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Centro sociale A.06 n.30-31. Inchieste sociali, servizio sociale di gruppo educazione degli adulti, sviluppo della comunità

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Academic year: 2021

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Centro Sociale

inchieste sociali - servizio sociale di gruppo educazione degli adulti - sviluppo della comunità

a. VI-VII - n. 30-31, 1959-60 - un numero L. 400 - numero doppio L. 650 — abb. a 6 fascicoli ed allegati L. 2.200 - estero L. 4000 - spedizione in abb. postale gruppo IV - c. c. postale n. 1/20100 — Direzione Reda­ zione Amministrazione : piazza Cavalieri di Malta, 2 - Roma - tei. 593.455

S o m m a r i o

Adriano Olivetti 1 Pianificazione e civiltà

Italo Insolera 11 Lo spazio sociale della periferia urbana Carlo Melograni 35 L’intervento pubblico dell’edilizia economica

nella pianificazione urbana

Renzo Caligaro 48 I complessi INA-Casa

Leonardo Benevolo 60 La progettazione dei quartieri INA-Casa

68 Documenti

Repertorio di alcuni enti internazionali, governativ ie non governativi in materia di sviluppo cooperativo e di sviluppo della comunità (A . M .) - Il Progetto pilota per l’Abruzzo.

77 Estratti e segnalazioni

Sociologia e servizio sociale — Economia e sviluppo della comunità - L’ educazione in ambiente urbano e rurale — Un’inchiesta in Sardegna.

Recensioni

Fr. Compagna, I terroni in città (G. A . M orselli); N. Abbagnano, Problemi di sociologia (S E. Uccelli).

Indici dei fascicoli 19-31

Periodico bimestrale redatto a cura del Centro Educazione Professionale Assistenti Sociali sotto gli auspici dell’ UNRRA CASAS Prima Giunta

Comitato di direzione: Achille Ardigò, Vanna Casara, Giorgio Molino,

Ludovico Quaroni, Giovanni Spagnolli, Paolo Volponi, Angela Zucconi.

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Pianificazione e civiltà

La figura di Adriano Olivetti, recentemente scomparso, non ha bisogno di essere ricordata ai nostri lettori: gli argomenti via via pre­ sentati nelle pagine di questa rivista, da tempo - quando a molti potevano sembrare anticipazioni astratte, premature o addirittura estranee al contesto sociale del nostro Paese - erano stati da Lui proposti e soste­ nuti attraverso gli scritti e le iniziative concrete. Per questo ci pare che ad illuminare il tema trattato nel presente fascicolo non si potrebbero trovare parole più calde, più efficaci, più impegnate di quelle che seguono, scelte da discorsi rivolti, tra il 1954 e il 1959, ad urbanisti, amministratori, operatori sociali.

« L’urbanista non dovrà proporre delle m ete prefissate, perché il suo com pito consiste piuttosto nello scoprirle e sovraL tutto nell’aiutare la Comunità a darsi uno scopo, onde ne sarà, piuttosto che il dittatore, l’interprete e l’ordinatore.

La città nuova sarebbe dunque vivificata ed esaltata dallo scoprirsi delle vocazioni. Prom uoverle e dar loro il mezzo di esprim ersi è f orse il modo più segreto e più autentico affinché una civiltà possa esprim ersi. Anche la tragedia meridionale sembra riassum ersi con incresciosa evidenza in una immane perdita di valori umani, nascosti, inespressi nel contadino del Sud. Ho incontrato a Washington, a D etroit umili emigrati, lavoratori meridionali, che avevano avuto l’ambizione di diven­ tare medici e ingegneri e ne avevano certo la intelligenza e il f ervore di ricerca, l’ansia umana. Sradicati nel nuovo mondo, attendono in umili m estieri, in silenzio, un avvenire m igliore per i loro figli.

Case, case, case per tutti rimane uno slogan politico eccel­ lente. Ma sappiamo che appunto perché è uno slogan di sapore vagamente demagogico, esso non rappresenta che una verità parziale. Se noi ne dimentichiamo i term ini reali, se nel con­ tempo non poniamo mano a riorganizzare e vitalizzare le industrie, rischiamo di continuare a fa r case per gente senza lavoro. L’inedia e la disperazione non suggeriranno né le

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razioni culturali, né il sereno esempio della vita fisica, e m et­ teranno in forse, non senza pericolo, le insostituibili virtù democratiche.

Vi sono elem enti che ci fanno consapevoli di una continua marcia verso la pianificazione: il progetto di legge p er l’ eli­ minazione delle case malsane e dei tuguri, il rinnovo del Piano Fanfani, e infine l’annunciato grande piano allo studio per creare quattro milioni di posti di lavoro in dieci anni.

Ma questo nuovo ingente intervento dello Stato si trasfor­ m erebbe in un autentico disastro civile, se il nesso inscindibile fra piano economico e piano urbanistico non fosse ricono­ sciuto e non ne f ossero tratte le estrem e conseguenze. Poiché una lungimirante e coraggiosa politica econom ica p er il pieno im piego della mano d’ opera da noi auspicata, sorgendo dal centro si m anifesterà alla periferia in una serie im ponente di costruzioni; le cifre astronom iche del bilancio dello Stato si trasform eranno in m attoni, pietre, cem ento, ferro, fab­ briche, laboratori, onde non sarà più possibile dissociare la pianificazione economica da quella urbanistica che è la sola capace di dar form a adeguata ad un piano econom ico. E di farlo finalmente trionfare, com e m atrice dì civiltà ».

« N oi sogniamo e parliamo di giustizia e assistiam o giorno p er giorno, senza poteri, alla corsa indiscriminata verso sem pre m aggiore ricchezza da parte di chi già possiede, dei proprie­ tari di case e di terreni che vedono senza sforzo, senza lavoro, accrescere le loro ricchezze dalla marcia di una economia in accrescim ento in virtù dell’ operosa tenacia dei lavoratori, dei tecnici, dei dirigenti la cui ricchezza, il m i reddito cresce assai più lentam ente di quello dei detentori e dei m ezzi di produzione e del suolo. Così nelle città italiane ove l’ economia è visibilm ente rigogliosa negli ultim i cinque anni, i proprie­ tari di terreni hanno visto il valore della loro proprietà cre­ scere del 300, del 500, del 1000 p er cento (non sono dati esa­ gera ti) m entre i lavoratori delle stesse città hanno avuto degli accrescim enti di reddito più o m eno rilevanti, ma che stanno in un ordine infinitam ente minore.

Fino a che larghissime m asse popolari saranno estranee alla vita dello Stato ( non sta a m e indicare la responsabilità di questa situazione, ma denunciarne le conseguenze urbani­ stich e), le leggi non oseranno che scalfire in superficie gli immensi privilegi che dovrebbero affrontare.

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N oi urbanisti sogniamo il verde. E la città crescendo, intensificandosi, occupa i giardini del centro, e i prati della periferia vengono a poco a poco interam ente sommersi. Ven­ desi terreno a lotti hanno scritto in larghi cartelli i ragionieri del centro. I Comuni non comprano lotti per fa re i giardini del futuro, i parcheggi, le scuole. Quando le operazioni spe­ culative saranno com piute, la seconda ondata di com pratori farà la seconda o la terza speculazione attraverso lo strata­ gemma meccanico dei grattacieli vendendo poi le proprietà a un prezzo inaccessibile. Dopo di che nessun am m inistratore assennato com prerà in superficie adeguata il terreno che ser­ virebbe a fa re le scuole all’aperto, i centri sociali, le biblio­ tech e; i centri di acquisto centralizzati o cooperativi. Biso­ gnerà adattarsi a sopraelevare le scuole, a fa r fa re i doppi turni ai bambini com e nelle fabbriche, lasciare il com m ercio com’è, costoso, frazionato, inefficiente ».

« N oi italiani amiamo l’intelligenza e la cultura. Ma cul­ tura e intelligenza avrebbero suggerito almeno l’im itazione. Avrem m o potuto im itare Londra e Parigi, il loro grandioso piano di decentram ento industriale in pieno corso di attua­ zione. N oi abbiamo invece, con mezzo secolo di ritardo, im por­ tato d’oltreoceano un m ostro grandioso, affascinante',: il grat­ tacielo, onde consacrare una civiltà in transito: quella delle nostre m etropoli del Nord.La m etropoliha scritto Frank Lloyd W right nel suo aureo volum etto When Democracy Builds — si è tanto allontanata dalla scala umana che non è più un luogo dove si viva bene, si lavori bene e si possa andare, tranquillam ente al m ercato. E intanto le strade diven­ tano gli opprim enti pozzi della m iseria m etropolitana. L’an­ nullamento di ogni vitalità grava minaccioso sul villaggio divenuto città, sulla grandiosa m etropoli im prevista. Anche la macchina che l’ ha costruita e fa fa funzionare era ugual­ m ente im prevista. Può darsi perciò che non sia solo per la sua tendenza animale, deplorevole ma ereditaria, ad affol­ larsi, che il cittadino è sbarcato in questo pigia pigia urbano. Ma ora è soltanto l’istinto animale del gregge che lo tiene pigiato, dim entico dei suoi più grandi ed essenziali interessi di individua pensante.

Cosa riceve l’unità umana, finora ignorata da questo mani­ comio com m erciale, in com penso dei disagi della ristrettezza, della dem oralizzante perdita di libertà, dell’avvilente

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dazione di un più vasto senso dello spazio? Cosa riceve oltre lo stolto orgoglio di sacrificarsi al suo tempo, di pagare più tasse e di vedere un num ero sem pre m aggiore di vigili ai crocicchi? Anche il proprietario di case dovrà presto rendersi conto che, com e sfruttam ento vantaggioso, il successo della verticalità è soltanto tem poraneo, sia nella natura che nella qualità, perché i cittadini di un prossim o domani preferiranno l’orizzontalitàdono dell’autom obile, del telefono e del tele- grafoe si rivolteranno contro la verticalità fuggendola com e il cadavere delle nostre città. Lo stesso cittadino le si rivolterà contro in autodifesa. Abbandonerà poco a poco la città : ora gli è molto più facile farlo. Già adesso i più fortu ­ nati possono fare a m eno di restare ” ».

« I moderni piani di protezione sociale presuppongono una rete di servizi ( ospedali, cliniche, ambulatori, dispensari, cli­ niche specializzate, convalescenziari, ecc.) ; ma essi, parim enti alle fabbriche, malamente si inseriscono nella vecchia città. Anche un piano di increm ento culturale, scuole di ogni tipo e di ogni grado, biblioteche, gallerie d’arte e via dicendo, non trovano nella maggioranza dei casi una ubicazione conve­ niente, e neppure lo spazio adeguato per consentire quelle soluzioni com plete e m oderne che allievi, docenti e studiosi urgentem ente reclam ano: silenzio, verde, classi all’aperto, attrezzature awsiliarie, e via dicendo.

Le m etropoli, nella loro crescita disordinata, presentano form e ormai esaurite, incapaci dì contenere il nuovo nella giusta proporzione. Il borghese si avvede dell’inadeguatezza della città solo quando la sua automobile è ferm a in coda a lunghe file nella circolazione ormai ostruita, ovvero quando non trova più spazio p er il parcheggio. Non sa che era già vecchia p er l’operaio il quale non trova casa che a due ore di distanza dal luogo del proprio lavoro.

La strada, la fabbrica, la casa sono gli elem enti sostanziali e più appariscenti di una civiltà in evoluzione onde l’attuale disordine edilizio è il simbolo più evidente della sua crisi.

Una lungimirante politica economica per il pieno im piego si trasform erà anche essa in una serie di costruzioni; siano esse strade, autostrade, alberghi, case, dighe, canali, fogn a­ ture, acquedotti; o botteghe d’artigim d, laboratori sperim en­ tali, nuove fabbriche o ampliamenti di grandi stabilim enti industriali.

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Esse tutte presuppongono una reciprocità, una interdipen­ denza, una vita di relazione che richiede, nella sua espressione moderna, un com plesso e com pleto piano territoriale urbani­ stico.

P er queste ragioni non è più ormai possibile dissociare la pianificazione e eonom ic o s o date dalla pianificazione urbani­ stica.

Questa divisione va respinta com e un ostacolo alla crea­ zione di una vera civiltà; che, ripetiam o, è armonia tra vita privata e vita pubblica, tra lavoro e abitazione, tra centri di consumo e centri di produzione, tra abitazioni e centri ricrea­ tivi, culturali, ospitalieri, assistenziali, educativi. Solo U rb a ­ nistica che si costituisca in dottrina avente una tradizione scientifica di studi e di esperienze, può dare form a a un piano

econom ico ».

« La casa a basso costo oggi fa parte integrante della politica di tutti gli Stati, qualunque sia la filosofia politica che regge i loro ordinam enti. Non è compito né intenzione mia oggi di vagliare gli aspetti econom ici di una tale politica in quanto determ inate A utorità, Stati, Provincie, Comuni, im prese industriali, società di assicurazione, costruiscono case a basso costo a titolo di investim ento, o di ridistribuzione sociale dei redditi, o p er com battere la disoccupazione ed ovviare ad una situazione economica depressa onde aiutarla a ritornare normale, o infine p er fa r fron te a m assicce m an­ canze di abitazione causate da eventi bellici o altri gravi disastri dinanzi ai quali occorre provvedere con più o meno urgenza. Mi sofferm erò invece sugli aspetti urbanistici di una politica sociale delle abitazioni e dei servizi sociali.

Se dovessim o per esem pio analizzare quale sia il titolo di autorità che m eglio si adatti, che m eglio convenga ad assu­ m ersi la responsabilità di una politica sociale delle abitazioni, indicheremmo i regim i politici federalistici o di radicate tra- dizioni di fo r ti autonom ie locali, quali la Svizzera, gli Stati Uniti, l’Inghilterra e m olti altri. In quegli Stati parlare di lotta■ contro il centralism o statale e della necessità della par­ tecipazione dem ocratica dei cittadini ai problem i della piani­ ficazione non ha un vero senso, poiché queste istanze corri­ spondono im, gran parte ad una realtà operante.

Non solo tu tti i Paesi a regim e totalitario soffrono di un centralism o eccessivo, ma anche in Italia e in Francia gli

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s f orzi degli uomini più illuminati non sono riusciti a radicare in gran parte dell’opinione pubblica la convinzione che il funzionam ento di un’autentica democrazia è connaturato con ladistruzionedegli apparati centralizzati, i quali non solo hanno scarse virtù educative, ma minacciamo alla lunga di cristallizzare seriam ente qualsiasi progresso.

A proposito di accentram ento e decentram ento, vorrei sof­ ferm arm i brevem ente sul problema della dimensione ottim a della pianificazione urbana e rurale. Siamo tu tti d’accordo nel considerare la pianificazione regionale come elemento fonda- m entale per un serio progresso del coordinamento urbanistico. Tuttavia m olti equivoci sono nati p er il differente valore che si dà al term ineregione ” , secondo che vi corrisponda una entità geografica o storica tradizionale, ovvero sia una creazione artificiale em piricam ente utile allo studio di una determ inata area. Si usa oggi in campo intem azionale il nome di regione per indicare vaste aree quali ad esem pio il bacino Meditar-*

ranco, il Medio Oriente, l’Am erica Latina e via dicendo, m entre nel linguaggio corren te italiano ad esempio si indi­ cano con lo stesso term ine la Sicilia, la Lombardia, i dipar­ tim enti francesi, la Fiandra o anche il Vorarlberg in Austria. P referirei, p er chiarire, riferirm i ad una gerarchia di comunità rispondente alle esperienze am m inistrative più vitali:

Comunità di primo grado : il comune rurale da 500 a 5.000 abitanti, gruppi di comuni rurali sino alla stessa popo­ lazione, quartieri urbani da 3.000 a 5.000 abitanti.

Comunità di secondo grado : una città sino a 75.000 abi­ tanti circa, una costellazione o una m olteplicità di comuni gravitanti su una cittadina o grosso borgo rurale p er un numero complessivo da 75.000 a 150.000 abitanti, quartieri di città o di m etropoli della stessa densità.

Comunità di terzo grado: regioni com prendenti da un minimo di 10 ad un massimo di 50 comunità di secondo grado.

Comunità di quarto grado : le nazioni e i gruppi di nazioni.

Si tratta di una evidente sem plificazione sui criteri ana­ litici proposti, \ad esem pio, nell’8° Congresso del CIAM , che ha distinto le comunità in almeno sei gradi.

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Mi richiamo volentieri anche alla scala proposta da Gaston Bardici il quale, com e è noto, adopera l’unità fam iliare e rico­ nosce che la città che com prende sino a 10.000 fam iglie è quella che ha diritto di chiamarsialla scala um ana” ; oltre questa dimensione gli agglom erati non sono biologicam ente sani, almeno nell’attuale situazione urbanistica.

Q ueste cifre sono indicative e si adattano assai bene alle situazioni più varie. Giova tuttavia ricordare che nei piccoli Stati, al disotto dei 10 m ilioni di abitanti, il piano nazionale viene a coincidere quasi sem pre col piano regionale. N ei grandi Stati, con popolazione superiore agli 80 m ilioni di abitanti, Stati Uniti, URSS, India, domani il Brasile, è gioco­ forza riconoscere una comunità di secondo grado più vasta, com prendente sino a 300.000 abitanti.

N oi abbiamo urgente bisogno di sem plificare, abbiamo bisogno di portare addirittura ad una sola m isum fonda­ mentale il nostro lavoro organizzativo. Se si assume com e organizzazione f ondamentale della pianificazione la com unità di secondo grado, quella che io chiamo laComunitàvera e vitale, alla scala umana, è facile capire com e i piani delle comunità di prim o grado ad essa soggiacenti costituiscano i veri piani particolareggiati, esecutivi della comunità. Il piano regionale (com unità di terzo grado) sarà il foglio d insiem e opportunam ente modificato e corretto dei piani fondam entali delle comunità di secondo grado.

A vrem o pertanto tutto il territorio della nazione coperto dalla pianificazione urbana e rurale ed eviterem o una sovrap­ posizione eccessiva di autorità che renderebbe praticam ente im possibile la m arcia dei piani. L ’idea dei distretti, ad esem pio, in Germania com e unità organiche soggiacenti ai

Ländermi sem bra uno dei concetti più seri di una moderna legislazione della pubblica amministrazione.

L’im portante è di com prendere che il piano fondam entale di coordinam ento deve corrispondere alla fusione organica di situazioni particolari e deve avvalersi di sperim entati criteri organizzativi ».

« Quando si a ff erma che i piani di edilizia popolare deb­ bono essere soggetti al controllo e alla partecipazione demo­ cratica, vale la pena di ricordare com e in m olti ordinamenti politici e am m inistrativi tale controllo non sia ancora suffi­ ciente a garantire a questo tipo di abitazione una vera coe­

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renza con le profonde necessità di chi sarà chiamato ad abitare.

O ccorre per un tale fine più arm onioso e più com pleto che il processo dem ocratico sia in qualche modo soggetta alla forza dinamica dei sindacati operai. Così, stretta fra le forze culturali che hanno la responsabilità di guida creativa e difem deranno i valori scientifici e artistici e le fo rze sindacali che difenderanno valori di giustizia ed equità sociale, la demo­ crazia riafferm erà e difenderà i suoi valori con nuovo splen­ dore e rinnovato slancio vitale.

Le form e in cui questa partecipazione di elem enti sindacali e culturali debbono inserirsi nel processo dem ocratico dipen­ deranno da circostanze politiche che non sta a me indicare. Ad esem pio in Italia il com itato centrale disposto dalla legge Fanfani del 191.9 prevede la rappresentanza dei sindacati nei com itati centrali di attuazione del piano; è chiaro che questo dispositivo ha avuto una influenza positiva nell’ effettuazione di questo im portante organismo statale italiano per le abita­ zioni degli operai.

Ivi la collaborazione con gli architetti, dovuta ad una p re­ sidenza affidata a un uomo di grande fed e nei valori del- l architettura, ha provocato quella, precisa collaborazione cul­ turale alla quale sto accennando.

Tuttavia la centralizzazione di questi organi non può alla lunga che rendere dei fru tti meno positivi. La partecipazione dei sindacati, ad esem pio, vi avviene a livello nazionale e ciò diminuisce le risultanze che un lavoro ravvicinato alla scala più umana di un ente locale, sia questo una provincia, un dipartim ento, una contea, un distretto, avrebbe potuto assi­ curare. Ma l’avvenire, ripeto, un futuro più alto, è nella col­ laborazione tra forze sindacali, fo rz e culturali e forze demo­ cratiche, al livello di comunità di scala umana, dove una tale collaborazione avviene nella, sede naturale, là dove sorgeranno le case, le chiese, le scuole, le fabbriche e non a cento o cinque­ cento miglia da questi luoghi.

Mi son proposto di non entrare in particolari di ordine tecnico, 'ma mi sia perm esso di ricordare che in m olti P aesi si fanno ancora case popolari di tre, quattro e anche cinque piani prive di ascensori. La qualità dei servizi lascia m olto spesso a desiderare e via dicendo. M entre la preferenza asso­ luta dei lavoratori si è orientata verso edifici di due o tre piani, verso le case a schiera m unite di giardino: questo tipo

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di abitazione popolare che si presta ancora a notevoli diffe­ renziazioni ed eleganti dispositivi urbanistici viene applicato in modo assai m inore di quanto le circostanze obbiettive pos­ sano perm etterlo. A proposito del riconoscim ento dei desideri e dei bisogni delle persone interessate ricorderò quanta parte ha avuto- e potrà sem pre avere m aggiorm ente nel futuro il lavoro degli assistenti sociali. Questo- tipo relativam ente mo­ derno di professionisti, dotati di una elevata carica di interesse umano e di una grande varietà di civiche cognizioni, gioverà sem pre più alla causa del progresso dell’abitazione.

Rimane ora da prendere in considerazione la collabora­ zione con i sociologi, attraverso gruppi di ricerche ai fini di piani regolatori o p er lo studio preventivo di insediam enti umani e altri dispositivi moderni, la cui applicazione ha spesso incontrato difficoltà di ogni sorta. Si tratta di un sistem a sia pure costoso che, se intrapreso seriam ente, presenta anche la difficoltà di essere lento, e spesso le nostre dem ocrazie sia centrali che p eriferich e hanno una strana fretta di spendere i soldi, quando in vece dim ostrano inspiegabile lentezza nel prendere decisioni. Ma una volta portata in bilancio una voce per la costruzione di case sem bra che il m otto divengaanche male purché in fretta

Sul valore delle inchieste sociologiche, mi rifaccio all’auto­ revole parere del M um ford:il punto di vista scientifico

egli ricorda nella Cultura delle città — il metodo di coope­ razione intellettuale, realizzato nell’inchiesta regionale, sono fo rze m oralizzatrici, ed è soltanto quando la scienza diventa parte integrante dell’ esperienza quotidiana, e non è una sem ­ plice verniciatura di abitudini superficiali, sopra uno strato profondo di autorità incontestata, che possono essere poste le basi di una comune disciplina collettiva ” .

Uno slogan di cui sarebbe ormai necessario sbarazzarsi è quello secondo il quale lo sforzo- edilizio deve m irare ad acco­ modare il massimo num ero di persone, quando invece si tratta di arrivare al rispetto di profondi valori umani al riguardo di non limitabili esigenze fisiologiche ».

« Se lo Stato, i Comuni, e le Provincie dovessero lim itarsi ai puri aspetti econom ici dell’ edilizia popolare, la civiltà si m uoverebbe sul puro piano della tecnica. Affinché la tecnica serva all’uomo e non divenga una insensata dom inatrice

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occorre dunque che i com plessi edilizi servano ad edificare gli elem enti di una civiltà nuova.

Questi elem enti vivono, si sviluppano e si esaltano in un clima di libertà, in una situazione di equilibrio tra le forze m ateriali e le forze spirituali, in una situazione in cui i m ezzi di cultura siano facilm ente accessibili, in una parola là dove la vocazione dell’uomo sia esaltata e protetta. A ltrim enti anche le dem ocrazie seguiranno le strade percorse dagli Stati tota­ litari, dove milioni di m etri cubi di costruzioni m assicce non hanno servito sinora a forgiare una nuova umanità.

Ma quando una intensa politica della casa si svolge armo­ niosam ente insiem e al sorgere delle attrezzature sociali e il lavoro è inquadrato in un efficiente piano coordinato, il piano esce dalla sua fredda prim itiva staticità e diventa uno stru ­ m ento attivo e dinamico, pieno di vita, caldo di umanità. Gli urbanisti, gli architetti, gli am m inistratori lavorano insieme ad offrire ad una comunità i m ezzi affinché essa possa esp ri­ m ersi, e i suoi m igliori talenti e i m igliori ingegni possano degnamente operare.

Il piano diventa a poco a poco m atrice di civiltà, un atto di amore verso un paesaggio e un atto di amore verso un gruppo di uomini ».

Ad r ia n o Ol i v e t t i

(da Città dell’uomo, 1959)

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Lo spazio sociale della periferia urbana

di Italo Insolera

Definizione e concetto di periferia

La parola « periferia » deriva letterariamente dal greco Tcspupépsia, che significava innanzi tutto «circonferenza» e derivava da rcepi - cpépco: portare intorno. Lo Zingarelli così la definisce : luoghi o parti intorno ad un centro. L’interpretazione geometrica originaria si è persa, dato che nella parola non è compreso il concetto di equidistanza dal centro. E’ ri­ masto invece familiare il suo significato topografico, per cui siamo soliti chiamare periferia di una città le parti che stanno intorno al suo centro. Ma questa spiegazione topografica non ci soddisfa. Se così fosse, la peri­ feria di una città sarebbe un puro riferimento geografico, senza quel signi­ ficato più complesso che invece le attribuiamo.

Possiamo dire infatti che qualsiasi fenomeno che ammetta un centro ha anche una sua periferia, delle parti cioè in cui il fenomeno stesso è presente, ma non con quelle caratteristiche qualitative e quantitative che fanno di un’altra parte il « centro » di quel fenomeno. A noi è fami­ liare il concetto di centro e di periferia inteso geograficamente, ma pos­ siamo estenderlo anche agli altri fenomeni che individuano e caratteriz­ zano la città moderna.

Consideriamo, per esempio, il complesso delle attività commerciali : ci è consueta la definizione di centro commerciale come zona in cui più intenso è il volume delle vendite, il numero dei negozi. I luoghi, invece, in cui tale attività è meno intensa saranno quindi la periferia com- merci al e

Nello stesso modo parliamo di centro degli affari, di city, intendendo il luogo in cui si tratta il maggior numero di affari ; e allora i luoghi in cui, invece, si tratta un numero di affari via via minore e di minore importanza potranno essere considerati come le successive periferie degli affari.

Intendiamo per centro direzionale di una città la zona in cui sono concentrati gli uffici centrali della sua amministrazione ; e saranno ammi­ nistrativamente periferiche le zone in cui sono distribuiti solo gli uffici di portata locale.

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Lo stesso ragionamento possiamo fare per i fenomeni sociali : e chia­ meremo periferia sociale quelle zone in cui i rapporti tra gli individui e le collettività non sono pieni e completi, attivi e integrati come nelle zone socialmente centrali.

E’ necessario non confondere il concetto di « zone socialmente cen­ trali » o « centro sociale » con l’edificio, o l’insieme di edifici che si suole denominare nella stessa maniera : in questo secondo caso, infatti, l’espres­ sione « centro » si riferisce solo al luogo in cui si attuano determinate iniziative ricreativo-culturali e di assistenza. Per « zone socialmente cen­ trali » in contrapposto a « zone socialmente periferiche » si intendono quelle zone di una città in cui si è realizzata (centro) o non si è realizzata (periferia) una costante coesione nei rapporti sociali tra gli abitanti, che non comprende solo gli aspetti ricreativi e culturali, ma muove anche da una omogeneità di rapporti produttivi con tutto il resto della società, e da cui consegue un determinato e determinante livello economico. E’ ormai a tutti familiare, infatti, che la caratterizzazione sociale di un quartiere è in funzione della media posizione economica dei suoi abitanti rispetto alla città.

Non coincidenza delle “ periferie ” e dei “ centri ”

Prima di procedere oltre dobbiamo però chiarire che le zone in cui i vari fenomeni, le varie funzioni della città si presentano nel loro aspetto « centrale » o in quello « periferico » non sono necessariamente coinci­ denti con la periferia geografica, anzi lo sono ben raramente.

Il centro commerciale, per esempio, coincide col centro geografico in quelle città che hanno avuto origine da un mercato e che hanno conser­ vato la loro originaria struttura : Venezia, ad esempio, con le sue M er­ cerie, le città olandesi e anseatiche con le corrispondenti Spui. Firenze, invece, ha visto scomparire il suo centro commerciale che era stato alla origine della città romana.

Le caratteristiche riscontrabili nel centro commerciale devono essere principalmente due : la copertura di ogni genere di prodotti (ci sono cioè negozi di ogni tipo) e la massima scelta per tutti i prodotti (ci sono cioè per ogni tipo più negozi). AH’inverso la periferia commerciale sarà costi­ tuita da quelle zone in cui mancano alcuni tipi di negozi e non vi è scelta tra negozi e prodotti concorrenti : la periferia commerciai^ non è quindi in grado di soddisfare né quantitativamente né qualitativamente tutti i bisogni del cliente.

Può darsi che lo stacco tra il centro commerciale e la periferia sia più o meno accentuato. Fino a non molti anni fa era in genere più netto di adesso : nella periferia non si trovavano’ che i negozi di prima neces­ sità (i negozi di uso quotidiano) e pochi altri, senza scelta, per cui era non solo piacevole ma necessario recarsi di quando in quando « in centro » per le compere. Oggi col progressivo spostarsi della popolazione sempre

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I centri commerciali.

Nelle antiche città commerciali aveva un posto particolarmente importante la « via dei negozi »: si trattava di solito di una strada esclusivamente pedonale, fiancheggiata da case dove si trova­ vano al piano terreno negozi e magazzini e ai piani superiori l’abitazione dei commercianti. Le case sul retro davano invece su vie di traffico, o addirittura su canali, attraverso cui giunge­ vano le merci ai magazzini e ai fondaci. In Italia troviamo tuttora perfettamente conservata una di tali vie: le « Mercerie » a Venezia.

La « via dei negozi » nelle città anseatiche si chiama « Spui » ed ha caratteristiche analoghe alle « Mercerie » di Venezia. A Rotterdam la « Spui » fu distrutta con tutto l’ antico centro cittadino nel famoso bombardamento tedesco del maggio 1940. A guerra finita si è dovuto ricostruire perciò anche il centro commerciale. Due dei migliori architetti olandesi, Bakema e Van der Broek, hanno costruito il complesso « Lijnbaan » (vedi foto sopra), riprendendo nelle forme di una modernissima architettura l’ organizzazione delle antiche « Spui »: si tratta infatti di una via esclusivamente pedonale e in cui prospettano solo negozi, magazzini, ristoranti, ecc.

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I centri degli affari.

Accostiamo in queste pagine due esempi assolutamente diversi sotto tutti gli aspetti di « centro degli affari ». Il primo (vedi pag. precedente) è il centro degli affari di New York; a sinistra si distingue l’Empire State Building. È ovviamente uno dei più grossi centri d’ affari del mondo sia per la sua imponenza che per il volume finanziario delle pratiche che vi vengono trattate. Sorge nel centro della città e pur di non muoversi da lì ha risolto in altezza tutti i problemi connessi con la mancanza di spazio. Tutte le grandi società che vi hanno sede hanno così costruito una dopo l’ altra i grattacieli più celebri del mondo. Si noti che tutta la city di New York è esclusivamente opera dell’iniziativa privata.

II secondo esempio è a Roma: si tratta del complesso di edifici monumentali che furono iniziati dal fascismo per ospitare l’ Esposizione Internazionale che si doveva tenere nel 1942 e che si suole perciò denominare EUR: Esposizione Universale Roma (foto sopra). Oggi si è deciso di fare di questi monumentali pachidermi il « centro direzionale » della città, ossia il luogo in cui si concentrano gli edifici che ospitano alcune delle istituzioni direttive della vita e dell’ammini­ strazione cittadina e nazionale. All’ EUR si trovano infatti alcuni uffici del Comune di Roma, la Cassa per il Mezzogiorno, due Ministeri, l’Archivio di Stato, gli uffici dell’ INA; cioè esclu­ sivamente edifici pubblici e che ospitano uffici statali o parastatali. L’ EUR sorge lontanissima dalla città in aperta campagna.

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I centri di Roma.

II centro della Roma antica era nella pianura com­ presa tra i colli famosi: il Palatino, il Celio, l’Oppio, l’ Esquilino, il Quirinale, il Campidoglio, P A ventino. Lì si apriva il Foro ove si trovavano templi, basili­ che, negozi, la Curia, i Comizi. Nel Medioevo il vecchio Foro è completamente abbandonato e la città è limitata alle case contenute nell’ansa del Tevere, a ovest del Campidoglio. L’antico grande tempio di Giove è distrutto e i nuovi fabbricati che sorgono sul Campidoglio volgono le spalle all’ antico Foro e guardano verso ovest, verso le case, i palazzi e le chiese della prima Roma papale. Il Campi­ doglio è di questa Roma il centro politico: qui combattono Arnaldo da Brescia, Brancaleone degli

Andalò, Cola di Rienzi, qui ha sede il Senatore di Roma, qui vive e muore il Comune Romano. Solo dopo il ritorno dei Papi da Avignone nel 1376 il Vaticano comincia ad assumere veramente la fun­ zione di centro politico, amministrativo e militare di Roma: fino al 1586 però tutta la zona al di là di Castel Sant’Angelo con San Pietro, i Palazzi Vaticani e Borgo è amministrativamente separata dalla città. Il Vaticano sorge inoltre a una estre­ mità di Roma: questo fatto fa sì che la sua influenza sulla struttura della nuova città che si va formando nel ’ 600 e ’ 700 sia soprattutto indiretta.

(Riproduciamo qui le vedute del Campidoglio e di San Pietro, del Piranesi).

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più verso le zone esterne e coH’abbassamento conseguente della densità residenziale nel centro urbano, si assiste ad una maggiore qualificazione delle attività commerciali in tutte le zone periferiche. Il « centro com­ merciale » tende a non essere più una zona determinata e baricentrica, ma una specie di polipo che allunga i suoi tentacoli lungo le arterie di maggior passaggio fino alle ultime case della città.

Anche il centro degli affari e quello amministrativo, il cosiddetto « centro direzionale », può non coincidere con il centro geografico e sto­ rico della città, attuando quello che si definisce appunto il « decentra­ mento ». Un esempio chiarissimo è l’EUR a Roma : un’area cioè lonta­ nissima dal centro urbano, in aperta campagna, collegata alla città da un sistema di grandi arterie, in cui trovano posto ministeri, uffici comu­ nali, enti parastatali e privati.

A Venezia, invece, avviene l’opposto : da secoli il centro direzionale occupa la piazza S. Marco e l’ansa inferiore del Canal Grande. Nella periferia geografica della Laguna sono state respinte le industrie (quelle vetrarie a Murano, quelle pesanti a Porto Marghera) che, con il giro di interessi che gravita loro intorno, sono viceversa degli importantis­ simi centri economici.

La periferia sociale

La non coincidenza del centro e della periferia geografici col centro e la periferia di determinate funzioni è confermata anche nel campo delle relazioni sociali.

Abbiamo definito prima come zone socialmente centrali quelle in cui si integrano dei rapporti tra individui e collettività pieni e completi, mentre possiamo chiamare periferia sociale tutte* le zone in cui sono evi­ denti i segni del decadimento o della ancor non raggiunta maturità sociale.

Oltre ad una periferia sociale coincidente almeno in parte con la periferia geografica, c’è di solito, nelle vecchie città, una zona di antica grandezza progressivamente decaduta, in cui agli abitanti che costitui­ vano i ceti alti della città si è sostituita povera gente. Gli slums sono in tutto il mondo una caratteristica dei quartieri più vecchi, e perciò centrali, dell’aggregato urbano: derivano dall’aver costruito nei giardini delle antiche abitazioni signorili, dall’averle sopraelevate, dal non averle dotate dei servizi via via inventati, dall’aver ridotto quartieri una volta belli e ricchi a poveri ammassi di case e di gente su vie strette, cortili senza luce e senza sole. Si pensi a Roma al quartiere del Rinascimento : tutta la zona cioè tra via Arenula, l’Argentina, corso del Rinascimento e l’ansa del Tevere.

Viceversa è frequentissimo il caso di sobborghi costituiti da ville, villini, palazzine abitate proprio dai ceti dirigenti che rifuggono dalle

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zone centrali decadute e non trovano più posto in quelle ancora efficienti. A Roma i quartieri ricchi dei Parioli e di Vigna Clara, quelli impiegatizi di Monte Mario o di piazza Vescovio sono geograficamente periferici, ma non lo sono socialmente.

La periferia e la città

In tutte le zone della città in cui una o più delle sue funzioni si pre­ senta con le caratteristiche della « periferia » ci troviamo in presenza di una situazione urbana non equilibrata. Intendiamoci però subito che ciò non vuol dire necessariamente che la situazione sia negativa.

L’organismo in fondo limitato come estensione e come abitanti della città di una volta poteva svilupparsi, almeno in certi periodi, senza alcuna presenza periferica : il centro commerciale, il centro direzionale, il centro religioso erano elementi di un unitario tessuto che costituiva insieme il centro residenziale, sociale ed anche militare.

Ma ciò è avvenuto solo in certi momenti della storia ed oggi attra­ versiamo uno di quei periodi in cui per le dimensioni e per lo sviluppo delle singole funzioni è necessario che ogni fenomeno abbia la sua pe­ riferia.

E’ tipico infatti di tutti i periodi di transizione, di tutte le epoche in cui si vengono formando le nuove civiltà uno scambio continuo e fattivo tra periferia e centro. Il centro rappresenta in questi casi la tradi­ zione, lo stadio raggiunto, i valori acquisiti : la periferia è invece il fattore evolutivo, la sede delle nuove istanze, delle nuove attività, dei nuovi ceti.

Pensiamo alla Roma imperiale dal IV sec. in poi : al centro sul Cam­ pidoglio e nei Fori sono sempre insediate le antiche istituzioni, i templi degli dei pagani, la curia del senato, le basiliche in cui si amministra la giustizia e si trattano gli affari. Ma tutto intorno alla città, nei primi campi, si viene definendo il nuovo mondo cristiano : le basiliche di S. Gio­ vanni, di S. Pietro, di S. Paolo, di S. Sebastiano, di S. Lorenzo, di S. Agnese sorgono tutt’in giro a Roma ed è nei sobborghi lì intorno, al di là o lungo le mura, che si formano le prime comunità e parrocchie cristiane.

La stessa cosa avviene nel XIII sec. in tutta Europa, quando si attua la riforma religiosa degli ordini mendicanti.

A Parigi Notre Dame, la cattedrale arcivescovile, campeggia al centro : ma le chiese dei cluniacensi, dei cistercensi, dei giacobini e dei cordiglieri sorgono nei borghi ancora semirurali, alle porte della città.

Così a Firenze e così a Siena : al centro restano le sedi del potere politico laico (palazzo del popolo o della Signoria) e religioso (arcive­ scovato e cattedrale), mentre i francescani, i domenicani, i carmelitani i serviti, gli agostiniani costruiscono le loro chiese nei quartieri nuovi, fuori le mura, lungo le vie che irradiano dalla città più antica, là dove si sta formando quella nuova.

Nel XVIII sec. i grandi rivolgimenti politici francesi successivi allo

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illuminismo muovono dai Faubourgs intorno alle nuove mura di Parigi, dove con le nuove idee si è venuta formando la nuova classe sociale, il nuovo « stato » che non ha altro scopo durante tutta la rivoluzione che di immettere la sua nascente, ma già affermata energia nel vecchio tradizionale aristocratico e reazionario « centro ».

Anche le grandi trasformazioni economiche del XIX sec. vedono le forze nuove nascere e svilupparsi nella periferia: è qui, infatti, che sorgono le industrie, il luogo cioè in cui si svolge quella rivoluzione appunto « industriale » che dà vita alla civiltà moderna.

E’ proprio il carattere « periferico » che facilita lo svilupparsi di nuove energie, di una nuova civiltà che da lì muoverà e si concluderà nella conquista della città. E’ quell’assenza di equilibrio che abbiamo vista tipica conseguenza della periferia, che spinge a trovare nuovi fatti, nuovi elementi per un equilibrio differente, per una organizzazione, cioè una società, nuova. E’ estremamente più difficile che un tale movimento, in qualunque direzione e relativo a qualsiasi funzione, nasca nel « centro », in una zona equilibrata, quindi assestata e incline per inerzia a rimanere fìssa e immutabile.

Se è da un dialogo siffatto che deriva la vita e il rinnovarsi della città, e quindi della civiltà, e se in questo dialogo la periferia è l’ele­ mento motore, ne consegue che non possiamo considerare in assoluto il termine periferia come un termine negativo, sebbene nell’uso corrente e attuale della parola ciò sia implicito.

Teoricamente periferia non significa altro che una parte del campo di attuazione di un fenomeno, di una funzione, di tutte le funzioni di una città: la vita di questa dipende perciò proprio dal rapporto, dalla, partecipazione, dallo scambio tra la periferia ed il centro, tra gli aspetti periferici e centrali dei vari problemi, tra le zone in cui sono localizzati e presenti.

¡Come in tutti i dialoghi uno dei due termini, O' entrambi, possono essere negativi. Abbiamo visto come il centro possa diventare da simbolo di tradizione simbolo di reazione, ed abbiamo visto come la periferia possa essere la fonte del rinnovamento. Possiamo perciò dire che quel senso negativo che è per noi legato alla parola periferia è conseguenza del momento particolare in cui si trovano le nostre città e che da questa contingente, attuale situazione deriva se l’assenza di equilibrio genera nella periferia uno stato patologico.

La “ città dirigente ” e la “ città subalterna ”

In genere non è facile individuare nella periferia delle città del XX sec. i germi di nuove strutture nascenti : ed è ancor più difficile che tali germi trovino nell’attuale struttura cittadina il clima adatto per svilupparsi. La cultura delle nostre città è una cultura conservatrice e statica, quando addirittura non è immobilista e reazionaria: non è una cultura che faciliti il dialogo con la periferia, ma che anzi lo evita e lo

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soffoca. L equilibrio eventuale delle zone centrali, e perciò dirigenti delle nostre città è un equilibrio cui la periferia non partecipa; al contrario si preferisce ignorarne l’esistenza e mantenerla al più in una posizione subalterna senza altri sbocchi che quelli consentiti da rapporti pater- nanstici.

La nostra periferia deriva dal rifiuto opposto ad integrare la «città dirigente » (quelle parti cioè in cui tutte le funzioni sono « centro ») con la « citta subalterna » (quelle parti cioè in cui sono « periferia ») : la vita di queste due citta, che finiscono quindi per costituire una unità solo geograficamente, e un dialogo sbagliato o assente del tutto.

La periferia generata dalla nascita dei nuovi problemi è fattore positivo della citta : e a mano a mano elabora e organizza il loro pas­ s a g g i a problemi « centrali » della struttura sociale e urbana. La peri­ feria invece generata dal rifiuto di certi problemi e dal rifiuto di una loro coordinata organizzazione non solo non è fattore positivo, ma finisce ben presto per essere un elemento soffocante della città, e quindi del suo « centro ». Il dialogo si trasforma in antagonismo e lotta.

Questa è la situazione delle nostre città a metà del XX secolo. Qui anche la cultura urbanistica si è fermata : il suo sforzo da cinquantanni m qua e di accettare i termini del problema come sua soluzione e rendere possibile alla periferia la vita senza il centro. 0 meglio ricreare su una differente scala non-cittadina quell’equilibrio che la città non offre più : 1 T JT nt' rm tal. sienso (garden cities, neighbourhood units, quartieri

autosufhcienti ecc.) hanno dato cioè per scontata la impossibilità di ri­ prendere positivamente il dialogo periferia-centro, hanno considerata finita la funzione civilizzatrice della città. Sono valide queste ipotesi? E estremamente difficile dirlo in via assoluta : nelle pagine che seguono proveremo ad analizzare in tal senso la città di Roma.

Caratteristiche del « centro storico ” di Rom a

dÌJenta ^ CoIp(> la capitale I t a l i a : era una città piccola (200.000 abitanti circa), ma la sua struttura era particolarmente complessa e confusa. Può sembrare strano, ma questa città che da più eh duemila anni e stata quasi sempre capitale, e capitale per giunta di qualcosa di grosso (Impero Romano o Papato) mancava nel 1870 proprio

delle caratteristiche d' una città capitale, Difficile individuarvi un centro

pohtico. quello della Roma antica era nel Foro, ma finito l’Impero era stato abbandonato e nel 1870 era campagna; quello della Roma medio­ evale e comunale era sul Campidoglio, ma nel 1870 le autorità munici­ p i avevano alcua Potere (il municipio era stato ricostituito solo

el 1847, ma dopo la Repubblica del ’49 era rimasto sottomesso ed umi­ liato rispetto alle gerarchie ecclesiastiche) e inoltre sorgeva topografi- camente alia periferia delia città. Il papa infine aveva continuato per secoli ad andare avanti e indietro tra Luterano e Vaticano, tra la sede del vescovato romano e le tombe degli Apostoli, senza però sentire la

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necessità di definire una strada chiara e sicura che unisse S. Giovanni a S. Pietro. Poi, dopo il ritorno da Avignone nel 1376, il Vaticano diventò la sede papale e insieme la fortezza e l’acquartieramento delle milizie mercenarie: tale era infatti la funzione di Borgo amministrato separa­ tamente da Roma fino al 1586. Amministrativamente diverso, cinto da mura, situato al di là del fiume con l’unico ponte bloccato dal forte di di Castel S. Angelo, S. Pietro era alla periferia di Roma e i suoi rapporti con la città furono del tutto particolari. Il papa del resto non vi risiedeva sempre : per molti mesi dell’anno la sua dimora era al Quirinale o addi­ rittura in una delle ville che attorniavano splendidamente la piccola e collinosa città.

Comunque la sede del potere politico, la residenza dell’autorità si aggirava tra le ultime case e la campagna, alla periferia geografica di Roma. Cosa c’era invece nella sua zona centrale? tra piazza del Popolo, il Campidoglio, il Tevere? 200.000 persone, abbiamo detto : pochi patrizi detentori con i molti porporati di tutte le ricchezze e di tutti i poteri; poi il « generone » e il « generetto », la borghesia cioè alta e bassa che amministrava i beni dei patrizi, mentre i prelati amministravano quelli dei porporati; infine 100.000 disoccupati circa, 100.000 persone cioè che vivevano di beneficenza e di rimedi, raccomandandosi al basso clero.

Anche all’aspetto Roma denunciava questa sua divisione in ceti. Alti sulla massa della città i grandi palazzi in pietra dell’aristocrazia: i Barberini alle Quattro Fontane, i Borghese a Ripetta, gli Orsini a Monte Savello, i Doria, i Chigi, i Boncompagni, i Salviati al Corso, i Mas­ simo a S. Andrea della Valle, i Colonna e i Muti ai SS. Apostoli, i Rospi­ gliosi a Monte Cavallo, gli Altieri al Gesù, i Caetani alle Botteghe Oscure, i Corsini alla Lungara, i Farnese al centro del quartiere del Rinasci­ mento.

Tutt’attorno ai palazzi, come nella speranza di ricavar qualcosa dalla vicinanza con la ricchezza, le case del popolo, estremamente misere: avevano un aspetto come di tante case di campagna messe una accanto all’altra, che oggi possiamo ritrovare in pochi punti : a via del Teatro Pace, a via S. Maria in Cappella, a via del Cedro, a piazza S. Anastasia. Roma doveva assomigliare molto ad un grosso paese.

Forse aveva un po’ più l’aria cittadina tra Campo Marzio e piazza del Popolo, dove da due secoli costruivano gli ultimi arrivati tra i nobili ed i primi arrivati della borghesia. Il tipo di casa che abitano è diverso dai palazzi e dalle case popolari : è la casa ad appartamenti con la scala in comune che, su una altezza totale minore di quella dei palazzi patrizi, riesce a disporre ben cinque piani, abitati da altrettanti proprietari o affittuari.

La prima trasformazione “ borghese ” di Roma

L’espansione che Roma subisce dopo il ’70 (400.000 abitanti nel 1895, 800.000 nel 1930, 2.000.000 già prima del 1960) è innanzi tutto dovuta all’aumento della classe borghese, originato dall’immigrazione

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burocratica. E’ ovvio che nei primi anni Roma non subì che un incre­ mento nella classe impiegatizia: di artigiani, di operai se ne potevano trovare anche troppi tra i 100.000 disoccupati della Roma papale.

I quartieri costruiti per i « ministeriali » che affluiscono a Roma riprendono perciò il tipo di casa borghese: la casa d’affitto che aveva cominciato a diffondersi a Roma in epoca barocca, che a Torino era diventata, dopo il periodo napoleonico, la protagonista dei nuovi quar­ tieri intorno a piazza Vittorio1 Emanuele I, a piazza Statuto, a piazza Carlo Felice. I nuovi quartieri di Roma furono' definiti « piemontesi » proprio perché dell’ampliamento ottocentesco di Torino riprendevano tipi e modi. Napoleone aveva impostato i tre ampliamenti torinesi a ovest, sud ed est su tre piazze : così a Roma gli architetti piemontesi giunti da Firenze al seguito di Cadorna tracciano piazza Vittorio Emanuele II, piazza dellTndipendenza, piazza Cavour. Attorno, i quartieri dell’Esqui- lino, di Castro Pretorio, dei Prati di Castello composti con strade diritte monotonamente fiancheggiate da case ad appartamenti di cinque piani, tutte intonacate di ocra gialla : il colore più economico. Qua e là timida­ mente i « piemontesi » tentarono di trapiantare i portici : ma da una parte il clima di Roma non li richiedeva e la tradizione non li conosceva, dall altra essi sottraevano area alla speculazione. Rimasero perciò allo stato di intenzione a piazza Esedra, a piazza Vittorio, a ponte Sisto.

In fondo, questa invasione di case d’affitto tutte eguali, tutte mono­ tone era un tentativo di importare a Roma, in questa orografia, in questo clima, in queste abitudini tanto diverse da quelle di Torino o di Milano o di Genova, qualcosa che avvicinasse la nuova capitale alle città europee del XIX sec. : si scelse indubbiamente uno degli aspetti più tristi di quelle, ma ciò non era allora chiaro e agli occhi degli immigrati sembrava anzi il contrario.

Così Giovanni Faldella, nel 1881, ci descrive le avventure e i desi­ deri di un giornalista piemontese, Roberto1 Sacchetti, emigrato a Roma : « ...aveva preso, provvisoriamente, per se solo, una stanzuccia in via dei Pastini, nella vecchia Roma. Era una cameretta triangolare, come un cappello da prete: aveva l’aridezza delle cose tarlate, la distaccatezza della tappezzeria marcia e la slogatezza delle quadrelle che si spostano sotto i piedi e lo schifo delle cose luride e logore... Si consolava nell’avve­ nire, nel pensiero del giorno in cui avrebbe messo a posto la mobilia sua nel quartierino suo... che aveva appigionato... nella Roma alta, ariosa, pittoresca di paesaggio, in una palazzina... di via Goito. » (1).

L atteggiamento è analogo a quello di Tito Livio venti secoli prima : nativo di Padova, Livio si aspettava di trovare anche nell’ TJrbs i regolari tracciati degli accampamenti romani e si stupisce di trovarla tanto irre­ golare, non si ritrova dentro a tanta, singolare « meridionalità ».

Nel quartiere di piazza Indipendenza, a via Goito, come aU’Esqui- lmo e a Prati, i piemontesi importarono e imposero una cosmopolita regolarità : che soddisfece gli « ufficiali di scrittura » del neo-regno di Italia.

(1) Giovanni Faldella, Roma borghese, ed. Cappelli, 1957.

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I quartieri «piemontesi» di Roma. Subito dopo il 1870 Roma subi­ sce la prima grande espansione: i quartieri che furono allora co­ struiti sono chiamati « piemon­ tesi » sia per una certa ironia politica del momento, sia per il loro carattere che arieggia all’ edi­ lizia ottocentesca di Torino. II tono « piemontese » era conse­ guenza di varie cause: i progetti­ sti, i costruttori, lo stesso appa­ rato burocratico statale che ma­ novrava i finanziamenti erano di origine « buzzurra » e « buzzurri » furono per lo più i primi abitanti di quelle case, fatte appunto per gli impiegati ministeriali. Ma c ’era anche una istanza igienica nel desiderio di sostituire alle vie strette e sporche della vecchia Roma, le vie e le piazze standar­ dizzate dall’urbanistica corrente nella seconda metà dell’ 800. I progettisti cercarono di spin­ gere la loro coerenza oltre i limiti possibili e fallirono compieta- mente quando vollero trapian­ tare a Roma i « portici »: anche quei pochi esempi che si sono inseriti nella vita della città, come a Piazza Vittorio (vedi sopra) o Piazza Esedra, sono assai tristi. Gli altri sono di uno squallore allucinante: come quelli che « adornano » due fabbricati sul Tevere e che nelle intenzioni del­ l’ autore, il Viviani, avrebbero dovuto bordare tutti i Lungo­ tevere (a destra).

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Roma ricca e media.

Questa veduta aerea del quartiere di piazza Bologna (sopra) mostra in ma­ niera allucinante le conseguenze dell’ec­ cessivo addensarsi della popolazione: niente verde, niente spazi liberi, strade tutte uguali, tutte strette non propor­ zionate né agli abitanti, né al traffico. In compenso l’enorme quantità di gente concentrata su così poco spazio fa si che la zona sia dotata di tutti i servizi neces­ sari e desiderabili: negozi di ogni genere, cinema, bar, trattorie, l’ufficio postale. Se si tolgono le case intorno a piazza Bologna che sono intensive alte otto piani, tutte le altre sono palazzine: il quartiere è infatti un tipico esempio di quartiere di ceto medio.

Viale Somalia (a sinistra) è uno degli esempi più recenti dei quartieri intera­ mente fatti di palazzine: dagli amplissi­ mi « balconi panoramici » non si ha altra possibilità che di guardare la casa di fronte e respirare la polvere della rumorosissima strada.

Il quartiere Tuscolano (in basso) rappre­ senta uno dei più pesanti interventi del­ l’edilizia privata dopo che l’edilizia statale (l’ INA-Casa in particolare) ha aperto la via all’urbanizzazione portando nella zona i servizi. Tra la via Tusco- lana (a destra) e la chiesa di Don Bosco

(a sinistra) la speculazione ha costruito

tristissimi casermoni di cemento armato alti otto e più piani: certi schemi pia­ nimetrici a torre o a stella inventati in altri paesi per ottenere maggiore areazione e luminosità sono stati qui usati all’ opposto per realizzare una maggiore densità.

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La Rom a nuova e la R om a vecchia

Ma quale atteggiamento assunse questa città borghese e regolare verso il resto di Roma: verso quell’antico, povero e contorto pezzo di città?

Leggiamo ancora il Faldella : « I quartieri nuovi dell’alta Roma si accampano come una consolazione, un rimprovero e un insegnamento a certi quartieri della bassa Roma confusi, addossati, lerci, affatto ciechi o appena leccati dal sole, ricchi di pulci; acciocché anch’essi si lascino saettare dai dardi e rinsanguare dai rivi di vita nuova ».

Dovrebbero scorrere questi « rivi » attraverso gli sventramenti che gli ingegneri comunali e governativi progettano a piene mani tra il 1870 e il 1885. Le modeste finanze del neonato regno ne consentirono la realiz­ zazione solo per alcuni : corso Vittorio Emanuele, via Arenula, via del Tritone, via Cavour, via Tomacelli, i Lungotevere. Solo in due casi demo­ lizioni e ricostruzioni non hanno come loro ragione il tracciamento di una strada, ma il risanamento di un quartiere: al Ghetto e all’Oca, tra piazza del Popolo e il Tevere.

Queste « nuove vie si spalancano e si allungano con giovialità mene­ ghina, frescura ginevrina, dirizzura torinese e fasto parigino » (è sempre il Faldella che parla), ma a noi interessa vedere qual’è la nuova vita che da loro si propaga nella città vecchia, nella Roma povera e lercia.

Di nuova vita si tratta in realtà solo in parte : per il resto è adatta­ mento alla nuova città, al nuovo mondo della vita e dei bisogni di sempre. E’ finita la beneficenza dei conventi, e al loro posto, nei palazzi che l’abo­ lizione dell’asse ecclesiastico darà allo Stato, si sono installati sia pure provvisoriamente i Ministeri, gli uffici della capitale : e si cerca allora di campare girando fi intorno, sostituendo le opere assistenziali di prima col servire i cento bisogni subalterni della nuova borghesia, in privato come nell’esercizio delle sue funzioni pubbliche.

Se il ceto medio si identifica con la borghesia che si trova lentamente e insensibilmente a svolgere le funzioni direttive della città, il ceto popo­ lare invece non diventerà mai una classe.

Ne è una prova il fatto che la massima attività in cui trova impiego è l’edilizia, dove per costruire le case dei quartieri borghesi occorre ap­ punto una indifferenziata manovalenza.

Il rapporto tra i due grandi ceti non muta : prima era l’aristocrazia indiretta datrice di beneficenze, adesso è la borghesia indiretta datrice di lavoro. Come i palazzi patrizi dominavano le piazze al centro delle fitte case dei poveri, così adesso le case ad appartamenti si allineano sugli sventramenti, soffocando e chiudendo con i loro cinque piani le basse casette sui vicoli.

Si pensi a corso Vittorio Emanuele, la strada più grande, più impe­ gnativa e più tipica realizzata in quegli anni : il quartiere giunge al corso, che ne diventa topograficamente l’asse, filtrato attraverso una

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barriera di impettiti palazzi ad appartamenti, costruiti per lo più impie­ gando ad alto reddito i fondi ottenuti speculando sugli espropri del risa­ nando Ghetto. Vi andrà ad abitare l’alta borghesia, mentre la bassa s affolla attorno alla nuova piazza Vittorio Emanuele. Di nuovi quartieri popolari per ora non si parla : il popolo è ancora quello vecchio di Roma nelle sue vecchie case, nei suoi vecchi vicoli. Se si risana, è per sostituire al popolo la borghesia.

La seconda trasformazione “ popolare ” di Rom a

L’espansione popolare però non tarda a sovrapporsi a quella bor­ ghese : comincia quando l’immigrazione di ex contadini, braccianti, mano­ vali ha raggiunto un certo valore. Anche qui la causa non è la trasfor­ mazione dei ceti romani, ma l’aggiunta ad essi di nuova popolazione. Sarà questa una caratteristica costante di tutta la storia dell’espansione di Roma dopo il ’70 : l’incremento demografico naturale è sempre molto inferiore all’incremento migratorio. Le conseguenze sociali sono evidenti ; a poche persone formatesi in un determinato ambiente se ne sommano molte che sono a quell’ambiente estranee, che vi vengono a contatto di colpo, portandosi dietro ovviamente abitudini e bisogni dell’ambiente sociale che hanno abbandonato.

I primi « cafoni >> che sbarcarono la loro miseria a Roma si instal­ larono nei fienili, nei granai, nei « casoni » delle fattorie intorno alla città. da lì si alzavano la mattina per andare a piedi nei cantieri, come al paese si alzavano per andare nei campi lontani. Poi costruirono lì attorno o più vicino alla città baracche di fortuna : al Mandrione, a Porta Maggiore. Infine si accamparono dentro Roma come clochards privi di tutto : la famiglia l’avevano lasciata al paese, la roba loro era un fagotto che si portavano dietro sul lavoro e di notte serviva da guanciale. Dormi­ vano in alcune località « concesse » : i portici di piazza Vittorio e quelli sul Lungotevere a Ponte Sisto, le scalinate delle basiliche di S. Lorenzo, S. Maria Maggiore e S. Giovanni, la scalinata di S. Agostino, di S. Pietro in Vincoli, di S. Maria dei Monti, ecc.

. ^u<\ sembrare incredibile, ma la cosa andò avanti per molti anni : e il rimedio era,, lentamente, l’infittirsi di nuove baracche fuori le mura, alcune costruite magari dallo stesso Comune. Si può restare stupiti di ciò : ma perché si sarebbe dovuto risolvere per virtù propria un pro­ blema per la cui soluzione non si erano creati i necessari strumenti? L ampliamento di Roma, la costruzione cioè delle case per gli immigrati, eia affidata alla «libera» iniziativa privata: questa lo vedeva ovvia­ mente dal punto di vista del guadagno, deH’utile impiego dei capitali occorrenti e si dedicava perciò esclusivamente alla costruzione di case « signorili », le uniche che garantivano un congruo utile. In base a quale legge si sarebbero potuti obbligare dei privati imprenditori a scegliere, tra un impresa lucrativa ed una fallimentare, la seconda anziché la prima?

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‘ zone abitate

parchi e zone S B militari e industriali

zone dirigenti

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1870 - 1900 1930 - 1960

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