturità di questa evoluzione è tanto più sorprendente quanto più si consideri che, nei Comuni in cui si mantiene l’antico sistema di sfruttamento, che chiameremo comunistico o autarchico (ancora ben vivo in parallelo al nuovo corso), è proibita addirittura ogni tipo di alienazione temporanea di queste risorse; ora, è proprio il concetto di alienazione temporanea che sta alla base del nuovo sistema, concepito in modo da garantire in misura egualmente forte i diritti del Comune e le tutele per gli investitori.

Bisogna infine accennare ad una caratteristica molto importante del gruppo degli investitori stessi. Da ciò che si deduce dalle numerose liste fornite dai documenti amministrativi, essi provengono in nettissima maggioranza dai vicini dello stesso Comune cui fanno capo le risorse poste all’incanto e, in parte molto inferiore ma comunque presente, da comunità vicine. Questo sistema di sfruttamento presenta perciò altri tre corollari di non poco conto: esso permette di rastrellare ulteriori risorse fiannziarie direttamente dalle comunità stesse; in secondo luogo impedisce senza che vi sia l’impoverimento che comporta il prelievo fiscale (senza ritorni di investimento sul territorio), offrendo anzi supporto ad iniziative imprenditoriali già presenti; infine, rafforza la presa di famiglie e individui già censitariamente dominanti all’interno del nucleo dei vicini sull’ambiente sociale, economico e politico in cui essi si muovono. Si tratta quindi di uno strumento che stabilizza e rafforza, in ultima analisi, il Comune valligiano.

I benefici per i vicini non si finiscono però soltanto sul piano finanziario e quindi fiscale. Intorno ai beni comunali si viene a creare un mercato che, in tutte le sue fasi (incanti di beni, di prodotti, emolumenti elargiti ai magistrati per il controllo dei beni stessi, salari pagati per opere di manutenzione), coinvolge una buona fetta della popolazione. Non si tratta di un fenomeno che coinvolge sempre l’interezza della popolazione vicinale, soprattutto nei suoi aspetti più lucrosi; esso si concentra piuttosto verso quelle fasce di famiglie che controllano il Comune (esattamente come per il mercato dei dazi) e a quelle subito loro continue, con cui le prime sembrano mantenere in varie maniere rapporti di alleanza. Più in generale, credo sia possibile affermare che, riservando più o meno esplicitamente parti di mercato delle materie prime ad alcuni individui o alcune famiglie, il sistema dei beni comunali rimuove per esse una parte importante di concorrenza esterna, potenzialmente sostenuta nella propria azione economica da finanziatori più ricchi o cittadini. È perciò discernibile una volontà politica di preservare e aiutare queste posizioni agevolate, che non soltanto assiste il Comune nel mantenere la propria autonomia finanziaria e quindi politica, ma garantisce un margine di prosperità e di mantenimento sociale ad una classe censitaria.

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Riterrei che, almeno in parte, tale integrazione nel quadro sociale e politico in cui si sviluppa questa mutazione sia una delle ragioni della nascita e del conservarsi di questo sistema. Altre grandi spinte a che si formasse il sistema di sfruttamento dei beni comunali in gestione capitalistica sono, nell’ordine, il noto peso fiscale dello Stato Regionale, sempre crescente, la già citata penuria di numerario, comune in questo periodo, che faceva da ostacolo al pagamento delle imposizioni allo Stato stesso, il ricorso al credito che è il primo rimedio a questi due bisogni, con il quale si è reso necessario tradurre in moneta tutto quel patrimonio per così dire in natura di cui i Comuni “mutanti” non avrebbero altrimenti beneficiato. Si potrebbe ulteriormente sostenere che la differenziazione tra queste comunità e le altre sarebbe da ricercare nell’entità dei communalia, ma, ritengo, si debba anche considerare che una tale mutazione radicale sia più che altro una scelta politica fatta in modo più o meno consapevole e, anzi, ritagliata sui bisogni sia del Comune che delle élite al comando.

Poiché si è scelto un approccio anche socioeconomico a questo argomento, in modo da misurare l’impatto del sistema dei beni comunali sulla realtà contemporanea, in questo capitolo si è scelto, ove questo è stato possibile, di dare un peso maggiore a quei dati di natura prosopografica che si ricavano da fonti notarili ed amministrative: si è trattato di trovare dei legami tra le persone che potessero dire di più sul profilo sociopolitico di una famiglia o di un gruppo di famiglie implicate in questo mercato.