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Educazione e decolonizzazione

Pedagogia in cammino: contrappunti italobrasilian

4.1 Educazione e decolonizzazione

La politica colonialista dei Paesi europei in Africa, Asia e America latina, oltre ad aver determinato l’invasione e l’appropriazione di territori, nazioni e regioni geografiche molto estese, si è caratterizzata come un processo socio-politico progressivo finalizzato alla formazione delle mentalità popolari nei Paesi del Sud del mondo185.

In molti Paesi che hanno subito l’esperienza coloniale, infatti, il ruolo dei colonizzatori non è stato soltanto quello di conquistatori della terra, espropriata con la violenza delle armi alle popolazioni che in precedenza la abitavano, ma anche quello di trasmettitori della cultura, delle istituzioni, delle abitudini e dei modi di vita occidentali, una volta portata a termine la fase iniziale della conquista.

In linea generale, dunque – non trascurando le specificità di ogni caso singolo - le politiche coloniali hanno sempre agito attraverso due fasi progettuali distinte ma consequenziali: nella prima fase con un progetto militare, nella seconda fase con un progetto socio-educativo.

In particolare, dal punto di vista socio-educativo, il progetto dei colonizzatori è stato quello di introdurre forzatamente nei Paesi del Sud del mondo tutte le forme di espressione culturale euro-occidentali – a livello linguistico, letterario, artistico, musicale, ecc. - al fine di sostituirle in tempi brevi alle culture locali delle popolazioni indigene. Si è trattato, dunque, di un progetto sistematico di invasione culturale, suffragato dalla circolazione di secolari teorie e miti sulla “razza” funzionali agli intenti di controllo politico e sfruttamento economico delle regioni colonizzate da parte dei Paesi europei.

Per mettere a punto questo progetto, in primo luogo i colonizzatori hanno costruito strutture istituzionali basate sul modello occidentale, occupandone i posti direttivi: governi e parlamenti sorti dal nulla al fine di accaparrarsi il potere centrale, strutture religiose per evangelizzare gli indigeni e convertirli al cristianesimo, scuole e università coloniali per formare le giovani menti alla cultura europea.

Edward Said, ad esempio - analizzando i processi di colonizzazione politica prima e culturale poi dei Paesi asiatici da parte dell’Inghilterra e degli Stati Uniti, ha messo in rilievo il fatto che da diversi decenni le Università asiatiche funzionano sul modello di

185 L’espressione “Sud del mondo”, non esente da rischi di generalizzazione eccessiva, sta qui ad indicare

quello che veniva chiamato Terzo mondo - definizione attribuita al demografo francese Alfred Sauvy nei primi anni ’50 per via del paragone con quello che era il Terzo stato nella Francia pre-rivoluzionaria – a partire dalle linee politiche di non allinemanento al bipolarismo USA-URSS tracciate dalla Conferenza di Bandung (1955) fino ad arrivare alla caduta del Muro di Berlino (1989).

quelle inglesi e americane, avendo peraltro in molti casi più docenti anglosassoni, o formatisi in un contesto anglosassone, che docenti locali.

Nel suo fondamentale excursus sulla storia della concezione occidentale dell’Oriente, lo studioso palestinese-americano ha mostrato che tale concezione, da lui appunto denominata “orientalista”, si è basata su un numero limitato di stereotipi e pregiudizi, che hanno inteso raccontare la storia della cultura, della mentalità e delle tradizioni di nazioni millenarie in pochi assunti, peraltro giustapposti in modo indiscriminato alle situazioni più differenti186.

Si tratta, quindi, di nazioni e di popolazioni a cui è stata tolta la parola, la capacità di autorappesentazione, sulla base della supposizione che potessero essere meglio descritte e rappresentate dalla razionalità occidentale. La frase di Marx riportata in epigrafe da Said nell’incipit di Orientalismo - “non possono rappresentare se stessi; devono essere rappresentati” - esprime puntualmente questa visione etnocentrica del mondo187.

La diffusione di tali visioni culturali e modelli socio-politici - non solo in Asia ma in molti altri Paesi del Sud del mondo - ha portato all’affermarsi dell’idea della superiorità della cultura euro-occidentale rispetto alle culture locali, accompagnata dall’idea della superiorità della “razza bianca”188, generando così la formazione di mentalità popolari

subalterne.

Il sociologo franco-tunisino Albert Memmi, a questo proposito, ha svolto un’analisi sistematica delle relazioni di soggezione, non solo dal punto di vista sociale e culturale ma anche dal punto di vista psicologico, che legano la personalità del colonizzato a

186 Gli assunti principali di questa visione stereotipata dell’ “Oriente”, che Said chiama

provocatoriamente dogmi, sono “l’assoluta e sistematica contrapposizione di un Occidente razionale, progredito, umano, superiore a un Oriente irrazionale, arretrato, disumano e inferiore; l’abitudine a considerare le astrazioni riguardanti l’Oriente, in particolare se desunte da testi relativi alle civiltà orientali “classiche”, preferibili all’immediata osservazione delle moderne realtà orientali; l’idea che l’Oriente sia atemporale, uniforme e incapace di definire se stesso e quindi il dare per scontato che una terminologia assai sistematica e ricca di generalizzazioni, volta a descrivere l’Oriente dal punto di vista occidentale, sia qualcosa di inevitabile e persino scientificamente “obiettivo”; la teoria che l’Oriente sia in fondo temibile e pericoloso (dalle orde mongole al “pericolo giallo”) e vada quindi tenuto sotto controllo (con la ricerca scientifica, lo sviluppo e le relazioni di buon vicinato ma anche, se necessario, con la pressione militare e l’occupazione territoriale)”. Said E., Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano 1999, p.298.

187 Cfr. Ivi.

188 Vale qui la pena ricordare che il termine “razza” è stato ormai rifiutato da gran parte della letteratura

scientifica mondiale, dal momento che la genetica ha mostrato che esso non è indicativo di alcuna ripartizione ipotizzabile fra diversi tipi umani: è possibile, viceversa, che un europeo e un africano abbiano un codice genetico più simile rispetto a quello di due europei o di due africani. Un contributo fondamentale nel superamento del concetto di “razza” lo ha fornito il genetista italiano Luigi Luca Cavalli Sforza. Cfr Cavalli Sforza L.L., Geni, popoli e lingue, Adelphi, Roma 1996.

quella del colonizzatore. Quest’ultimo, mano a mano che il processo di invasione culturale attecchisce, diventa nell’immaginario del colonizzato una sorta di figura genitoriale insopportabile ma al contempo indispensabile, introiettata nella coscienza come immagine di forza e di potere fino a risultare una figura oppressiva interna verso la quale si provano sentimenti contrapposti di odio e ammirazione189.

L’etnopschiatra Frantz Fanon, invece, oltre ad aver analizzato alcuni aspetti medici concernenti il legame fra guerre coloniali e disturbi mentali dei colonizzati, si è soffermato maggiormente sull’analisi del problema della formazione della società nazionale nei Paesi del Sud del mondo, in seguito ai processi di decolonizzazione avvenuti negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso.

Nell’ambito di questa analisi, Fanon individua alcuni importanti problemi che ostacolano la creazione di un modello socio-politico forte nei Paesi di recente decolonizzazione. Tra questi, due sembrano di particolare rilevanza: la presenza delle masse contadine dimenticate dalle istituzioni, rimaste sostanzialmente estranee nei processi di lotta ma aventi un grande e violento potenziale rivoluzionario; la presenza di una borghesia locale molto differente da quella europea, priva di iniziativa economica e formata sul modello coloniale.

Proprio il problema della passività e dell’accondiscendenza della borghesia dei Paesi poveri sembra emergere come uno dei nodi cruciali rispetto al tema del sottosviluppo: “una borghesia come si è sviluppata in Europa ha potuto, pur rafforzando la propria potenza, elaborare un’ideologia. Questa borghesia, istruita, laica, è riuscita pienamente nella sua impresa d’accumulazione del capitale e ha dato alla nazione un minimo di prosperità. Nei paesi sottosviluppati, abbiamo visto che non esisteva una vera borghesia, ma una specie di piccola casta dai denti pronti, avida e vorace, dominata da una mentalità gretta e che si adatta ai dividendi dell’antica potenza coloniale. Questa borghesia poco lungimirante si rivela incapace di grandi idee, d’inventiva. Si ricorda di quel che ha letto nei manuali occidentali e impercettibilmente si trasforma non più in copia dell’Europa, ma in caricatura”190.

In questa situazione, nei partiti che si sono battuti per l’indipendenza prevalgono le spinte conservatrici dei borghesi locali, i quali tendono a difendere i loro privilegi in qualità di sostituti della precedente borghesia coloniale, più che a creare nuova ricchezza attraverso lo spirito d’iniziativa, tipico della borghesia europea dell’età

189 Cfr. Memmi A., Ritratto del colonizzato e del colonizzatore, Liguori, Napoli 1979. 190 Fanon F., I dannati della terra, Einaudi, Torino 1962, pp.120-121.

moderna e contemporanea. I leader politici stessi, tanto celebrati dalle masse popolari ai tempi della guerra, seguendo questo processo si distaccano progressivamente da queste, determinando un sostanziale arresto del processo rivoluzionario e di modernizzazione della società.

Nel contesto tracciato, Fanon pone anche la delicata questione del ruolo dell’intellettuale nei Paesi del Sud del mondo. Essendo in questi Paesi pressoché assente una borghesia progressista, infatti, l’intellettuale non può appoggiarsi a nessun partito politico e in generale a nessun gruppo egemonico, pena il diventare complice degli apparati coercitivi e repressivi del potere che riproducono lo status quo. L’unica soluzione, dunque, è che egli salti dall’altra parte della barricata, mischiandosi completamente con il suo popolo, per diventare organico alla causa dell’emancipazione delle masse popolari.

Uno sviluppo ulteriore delle idee di Fanon ha spinto Amílcar Cabral alla teorizzazione del “suicidio di classe” dell’intellettuale nel quadro generale della “riafricanizzazione” della società. Secondo il leader del Partito per l’Indipendenza della Guinea Bissau e di Capo Verde, infatti, soltanto a partire dall’identificazione completa dell’intellettuale con il suo popolo sarebbe stato avviabile un processo di riappropriazione dell’identità culturale locale all’interno dei Paesi di recente decolonizzazione.

Va precisato, però, che la riappropriazione dell’identità nazionale non è da confondere con un’ideologia di stampo fanatico e nazionalista, bensì, secondo Cabral, deve accompagnare il processo di lotta delle popolazioni colonizzate, le quali attraverso l’emancipazione culturale imparano a dire le loro parole con la loro voce (per usare un’espressione freireana) dopo tanti decenni di assoggettamento e di silenzio.

Come afferma Anna Maria Gentili, infatti,

“la lotta di liberazione, così come oggi dovrebbe essere la lotta per la democrazia, è nelle parole di Cabral simultaneamente il frutto della storia del popolo e ciò che determina la storia. Il germe della lotta di liberazione era nel riconoscimento e nella rinascita della cultura autoctona come essenza, strumento per far progredire la liberazione e lo sviluppo. Dunque non una visione tradizionalista di cultura, ma la rivendicazione di una cultura dinamica che si è trasformata e ha saputo continuare a essere, a significare malgrado l’oppressione e la negazione. L’enfasi di Cabral sul ruolo della cultura è il risultato del modo in cui egli, attraverso la propria esperienza concreta, definisce il rapporto reciproco con la storia e la vita economica della società. Poiché la cultura è il prodotto della storia di un popolo, la liberazione nazionale è necessariamente un atto di cultura e il movimento di liberazione è l’espressione politica organizzata

della cultura di un popolo. Il fine della liberazione non era scacciare la dominazione coloniale, ma soprattutto costruire un nuovo tessuto sociale per mezzo del quale restituire identità e dignità alle popolazioni africane”191.

Quando nel 1975 Paulo Freire si reca in Guinea Bissau e a Capo Verde - all’indomani dell’indipendenza dal Portogallo e dell’assassinio di Amílcar Cabral, percepisce immediatamente, frequentando i villaggi e le scuole locali, l’impronta decisamente coloniale dei modelli socio-relazionali ed educativi.

Secondo il pedagogista brasiliano, la scuola guineana di ideologia coloniale

“cercava di inculcare nei bambini e nei giovani il profilo che di essi tracciavi tale ideologia, il profilo cioè di esseri inferiori, incapaci, la cui unica salvezza sarebbe stata diventare bianchi o neri di anima bianca. Di qui il disprezzo che una scuola del genere non poteva non nutrire per tutto quanto riguardasse da vicino il popolo, i cosiddetti nativi. Più che disprezzo, era la negazione di tutto ciò che fosse espressione più autentica della maniera di essere del popolo: la sua storia, la sua cultura, la sua lingua. La storia dei colonizzati cominciava con l’arrivo dei colonizzatori, con la loro presenza civilizzatrice; la cultura dei colonizzati era l’espressione della loro barbara maniera di capire il mondo”192.

Animata da questa ideologia, la scuola coloniale faceva dei suoi programmi il principale veicolo di indottrinamento dei giovani guineani a una visione del mondo eurocentrica, insegnando loro la geografia, la storia e la letteratura dell’ex-metropoli portoghese e trascurando del tutto le forme di espressione culturale locali.

In questo senso, afferma Freire,

“si imponeva la riformulazione dei programmi di geografia, di storia e di lingua portoghese di pari passo con la sostituzione dei testi di lettura, impregnati di ideologia colonialista. Era necessario che gli studenti guineani studiassero, anzitutto, la loro geografia e non quella del Portogallo, che conoscessero i loro mari, il loro clima e non il fiume Tago (il fiume che attraversa Lisbona, ndr). Bisognava che gli studenti guineani studiassero, prima di tutto, la storia della resistenza del loro popolo contro l’invasore e la storia della lotta di liberazione che restituì loro il diritto di costruire la propria storia; di studiare, dunque, questa storia e non quella del re del Portogallo e degli intrighi della corte”193.

191 Gentili A.M., La lezione di Amílcar Cabral trent’anni dopo, in Apa L., Zamponi M. (a cura di), Il

colore rosso dei jacaranda, AIEP, Repubblica di San Marino 2005, p.15.

192 Freire P., Pedagogia in cammino. Lettere alla Guinea Bissau, Mondadori, Milano 1979, pp.31-32. 193 Ivi, p.38.

Un’ulteriore problematica educativa fondamentale, rilevata da Freire nelle società guineana e capoverdiana in quanto eredità del modello coloniale, concerne la questione della lingua. Il pedagogista brasiliano, infatti, in conclusione al volume Pedagogia in

cammino, facendo un bilancio delle sue esperienze educative africane, affermava:

“uno dei punti sui quali dovrò tornare in modo più esteso, forse nella prima delle prossime relazioni, è il problema della lingua. Infatti, quanto più mi addentro nell’esperienza guineana tanto più si fa evidente l’importanza di questo problema, che chiede risposte adeguate a situazioni differenti. Perché il problema della lingua non può non essere una delle preoccupazioni centrali di una società che, dopo essersi liberata dal colonialismo e rifiutando il neocolonialismo, si dedica completamente allo sforzo di ricrearsi di nuovo. In questo sforzo di reinventare la società è fondamentale che il popolo riconquisti la propria

parola”194.

Dal punto di vista linguistico, infatti, a partire dalla dichiarazione d’indipendenza un problema importante che si è posto sia a Capo Verde sia in Guinea Bissau è stato quello della discrepanza fra lingua ufficiale e lingua parlata.

In entrambi i Paesi, mentre la lingua ufficiale è rimasta il portoghese, nelle interazioni quotidiane fra le popolazioni locali risulta largamente più diffusa e utilizzata la lingua creola. Questa discrepanza, peraltro, è da collegarsi al problema dei tassi di analfabetismo, negli anni ‘70 ancora altissimi in quasi tutti i Paesi africani.

Se il portoghese è la lingua della stampa, della scuola, dell’università e della politica, mentre il 90% della popolazione è totalmente analfabeta, non è mai andata a scuola, non ha mai votato alle elezioni e si esprime quotidianamente in creolo – come era in Guinea Bissau nel 1975, un problema di rilevanza nazionale concerne la situazione di dualismo linguistico che viene a crearsi. Si formano, cioè, due raggruppamenti linguistici totalmente paralleli, che peraltro coincidono puntualmente con due raggruppamenti sociali: la lingua dell’elite e la lingua della massa, la lingua del potere e la lingua del popolo.

In questa situazione, alcuni settori progressisti dell’intellettualità guinense e capoverdiana a più riprese hanno fatto pressione sui governi, affinchè nei due Paesi si attuasse una rivoluzione culturale per introdurre un utilizzo più frequente del creolo nelle situazioni ufficiali, così da rendere il linguaggio della classe dirigente più vicino al linguaggio del popolo.

Anche Paulo Freire, dopo i primi mesi di lavoro in Guinea Bissau, riscontrando un enorme problema di comunicazione nell’ambito delle azioni e delle istituzioni educative, si pronunciò a favore del maggiore utilizzo del creolo in ambito nazionale, nel quadro di un processo progressivo di riappropriazione dell’identità culturale.

Oggi, invece, in Guinea Bissau e a Capo Verde - pur essendo parzialmente migliorati i livelli di istruzione della popolazione - la questione della lingua si ripropone rispetto a un recente fenomeno sociale: l’immigrazione post-coloniale verso il Portogallo.

La ex-metropoli dei Paesi africani, infatti, seguendo un percorso storico simile a quello dell’Italia, negli ultimi decenni si è rapidamente trasformata da Paese di emigrazione a polo di attrazione delle nuove migrazioni di massa, che giungono soprattutto dalle ex-colonie. I capoverdiani, in particolare, rappresentano la comunità etnica più numerosa in Portogallo, concentrata soprattutto nelle aree urbane più sviluppate – Lisbona e Porto, dove in diversi casi hanno anche mostrato un discreto livello di interazione con la comunità ospitante.

In questo quadro, un problema rilevante che si pone concerne i percorsi di inserimento scolastici e lavorativi degli immigrati capoverdiani, soprattutto nei contesti di apprendimento della lingua. È ipotizzabile che vi sia un concreto rischio di confusione linguistica per una persona, adulto o bambino che sia, abituato ad esprimersi in creolo e improvvisamente “sommerso” da un contesto in cui ci si esprime, si insegna e si apprende in portoghese. La somiglianza fra le due lingue a livello delle parole più utilizzate, accompagnata però da differenze a livello di strutture grammaticali, di organizzazione del periodo e di pronuncia di determinati fonemi, può indurre l’immigrato capoverdiano a ricorrenti errori di scrittura, fino ad arrivare a una fase di

impasse195.

Oggi la scuola portoghese, dunque – così come la scuola italiana e di tutti i Paesi dell’Unione Europea, è chiamata direttamente in causa nel favorire efficaci processi di integrazione delle minoranze linguistiche e culturali, nell’ottica di una formazione che garantisca pari opportunità per tutti.

195 Cfr. Pereira D., Alfabetização de adultos em contexto bilingue: as comunidades de origem africana em

Portugal, in Rocha-Trinidade M.B., Sobral Mendes M.L. (organização), Educação intercultural de adultos, Universidade Aberta, Lisboa 1996, pp.213-234. La ricercatrice portoghese Dulce Pereira è una

delle studiose più accreditate delle lingue creole derivate dal portoghese, con particolare riferimento alla variante capoverdiana.

Sottolineata l’importanza cruciale di tali problematiche, la questione della lingua in Guinea Bissau e a Capo Verde – così come in Angola, in Mozambico e a São Tomé e Príncipe, le altre ex-colonie portoghesi d’Africa – resta tuttavia da inquadrare all’interno di alcune dinamiche storiche e sociali più vaste, complesse e difficili, in cui l’esperienza coloniale gioca ovviamente un ruolo determinante.

Nelle ex-colonie portoghesi, infatti, i processi di formazione linguistica vanno collocati all’interno dei più generali processi di formazione della società, della cultura e delle identità locali.

Come in molte ex-colonie d’Africa e d’Asia dell’impero britannico, a partire dai processi di decolonizzazione, si sono sviluppate forme di pidgin english – un inglese contaminato da espressioni gergali locali, pronuncia differente delle parole, neologismi basati sul sincretismo linguistico, ecc., così allo stesso modo è possibile parlare di un portoghese pidgin, una lingua camaleontica e “porosa” che attraverso i processi coloniali di espansionismo linguistico e culturale si è mischiata alle lingue africane in Guinea Bissau e a Capo Verde, alle lingue amerinde in Brasile e anche ad alcune varianti asiatiche nelle ex-colonie di Macau e di Timor Est196.

Il caso di Capo Verde, ad esempio, rappresenta un paradigma e allo stesso tempo un esempio unico di come un processo di formazione linguistica possa contribuire a generare forme culturali sincretiche nella letteratura, nella musica e nell’espressione artistica nazionali.

L’unicità di Capo Verde è determinata sostanzialmente da un fatto storico, dal momento che le nove isole che compongono l’arcipelago dell’Africa centro-occidentale - situate di fronte alla costa del Senegal, prima di essere scoperte nel 1456 dai navigatori genovesi Antonio e Bartolomeo da Noli e in seguito colonizzate dai portoghesi, erano completamente disabitate. Soltanto in seguito le Isole divennero uno dei punti di snodo principali della tratta degli schiavi diretta verso le Americhe, dove quindi convivevano forzatamente deportati africani e marinai e signorotti portoghesi.

Si può affermare, dunque, che il processo di formazione dell’identità nazionale capoverdiana rappresenti un unicum nella storia del colonialismo, in quanto generato

196 Sono state messe in risalto, comunque, alcune differenze essenziali fra le diverse contaminazioni della

lingua portoghese parlata nel mondo. Infatti, mentre nel caso del guinense e del capoverdiano si può