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Primi interventi

Quando agli inizi del secolo l’intervento pubblico per la realizza­ zione di abitazioni economiche si organizza in Italia con la costituzione degli Istituti autonomi per le case popolari, qualche decennio di vita nazionale ha accelerato il moto di sviluppo delle nostre città. Gli agglo­ merati urbani si vanno trasformando ed' espandendo, tuttavia con tempi e modi ancora tali da non dar luogo a manifestazioni tanto tumultuose e contraddittorie come quelle che in altri paesi sono state provocate da un più impetuoso sviluppo industriale. Inoltre molte nostre città sono state per lungo tempo importanti centri regionali o addirittura capitali di piccoli stati; hanno svolto una funzione che ha dato particolare ric­ chezza e complessità alla loro struttura urbana. Lo sviluppo della fine dell’Ottocento ha rappresentato per questa struttura un urto, violento ma non troppo, che l’ha incrinata ma non l’ha ancora infranta, e chi bada soltanto alle apparenze può pensare che l’antico organismo citta­ dino sia sempre in grado, con qualche modifica, di far da sostegno alla crescita futura. A questa infondata fiducia si accompagna la presunzione che il linguaggio architettonico corrente, erede di una magnifica tradi­ zione secolare, abbia capacità di dare ordine e decoro agli ambienti urbani che si vanno formando, e di renderli omogenei con le parti preesi­ stenti della città.

In realtà quegli stessi problemi che stanno per sconvolgere le nostre strutture urbane, sono le ragioni di una crisi rivoluzionaria della conce­ zione dell’architettura, di cui pure tra noi non si ha fino allora consa­ pevolezza. Per il ritardo nel progresso industriale e sociale, e per la maggiore possibilità di equivoco che ne consegue neH’orientamento della cultura architettonica, in Italia resiste di più l’illusione che il volto della città possa risultare configurato da una semplice somma di interventi singoli; contro questa concezione liberistica da noi non vengono ancora opposte quelle alternative che, in forme ora utopistiche ora pratiche, impegnano la ricerca dei migliori urbanisti nel corso dell’ultimo secolo.

Concepire liberisticamente lo sviluppo urbano significa ovviamente vincolare meno che si può l’attività edificatoria. Oltre ad alcune norme igieniche elementari e all’obbligo di rispettare l’allineamento stradale, una è la regola fondamentale: quella che fissa un limite all’altezza

dei fabbricati in funzione della larghezza della strada su cui prospettano. Poiché i princìpi della libera concorrenza richiedono che ogni proprie­ tario sia egualmente messo in condizione di sfruttare come meglio può e sa il suolo di cui è in possesso, si cerca di mantenere costante la lar­ ghezza delle strade (e tende ad annullarsi la gerarchia tra vie principali e secondarie) e di ripartire il terreno con la maggior regolarità. La forma della scacchiera diventa quella della città ideale; con il risultato paradossale che lo schema più rigido è quello a cui aderisce meglio il sistema di espansione urbana più sregolato. In effetti questa uniformità si determina nel tessuto edilizio perché la speculazione è riuscita a imporre dappertutto la forma che le è peculiarmente adatta. Chi traccia i piani suddivide intieramente il terreno ediffcabile in lotti tagliati in modo conveniente all’edilizia privata, senza preoccuparsi del fatto che una parte di essi servirà invece per costruzioni di uso collettivo. La nuova sede di uffici pubblici o la nuova scuola o la nuova chiesa va a occupare uno o più di quei lotti, si incastra più o meno casualmente là dove la rete degli edfici privati lascia la smagliatura di un terreno non ancora utilizzato.

Se attrezzature collettive tra le più importanti e più legate alle tradizioni della vita civica, debbono adattarsi in lottizzazioni fatte per edifici di tutt’altro genere, a maggior ragione i primi interventi pubblici per la costruzione di case popolari dovranno subire la stessa sorte. Questi interventi di tipo nuovo e non ancora caratterizzati agiscono proprio nel settore dell’edilizia residenziale, che è quello in cui l’attività privata si è più sviluppata; ne sono ancor più condizionati e ne subiscono forte­ mente l’influenza; anzi le prime esperienze si riallacciano a precedenti esempi che la speculazione ha realizzato. Anche nell’aspetto esterno il casamento popolare è un’imitazione, con materiali e decorazioni più po­ veri, del palazzo borghese; è un altro caso deH’incongruenza che contrad­ distingue l’architettura di quel periodo. Gli alloggi per i cittadini più disagiati sono concepiti in maniera affatto differente da quelli di maggior costo, talvolta costituiscono organismi edilizi nuovi, come quando si dispongono lungo ballatoi che affacciano sui cortili interni; ma questo si vede solo dietro la facciata, che non ne rivela alcun segno. Le abita­ zioni economiche realizzate con finanziamento pubblico, raggruppate in nuclei i quali non oltrepassano in genere una dimensione limitata, si amalgamano nell’ordinario tessuto urbano. Ma pure se si tratta di inter­ venti più massicci, respinti perciò verso l’estrema periferia, i quartieri operai distaccati dal corpo compatto della città si modellano sulle forme consuete così fedelmente che quando, più tardi, sono raggiunti dalla espansione edilizia prodotta dalla speculazione, il processo di assimila­ zione si riproduce senza troppe difficoltà.

Questa congenialità nello sviluppo urbano tra edilizia privata e pub­ blica è stata di recente giudicata positivamente, tanto da indurre alcuni a proporre, come sistema migliore per evitare molti attuali inconvenienti degli interventi pubblici in questo settore, quello di tornare a conformarli alla pratica delle imprese private. Ma a ben guardare, oltre la sua appa­ renza, l’esperienza di quaranta e più anni fa, è esatto parlare, più che

di congenialità, di subordinazione passiva. La condizione che può allora rendere simili tra loro attività edilizie diverse è che il problema della casa a basso costo non abbia avuto possibilità di trovare una sua defini­ zione ed espressione. L’esigenza oggi giustamente molto viva di riuscire a collegare disparate iniziative edilizie nell’unità di uno sviluppo urbano omogeneo, va posta in termini contemporanei, che sono tutt’altri. Non si può non tener conto che l’edilizia economica è divenuta un’attività complessa, con un ruolo ben più importante, e che oramai aver fiducia nella spontaneità come metodo capace di dare un volto alla città è nostal­ gia reazionaria bell’e buona.

Una parentesi di vent’ anni

Dopo un lungo periodo di molti progetti astratti e di esperienze pratiche limitate, il problema della casa a basso costo viene decisamente in primo piano e si impone alla cultura architettonica europea negli anni seguenti alla prima guerra mondiale. Per le conseguenze del conflitto e per le richieste avanzate dalle classi lavoratrici, ora politicamente più forti, la questione delle abitazioni si pone in termini perentori. Intorno all’argomento ha inizio una ricerca seria e appassionata, la quale dap­ prima si applica essenzialmente allo studio della tecnica costruttiva e dell’organizzazione funzionale dell’alloggio, allo scopo di ottenere la mas­ sima economia. Poi l’attenzione degli architetti procede naturalmente al di là dell’analisi della singola abitazione; la convenienza di adottare elementi costruttivi standardizzati porta con sé la realizzazione di serie di case tra loro simili o uguali ; le progredite esigenze di vita degli abi­ tanti hanno bisogno non soltanto della casa ma, insieme con essa, di attrezzature e di servizi pubblici che ne siano l’organico complemento.

Di qui hanno origine la complessità della questione e la sua impor­ tanza nello svolgimento della cultura architettonica contemporanea. La indagine, impostata secondo criteri nuovi, dei problemi tecnici e funzio­ nali dell’abitazione, genera un metodo razionale di progettazione che e esteso a ogni altro tipo di edifìcio e diventa il fondamento del lavoro degli architetti moderni. Il problema della casa economica viene a costituire un passaggio risolutivo di ricerche condotte per quasi un secolo. Gli sforzi per rinnovare l’architettura si sono fino allora indirizzati secondo alcuni filoni principali, sviluppati anche indipendentemente l’uno dall’altro; da una parte è cambiato il gusto dell’arredamento, aderendo ai nuovi sistemi con cui si producono mobili e oggetti ; da un’altra parte la tecnica costrut­ tiva è straordinariamente progredita, esprimendosi però soprattutto nel­ l’invenzione di grandi strutture ; da un’altra parte ancora la previsione degli urbanisti ha cercato di presagire i lineamenti di una nuova idea della città. Nella questione delle abitazioni consiste il punto dove le varie direzioni di ricerca possono riunirsi e riannodarsi; la costruzione dei quartieri operai rappresenta in un certo periodo 1 occasione più adatta a manifestare più completamente in vari aspetti una nuova concezione dello spazio. Per questa e per altre ragioni, tra cui in primo luogo

l’impegno civile che essa comporta, l’edilizia popolare è un elemento che dà la misura del livello della cultura architettonica e urbanistica nei vari paesi.

Alla faticosa elaborazione che intorno al tema della casa si compie nei vent’anni fra le due guerre, puntualizzandosi di volta in volta in esempi illustri, da Amsterdam a Vienna, da Francoforte a Zurigo, a Stoccolma, l’Italia non porta un contributo degno di nota. Anche da noi un certo numero di progettisti qualificati comincia a rivolgere atten­ zione al problema, ma non riesce a riconoscere con immediatezza gli elementi profondamente rinnovatori che esso implica; l’architettura delle nostre abitazioni economiche si distingue appena timidamente da quella degli edifìci di maggior pregio, ancora fortemente impregnata di conser­ vatorismo accademico. Tuttavia già l’interessamento da parte di noti architetti e ingegneri può preannunciare un prossimo progresso ; ma il cammino non si può ancora dire chiaramente iniziato, che viene inter­ rotto. Con il dominio del fascismo la situazione è del tutto sfavorevole allo sviluppo dell’edilizia popolare; la questione delle abitazioni econo­ miche assume infatti più o meno significato anche a seconda del peso politico che hanno le categorie sociali interessate alla sua soluzione. L’indirizzo culturale imposto disorienta l’architettura italiana dalle ri­ cerche vive, proponendole come modello il monumentalismo più retorico; 1 pochi che resistono senza perdere il contatto con la più avanzata archi­ tettura europea, insistono sull’importanza preminente che ha il tema della casa a basso costo, ma non gli è consentito andare oltre all’afferma­ zione di principio; dibattono il problema in articoli e libri, lo espongono in mostre, ne tracciano soluzioni in progetti destinati a restare sulla carta, ma sono esclusi, tranne per qualche rarissima e limitata occasione, dall’esperienza pratica, proprio da quel contatto con la realtà che sempre ne ha portato avanti l’elaborazione.

Nello stesso tempo decade l’attività degli Istituti case popolari, che si rinchiudono entro i confini del soccorso filantropico, quando addirit­ tura non si prendono l’incarico di costruire quelle borgate, destinate a coloro che gli sventramenti deH’urbanistica imperiale espellono dalla città, ben presto molto tristemente famose come luoghi di una vita impossibile. Anche la struttura degli istituti è modificata; sorti nel pe­ riodo giolittiano, nel quadro del tentativo di dare un’organizzazione razionale allTtalia borghese, si erano costituiti soprattutto per iniziativa di comuni, banche popolari e casse di risparmio, che davano aree e finan­ ziamenti; gli enti che contribuivano avevano rappresentanti nella dire­ zione dell’istituto, in cui erano però più numerosi gli eletti dal consiglio comunale, ai quali spesso si aggiungevano delegati degli inquilini e dei lavoratori. Con il fascismo, i dirigenti degli istituti sono scelti diretta- mente o indirettamente dall’alto; e ancora oggi questa procedura è stata corretta solo in piccola parte, il presidente è nominato dal Ministero dei lavori pubblici, e la designazione di quei consiglieri che una volta spettava a organizzazioni, sindacali o di altro tipo, dipendenti dal partito fascista, è demandata alla Prefettura.

L a ripresa dopo il ’ 45

Deficienze organizzative e culturali si scontano quando, dopo il ’45, il problema della casa ci si pone con maggiore acutezza, in un’Italia dove le distruzioni belliche lo hanno reso più grave e dove le masse popolari, che attraverso le vicende della guerra hanno assunto un nuovo ruolo nella vita nazionale, sviluppano giustamente le loro esigenze e le fanno avvertire con un diverso peso. Anche da noi si cerca allora di affrontare il problema dell’abitazione con metodi e strumenti più moderni.

Nel 1949 comincia a essere attuato il Piano settennale che, promosso dall’allora Ministro del lavoro on. Fanfani, si propone di ridurre la disoc­ cupazione attraverso un aumento dell’attività edilizia. Non è qui il caso di discutere le ragioni per cui si è preferito perseguire quell’obiettivo potenziando un’industria che non crea fonti di lavoro1 stabili. Forse, poiché per realizzare il Piano si esigeva un contributo finanziario anche da parte dei lavoratori, si è pensato che l’aggiunta di un’altra trattenuta, pure se molto lieve, sui salari e sugli stipendi, richiedesse una contro- partita quanto più possibile evidente, quale certo era efficacemente rap­ presentata in quegli anni dalla costruzione su vasta scala di alloggi eco­ nomici. In base alla legge del Piano i dipendenti dell’industria, del com­ mercio, del credito, di enti e amministrazioni pubblici, versano a fondo perduto un contributo pari al 0,6% delle loro retribuzioni; una quota doppia, pari all’1,2% delle retribuzioni dei propri dipendenti, è a carico dei datori di lavoro, fatta eccezione per le amministrazioni statali, pro­ vinciali e comunali e per gli istituti pubblici di assistenza e beneficienza. I versamenti dei lavoratori e dei datori di lavoro, che nel settennio ’49-’56 di applicazione del piano, sono stati pari a 135 miliardi, rappresentano circa un quarto del finanziamento complessivo ; un altro terzo consiste in contributi statali, di 240 miliardi, ripartiti in un più lungo periodo di venticinque anni, e il rimanente, pari a 275 miliardi, nelle quote di affitto o di riscatto degli alloggi frattanto costruiti, riscosse durante lo stesso venticinquennio. Il

Il Piano, come si è detto, è promosso dal Ministero del lavoro, che fino allora non si è interessato direttamente attraverso i suoi organi dell’intervento pubblico nell’edilizia; si impianta quindi, per la circo­ stanza, una struttura organizzativa nuova, centralmente indipendente dagli apparati burocratici che hanno agito abitualmente nel settore, e con alcune caratteristiche particolari. In primo luogo per i compiti ammi­ nistrativi non si costituisce un’organizzazione apposita, ma e utilizzata quella dell’Istituto nazionale assicurazioni; e da ciò è venuta al Piano la denominazione INA-Casa. In secondo luogo al centro i comitati di attuazione e di gestione del Piano, a cui partecipano anche alcuni rappre­

sentanti di organizzazioni sindacali e cooperativistiche, e i funzionari che ne dipendono, hanno essenzialmente compiti di pianificazione, di rego­ lamentazione e di controllo ; in larga misura il lavoro esecutivo è deman­ dato, nelle sue varie fasi, ad altri enti e persone, che lo svolgono appunto sotto la vigilanza dell’organismo centrale.

I progetti sono affidati a liberi professionisti, indicati in numero di alcune centinaia attraverso concorsi nazionali; debbono essere redatti secondo alcune prescrizioni date e ricevere l’approvazione di una commis­ sione apposita. La segnalazione delle aree da acquistare, la presenta­ zione dei progetti alle autorità comunali e locali che debbono autorizzarne l’esecuzione, l’espletamento dell’appalto, la direzione dei lavori sono fun­ zioni in tutto o in parte delegate a enti già costituiti, che hanno una struttura ramificata e da tempo operante nell’edilizia pubblica, come l’INCIS, l’INFS, l’INAIL e, soprattutto, gli Istituti case popolari. Gli stessi enti sono incaricati dell’amministrazione e manutenzione della metà degli alloggi, che è data in affitto; mentre l’altra metà, secondo la legge del piano, è ceduta a riscatto. L’assegnazione delle case avviene secondo graduatorie tra i richiedenti formate da commissioni provinciali, presie­ dute da magistrati e composte da rappresentanti dei lavoratori, dei datori di lavoro, dell’Ufficio del lavoro, dell’Intendenza di finanza e dell’INA- Casa.

I lavoratori che pagano i contributi deUTNA-Casa sono approssima­ tivamente sei milioni; tra essi sono scelti gli inquilini e gli assegnatari degli alloggi realizzati dal piano, che nel settennio ’49-’56 sono stati 156 mila. Si è ancora ben lontani dal rispondere al fabbisogno di case a basso costo, così urgente in Italia per le condizioni in cui abita tanta parte della popolazione, in tuguri, in baracche, in agglomerati malsani. Tuttavia l’INA-Casa rappresenta un’iniziativa molto più cospicua di quelle prese prima; i 750 mila vani costruiti nel settennio con l’impiego di più di 300 miliardi, secondo dati fom iti da funzionari del Piano, sareb­ bero pari a due terzi del complesso deH’edilizia sovvenzionata e a un quinto dell’intera attività edilizia pubblica e privata del settennio, ed equivar­ rebbero all’edilizia popolare dei cinquant’anni precedenti. Per la concen­ trazione degli interventi nelle maggiori città, a Milano si realizzano 7.500 alloggi, a Roma e a Napoli 7.000, a Torino 4.000, a Palermo 3.000.

Qualche notizia succinta è sufficiente a far comprendere quali ele­ menti di novità siano introdotti con la costituzione dellTNA-Casa; la quale, se non altro, cambia di tanto la dimensione degli interventi pub­ blici nell’edilizia economica, da implicare necessariamente un sostanziale mutamento di qualità. Basta pensare airinteresse per il problema della casa a basso costo che suscita in tanto numerosi progettisti ; o all’esigenza che presenta di programmare la ripartizione di ingenti finanziamenti inquadrandola su scala nazionale, in base alla somma dei contributi riscossi, alla situazione della disoccupazione e al fabbisogno di alloggi nelle varie regioni e province. Ma forse quel che meglio riassume le carat­ teristiche nuove introdotte dal Piano è il fatto che, per la necessità di

eseguire nelle città un notevole numero di case entro una scadenza rela­ tivamente breve, le costruzioni vengono raccolte in vasti complessi, unità residenziali o quartieri capaci di migliaia di abitanti, intieramente com­ posti di alloggi INA-Casa. Nuclei edilizi del genere, quasi tutti di gran­ dezza parecchio minore, sono stati realizzati prima dagli ICP o dallTNCIiS eccezionalmente e solo in pochissime grandi città; ora invece, in poco tempo, si può dire che se ne vedano sorgere in ogni capoluogo di provincia.

Questo balzo in avanti, nell’evolversi della situazione generale ita­ liana, è un elemento che rende ancora più rapida la rottura dell’equilibrio instabile nel quale si manteneva da noi l’arretratezza culturale e politica dell’edilizia e dell’urbanistica. Con la costituzione dell’INA-Casa la que- tione delle abitazioni economiche assume l’importanza di un nodo riso­ lutivo anche per la nostra architettura. Dinnanzi ai termini divenuti indifferibili del problema della casa, la ricerca di soluzioni nuove, proprio perché rappresenta un progresso, provoca forti contraddizioni ogni volta che entra in contatto con metodi antiquati e insufficienti; le difficoltà contro cui allora si urta, riguardano aspetti tanto rilevanti da farne risentire decisamente i risultati pratici; l’attività della nostra edilizia economica si presenta così, dopo l’INA-Casa, molto più ricca di espe­ rienze positive e negative, e si pone in primo piano perché andare avanti, come si deve, in questo settore, significa affrontare insieme altri problemi, i quali sono proprio molti di quelli che condizionano nello stesso tempo lo sviluppo generale dell’architettura italiana.

Infatti i difetti principali delle realizzazioni dell’INA-Casa rispec­ chiano alcune manchevolezze fondamentali della nostra situazione, non a caso le deficienze più gravi sono legate alla questione ben nota delle aree fabbricabili. Senza demani comunali e senza provvedimenti che colpiscano gli enormi profitti ricavati dal mercato del suolo urbano, la scelta della ubicazione dei complessi residenziali maggiori sottostà quasi sempre al gioco della speculazione. La necessità che il costo del terreno non superi una data incidenza rispetto al costo totale della casa, fa si che questi gruppi di abitazioni sorgano alla periferia estrema, spesso distanti dal nucleo cittadino; talvolta anzi, con l’offerta di condizioni van­ taggiose, l’iniziativa pubblica è attratta dagli speculatori proprio là dove sollecitare l’espansione conviene ad essi, anche a dispetto delle esigenze urbanistiche della collettività.

L’isolamento che ne deriva per molti dei nuovi nuclei, che anche altri enti riprendono* a costruire suH’esempio deH’INA-Casa, favorisce

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