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di Leonardo Benevolo

Nel quadro dell’INA-Casa, il compito dell’architetto è sotto un certo aspetto sottolineato e facilitato al più alto grado, sotto un altro aspetto minimizzato e impedito.

La legge istitutiva (28 febbraio 1949, n. 43) fissa i due scopi dell’ini­ ziativa, collegati fra loro : « incrementare l’occupazione operaia mediante la costruzione di case per lavoratori ». Sebbene agli architetti sembri più importante il secondo scopo, non bisogna dimenticare che il primo è con­ siderato lo scopo principale, sia dal legislatore che dai suoi interpreti successivi.

Il ministro Rubinacci scriveva nel ’52 :

« Il problema fondamentale, alla cui risoluzione il Piano efficace­ mente concorre, è quello dell’occupazione operaia, che ne costituisce il punto di partenza, e dal quale dipendono tutti i suoi sviluppi, così ricchi di aspetti sociali, economici, organizzativi, tecnici e architettonici. (Ciò è stato ottenuto) creando un’attività economica che sia in grado di ali­ mentare con regolarità le industrie, che possa impiegare ogni categoria di lavoro e stimolare in modo continuo l’economia nazionale » (1).

Fin dalla legge Luzzatti del 1903, si è preferito in Italia attuare gli interventi statali in materia edilizia istituendo enti autonomi a carattere verticale, incaricati di amministrare i fondi, costruire le case, concederle in affitto o a riscatto e provvedere alla loro manutenzione. Si è rinun­ ciato cioè a un coordinamento orizzontale fra questo e gli altri tipi di intervento economico e urbanistico dell’autorità pubblica, per ottenere una maggiore speditezza e efficienza in questo particolare settore. 1

(1) £ IN A -C asa al IV Congresso dell’Istituto Nazionale di Urbanistica

(Venezia, 1952). 60

Nel ’49, dovendo decidere la forma migliore per il nuovo inter­ vento, si è aggiunto un argomento decisivo in favore di questa mede­ sima soluzione : volendo infatti incrementare l’offerta di lavoro nel campo edilizio, è sembrato opportuno concretare questo incremento in una forma facilmente individuabile, istituendo un nuovo ente distinto dai prece­ denti. Questa non è stata soltanto una preoccupazione demagogica, per far sì che sui cartelli dei nuovi cantieri spiccasse l’intestazione del nuovo ente; si è infatti deciso — e qui sta il merito principale dei respon­ sabili — di puntare non solo su un incremento quantitativo, ma anche qualitativo, di aumentare sia il ninnerò dei vani costruiti sia il livello tecnico e formale delle costruzioni.

Per far questo si è deciso di dare al nuovo ente una struttura centralizzata e libera il più possibile da impacci burocratici e interfe­ renze locali, utilizzando invece alla periferia gli enti tradizionali di edilizia sovvenzionata — INCUS, IACP, ecc. — come stazioni appal­ tanti. Si è preferito sfruttare al massimo i vantaggi tecnici di una organizzazione verticale e centrale, sacrificando in compenso molto più decisamente di prima i legami orizzontali con la pianificazione urba­ nistica — affidata alle amministrazioni locali — con l’azione di tutela del paesaggio >— affidata alle Sovrintendenze — è così via.

Ognuno conosce gli inconvenienti derivati da questo sganciamento; basta pensare al caso di Sorgane, che li riassume si può dire tutti. Il peso da gettare sull’altro piatto della bilancia, per compensare questi inconvenienti, è soprattutto la qualità dell’architettura, e infatti così è stato.

Ogni giudizio sull’INA-Casa, quindi, dev’essere necessariamente complesso: determinati svantaggi sono bilanciati da determinati van­ taggi. Si può discutere su questo bilancio, ma si deve riconoscere che fin dall’inizio è stata fatta una scelta chiara, fissando gli scopi da rag­ giungere e accettando di pagare il relativo prezzo.

Dunque la progettazione architettonica ha un ruolo fondamentale neiriNA-Casa, poiché ad essa è affidato, in gran parte, il compito di mantenere in pareggio il bilancio culturale complessivo. Si giustifica così la prima parte del nostro assunto iniziale; infatti, se si intende il compito dell’architetto in senso stretto e tradizionale (cioè di raffinare il più possibile il prodotto-casa per sé considerato), è evidente che l’INA-Casa ha consentito agli architetti italiani di attendervi nelle migliori condizioni, con minimo di limitazioni e di interferenze esterne, ed è riuscita a sfruttare nel modo più redditizio le capacità tecniche e compositive degli architetti italiani. Il

Il livello dell’edilizia sovvenzionata — per tradizione inferiore alla media — è stato portato dall’INA-Casa vicino al massimo assoluto che l’architettura italiana è oggi in grado di raggiungere; i migliori archi­ tetti italiani hanno lavorato per l’INA-Casa, e hanno fatto per 1INA- Casa alcune fra le loro esperienze più impegnative.

Se però si intende il compito dell’architetto in un senso più largo e più moderno (cioè di mediare fra loro, attivamente, le esigenze com­ plementari dei committenti e dei consumatori di architettura, dei sin­ goli e della comunità), il giudizio cambia. Infatti l’INA-Casa, allonta­ nando il più possibile i riferimenti d’ordine contingente, mette gli architetti in condizione di operare in un clima molto astratto.

L’architetto sa solamente di dover costruire un certo numero di vani su una data area, e secondo determinate norme dell’INA-Casa, valide dovunque. Egli arriva di solito quando l’area e lo stanziamento sono già stati decisi; il gioco delle forze destinate ad applicarsi sul quartiere finito gli resta sconosciuto, o gliene arriva l’eco, estrema- mente attutita, attraverso i contatti con la stazione appaltante; si tratta, in ogni caso, di conoscenza, non di rapporti operativi, e l’archi­ tetto resta arbitro di ogni decisione sulla forma del quartiere, sul taglio degli appartamenti, sulla distribuzione interna, sui materiali, e così via, utilizzando solo il riferimento generico alla tradizione locale e il paragone con eventuali precedenti esperienze.

Così si spiega l’enorme varietà nella composizione dei vari quar­ tieri, che va molto al di là delle naturali differenze di clima, di tradi­ zioni, di metodi costruttivi fra luogo e luogo. Ogni architetto ha potuto concretare la sua personale filosofia dell’abitazione, seguire le sue pre­ ferenze culturali e il suo gusto artistico col minimo di ostacoli esterni

Questa è la ragione per cui le realizzazioni INA-Casa destano tanto interesse all’estero; lo studioso straniero vi trova infatti una casistica pressoché completa dei modi possibili di comporre con una data densità edilizia, e questa casistica appare svincolata in larga misura dalle con­ dizioni particolari delle città italiane. Per questa stessa ragione, tut­ tavia, la varietà delle esperienze lascia perplesso un osservatore italiano : è ammissibile che le preferenze personali degli architetti contino fino a questo punto, e conducano a risultati così diversi, anche a parità di condizioni obbiettive, nella stessa città, con le medesime stazioni appal­ tanti e i medesimi esecutori? Non è implicito una specie di disprezzo per la povera gente, nell’esagerata personalizzazione di molti progetti?

Per chi vi andrà ad abitare, il nuovo quartiere è una cosa terri­ bilmente importante, una mèta decisiva. Invece si trova spesso davanti una frivola composizione di masse, che rende concreta e duratura una « fase » o una « tappa » della carriera del progettista, e che il proget­ tista medesimo sarà disposto a considerar superata due o tre anni dopo. C’è poi l’aspetto economico; se è conveniente l’esperienza A, non è conveniente certo l’esperienza B. E’ ammissibile che le preferenze personali degli architetti incidano tanto nell’impiego del pubblico denaro? Si potrebbe pensare che una rosa così vasta d’esperienze sia servita a individuare, a posteriori, le soluzioni migliori e più redditizie; ma questa selezione non è avvenuta, perché il problema è posto in tal modo da non prestarsi a soluzioni univoche, e la dispersione dei tentativi sembra destinata a continuare, se l’INA-Casa continuerà ad operare nelle mede­ sime forme.

Premesso questo, descriveremo rapidamente le modalità con cui s’è svolto il lavoro degli architetti dal 1949 in poi.

Fin dal principio fu deciso di affidare la progettazione dei quar­ tieri INA-*Casa a liberi professionisti esterni, riservando agli uffici della Gestione il compito di controllo, di coordinamento e di orientamento generale.

Durante il cosiddetto Piano Sperimentale (fino all’estate del ’50) gli incarichi furono conferiti dalle stazioni appaltanti periferiche. Intanto però fu bandito, con scadenza al 15 dicembre 1949, un concorso nazio­

nale per quattro tipi edilizi generici, che servì a formare un primo elenco di progettisti, a cui la Gestione stabilì di passare direttamente gli incarichi per il futuro. Anziché un semplice bando, fu pubblicato per l’occasione un opuscolo con un’ampia casistica di soluzioni distri­ butive e tre progetti-modello. L’attenzione era allora concentrata sui tipi edilizi, anziché sulla composizione d’insieme, e l’opuscolo aveva una forte impronta tecnicista, riflettendo le aspirazioni della cultura architetto­ nica nell’immediato dopoguerra. L’anno seguente fu pubblicato un secondo opuscolo, con la riproduzione di alcuni fra i migliori progetti presentati al concorso, di alcuni progetti studiati dall’ufficio tecnico della Gestione (diretto allora da Adalberto Libera) e con le norme per la progettazione urbanistica.

Era il momento in cui le esperienze scandinave facevano testo; l’opuscolo riportava vari esempi di quartieri svedesi, e si mettevano in guardia i progettisti soprattutto contro i pericoli della monotonia e della regolarità. Tutti avevano ancora davanti agli occhi gli squallidi allineamenti dei quartieri popolari dell’anteguerra.

Ecco alcune delle norme dettate nell’opuscolo :

« L’ambiente naturale, di per se stesso vario, irregolare ed epi­ sodico, non si presta ad accogliere composizioni urbanistiche^ rigida­ mente geometriche, soprattutto in zone non pianeggianti. E quindi opportuno, oltre che per ragioni economiche e costruttive, adeguarsi all’andamento del terreno... Gli elementi edilizi dovrebbero essere disposti in modo da costituire ambienti architettonici raccolti e da creare scorci prospettici gradevoli, componendoli col verde e con le linee del paesaggio ».

« Il ritorno all’uso del colore, tipico nella tradizione architettonica italiana, è consigliabile in ogni caso, ma particolarmente nelle costru­ zioni che sorgeranno fuori dai centri cittadini. Specialmente per i fab­ bricati a schiera, dove le esigenze dell’economia non^ consentono in generale un gioco plastico troppo vario, il colore può contribuire a individualizzare l’abitazione, a rompere la monotonia di una lunga ripetizione sul tipo edilizio, e al tempo stesso può costituire impor­ tante elemento di fusione con l’ambiente. Anche i materiali edilizi, se opportunamente trattati, possono essere usati secondo le loro specifiche caratteristiche cromatiche, per personalizzare 1 architettura dei singoli edifìci ».

« Si tenga presente che il tracciato stradale preesistente non può vincolare tassativamente la posizione degli edifici, i quali possono con­ tribuire a creare ambienti, visuali, scorci gradevoli anche se composti indipendentemente dagli allineamenti stradali, senza tuttavia dimen­ ticare che i punti di vista principali si troveranno sempre lungo le vie principali... Si avrà cura di pensare i tipi edilizi in modo tale che pos­ sano essere uniti in serie continua, ovvero spezzata, oppure usati anche isolatamente, articolando inoltre la composizione con elementi volume­ trici sia continui che sfalsati, e variando opportunamente il numero dei piani ».

Pensando alle conseguenze, questa sembra addirittura un’antologia di cattivi consigli.

Infatti l’INA-Casa raccomandava ai progettisti di articolare la composizione dei quartieri, per ottenere varietà, naturalezza e conti­ nuità col paesaggio, ma nello stesso tempo eliminava la possibilità di conoscere, e di far intervenire nella progettazione, l’articolazione del corpo sociale destinato ad occupare il quartiere. Così l’articolazione si limitava all’aspetto formale degli edifici, e restava ancorata soprattutto all’inventiva personale dei progettisti, traducendosi in una eccessiva varietà di tipi edilizi, di altezza, di volumi, di rifiniture e di colori.

Questa arbitrarietà compositiva s’accentuava soprattutto nei grandi complessi edilizi — si consideri il quartiere Tuscolano a Roma, che è il maggiore costruito durante il primo settennio dall’INA-Casa; il sug­ gerimento di variare i tipi edilizi è stato seguito fino a creare un com­ pleto campionario di edifici, dalle case-torri di dieci piani all’unità orizzontale di Libera. Ma questa varietà è soltanto illusoria, perché nessuna diversità nel contenuto sociale giustifica la diversità delle soluzioni architettoniche, e il quartiere è in realtà come un blocco monolitico, scolpito esternamente in modo da acquistare un aspetto movimentato.

In concreto la compagine delle persone sopravvenute nel quartiere ha determinato, distribuendosi nelle case, un’articolazione anche più ricca di quanto si poteva immaginare al principio; ma questa artico­ lazione non coincide con quella predisposta dagli architetti, e interfe­ risce con quest’ultima in maniera talvolta violenta, come sanno bene gli assistenti sociali che hanno vissuto questa fase.

La progettazione di grandi complessi edilizi ha posto anche nuovi problemi di organizzazione interna della progettazione; si è pensato di affidare ad alcuni architetti il compito di coordinatori, dividendo poi fra molti altri la progettazione dei singoli edifici; in molti casi questo espediente è servito appunto a raggiungere la desiderata varietà del­ l’aspetto architettonico, sostituendo all’articolazione oggettiva del quar­ tiere quella soggettiva del gruppo dei progettisti.

Nonostante tutte queste difficoltà, occorre dire che in molti casi i risul­ tati sono stati superiori all’attesa. Per alcuni architetti di mezza età

via Dessiè

Esempi di quartieri INA-Casa del I. settennio:

In alto: quartiere Harrar a Milano; a destra : quartiere Borgo Panigaie

a Bologna. Le case d’ abitazione

sono indicate in bianco, gli edi­ fici per i servizi pubblici in nero. Si noti, in questa pagina e nella pag. seguente, la grande varietà di soluzioni pianimetriche in quar­ tieri progettati pressoché con­ temporaneamente.

Esempi di quartieri INA-Casa del I. settennio:

Sopra : quartiere Ponticelli a Napoli ; a destra : Falcherà a

Torino ; sotto : Valco S. Paolo a Roma ; in basso : quartiere di Cesate, Milano.

gli incarichi INA-Casa sono stati la prima occasione di una certa impor­ tanza offerta nel dopoguerra, e per molti giovani addirittura la prima occasione professionale; così su questi temi sono state riversate ingen­ tissime energie, che hanno supplito talvolta, in una certa misura, alle carenze istituzionali, e sono riuscite ad infondere in certi quartieri una vitalità singolare, per quanto discutibili fossero i criteri di progetta­ zione; si pensi al Tiburtino di Roma, a Falcherà di Torino, e soprat­ tutto a Villa Bernabò Brea di Genova, probabilmente il migliore di tutto il primo settennio.

Caratteristica di quasi tutti i primi quartieri è la sopravalutazione della composizione d’assieme, rispetto allo studio dei tipi edilizi; ciò che è stato sacrificato inevitabilmente, e che non ha potuto esser rime­ diato con lo spiegamento di energie individuali, è la qualità tecnica delle rifiniture. L’immensa varietà di attacchi, conseguenza della varietà cercata nell’insieme, ha impedito materialmente di trovare, per ognuno di essi, una soluzione tecnicamente corretta, e i quartieri del primo settennio sono pieni di queste magagne — porte mal collocate, serra­ menti poco studiati, attacchi a terra casuali, intersezioni disinvolte di tetti, ecc.

Alla fine del secondo settennio l’INA-Casa ha fatto un sondaggio fra gli assegnatari per conoscere le loro caratteristiche sociali e demo­ grafiche e le loro preferenze riguardo alla distribuzione e all’architet- tura degli alloggi.

Questa indagine impostata dal prof. Alberti, sebbene tecnicamente correttissima, si è dimostrata inutile ai progettisti del secondo set­ tennio. La carenza di cui s’è parlato1 prima è d’ordine operativo, non conoscitivo, e consiste nel mancato contatto fra il progettista e le forze che animeranno le forme da lui progettate. Una indagine a posteriori, specialmente se condotta a freddo e senza la partecipazione degli archi­ tetti, non può colmare in astratto le lacune che esistono in concreto. In occasione del secondo settennio furono introdotti, fra 1 altro, questi cambiamenti :

— Si istituirono alcuni gruppi precostituiti di progettisti, desti­ nati a ricevere incarichi per grandi complessi e capaci di soddisfarli con un vero lavoro di gruppo, non semplicemente distribuendosi fra loro i vari edifici.

__ Furono chiamati professionisti esterni anche nelle commis­ sioni d’esame delle aree e dei progetti.

__ Fu deciso di assegnare una parte notevole dello stanziamento complessivo alle cooperative edilizie.

La prima decisione è stata certamente positiva; appunto questi o-ruppi hanno redatto i progetti migliori del secondo settennio, e hanno ottenuto anche, sommando le energie individuali, importanti approfon­ dimenti d'ordine tecnico, studiando una parziale prefabbricazione e

industrializzazione di certe rifiniture, una più moderna organizzazione degli appalti, e così via.

Si è però dimostrato che i gruppi funzionano bene non oltre una certa grandezza (fino ad otto-dieci componenti al massimo) ; i gruppi più numerosi e i gruppi di gruppi costituiti per la progettazione dei mag­ giori quartieri — in alcuni casi si è arrivati a quaranta-cinquanta progettisti — hanno dato in generale cattiva prova, perché s’è ripro­ dotta nel loro interno la spartizione topografica del lavoro già lamentata nei quartieri del primo settennio.

La chiamata dei membri esterni nelle commissioni dell’INA-Casa accentua e facilita lo scambio culturale fra la Gestione e i professio­ nisti esterni, ma indica anche che la Gestione ha accantonato una diretta pianificazione delle esperienze periferiche, puntando come sempre su un’immediata utilizzazione dei risultati del dibattito culturale ita­ liano, colti al livello più alto possibile.

Infine l’esperimento di finanziare le cooperative servirà forse a indicare una via d’uscita dalle carenze dell’impostazione fin qui seguita. Così infatti il progettista è messo a contatto con alcune forze concrete e particolari — le industrie che dànno lavoro ai futuri abitanti — e con le esigenze degli abitanti medesimi, espresse non in termini di preferenze astratte ma di interessi economici. Attraverso questi contatti il monologo dell’architetto può forse trasformarsi in dialogo ; resta da vedere se si potranno conservare i vantaggi di funzionamento e di produttività che costituiscono finora l’attivo della Gestione INA-Casa.

L’esperimento INA-Casa è basato, come s’è detto, su un bilancio tra fattori attivi e passivi.

L’attivo consiste nell’alto livello raggiunto in fatto di efficienza organizzativa e di disegno architettonico; se l’edilizia popolare era prima un prodotto scadente, paragonato alle punte della produzione architettonica italiana, ora è un prodotto buono, il migliore che la classe professionale italiana è in grado di dare al giorno d’oggi. Anche gli enti tradizionali di edilizia sovvenzionata sono stati sollecitati dal­ l’esempio INA-Casa a migliorare i loro metodi e la loro progettazione, cosicché tutto il settore ne ha tratto giovamento.

Questi risultati sono stati raggiunti per l’azione propulsiva di una esigua organizzazione centrale, autonoma rispetto agli organismi di normale amministrazione; ciò ha fornito una persuasiva dimostrazione dell’efficacia di un piano unitario, rispetto a molte iniziative slegate.

Il passivo dipende dal carattere settoriale che il piano ha assunto fin dall’inizio. In queste condizioni, l’efficienza è inversamente propor­ zionale ai legami orizzontali superstiti, e infatti l’INA-Casa ha puntato fin dall’inizio sull’allentamento di questi legami, contribuendo in misura decisiva a indebolire i dispositivi di coordinamento previsti dalla Legge Urbanistica, e a isolare questo problema — dell’edilizia sovvenzionata — dagli altri problemi connessi coll’intervento pubblico e con l’assetto del territorio.

L’architettura è un termometro sensibilissimo di queste situazioni, poiché tende per sua natura all’integrazione e all’equilibrio fra i vari fattori. Così ha subito denunciato, con il carattere astratto e arbitrario delle composizioni edilizie, l’astrattezza del congegno organizzativo, e con la discontinuità fra i quartieri sovvenzionati e il resto del tessuto urbano ha messo in evidenza l’eterogeneità di queste iniziative rispetto ai metodi normali d’accrescimento delle città.

Quando fu emanata la legge iniziale le esigenze della ricostruzione erano così pressanti che l’attivo ha largamente superato il passivo ; non si sarebbe potuto, infatti, nemmeno mettere in moto una macchina così cospicua senza uno sganciamento deciso dalla normale prassi amministra­ tiva e soprattutto dalla pianificazione urbanistica, già in forte ritardo sulle trasformazioni in corso.

Oggi invece, ponendosi il problema di convertire la ricostruzione in pianificazione, gli aspetti passivi acquistano maggior peso.

La separazione fra edilizia sovvenzionata e privata — che è giunta a trasformare le periferie delle nostre città in un collage di pezzi etero­ genei — non può più esser mantenuta in forma così netta senza grave danno; la pianificazione degli interventi pubblici in questo settore deve inoltre essere assorbita in un programma generale, che contempli e coordini tutte le forme di intervento. Bisogna riuscire a far questo senza perdere, o conservando, almeno parte dei vantaggi organizzativi dell’attuale congegno. Solo così l’edilizia sovvenzionata potrà mantenere l’attuale buon livello disegnativo', perdendo però il carattere schematico che ora la distingue.

Adattandosi a rappresentare, con mezzi puramente architettonici,

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