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Gli effetti dell’art 4-bis o p sulla sospensione dell’esecuzione della pena.

Ulteriori effetti negativi per i condannati per taluno dei reati ostativi sono stati introdotti in tema di sospensione dell’esecuzione della pena, con riferimento all’art. 656 c.p.p., così come modificato dalla legge 27 maggio 1998, n. 165 (c.d. legge Simeone).

Come noto, l’art.656, co.1 c.p.p. stabilisce che quando deve essere eseguita una sentenza di condanna a pena detentiva, il pubblico ministero emette ordine di esecuzione della pena mediante il quale, se il condannato non si

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trova già in stato di detenzione, ne viene disposta la carcerazione. Tuttavia, ai sensi del co. 5 del medesimo articolo, qualora la pena detentiva da scontare, anche se costituente residuo di maggiore pena, non sia superiore ad anni tre, ovvero ad anni sei nei casi di cui agli articoli 90 e 94 del T.U. in materia di sostanze stupefacenti (D p.r. n.309/90 e succ. modif.), il pubblico ministero deve necessariamente - senza alcuna discrezionalità in merito, salvo casi particolari - sospendere con decreto l’ordine di esecuzione della pena detentiva e contestualmente notificare l’ordine di carcerazione e il decreto di sospensione al condannato e al proprio difensore, affinché l’interessato possa eventualmente presentare, entro trenta giorni dalla ricevuta notifica, istanza al Tribunale di Sorveglianza competente per la concessione di eventuali misure alternative al carcere (affidamento in prova, detenzione domiciliare, ecc.).

Allo stesso tempo, il comma 9 dell’art.656 c.p.p. contiene una serie di cause ostative alla sospensione dell’esecuzione della pena, riconducibili sia alla tipologia dei reati per i quali vi è stata condanna, sia alla condizione giuridica di colui che viene attinto dalla sentenza da eseguire, situazioni tutte giustificate, nell’ottica legislativa, da una presunzione di pericolosità del condannato, in quanto ritenuto non idoneo all’ottenimento dei benefici penitenziari, pur avendo ricevuto una condanna rientrante nella forbice edittale prevista dalla norma.

Si tratta, appunto, dei condannati per taluno dei delitti previsti all’art.4-

bis ord. penit., dei recidivi, ovvero di coloro che si trovano, al momento del

passaggio in giudicato della sentenza, in stato di custodia cautelare, per i quali viene radicalmente esclusa dalla legge la sospensione dell’esecuzione della pena, potendo costoro eventualmente accedere ai benefici penitenziari solo dopo aver scontato il quantum di pena eventualmente previsto dalle norme di riferimento di ciascuna misura premiale.

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Pur essendo in più occasioni intervenuta, allorquando fossero ravvisabili meccanismi automatici con effetto preclusivo sulla concessione delle misure alternative e/o dei benefici penitenziari, tali comunque da svilire la finalità rieducativa della pena, la Corte Costituzionale non si è ancora mai pronunciata su questo tema specifico.

Circostanza che lascia sopravvivere un amplissimo vulnus dell’art. 27 co. 3 Cost.

A differenza dei Giudici delle leggi, le corti territoriali si sono in più occasioni interessate al problema.

Di recente, sono state rimesse alla Corte Costituzionale due istanze proponenti questione di legittimità costituzionale della norma in esame, afferenti alla disparità di trattamento, con riferimento all’ambito dei reati sessuali, costruita dall’art. 4-bis tra i condannati per l’ipotesi attenuta dell’art. 609-bis c.p. ed i condannati per gli altri delitti, quando la condotta di questi fosse comunque qualificabile come di particolare tenuità.

La Corte di Appello di Bologna287, adita quale giudice dell’esecuzione, ha ritenuto rilevante la questione partendo dal presupposto che l’orientamento maturato sul tema dalla Cassazione, fondato sulla discrezionalità del legislatore di prevedere regimi difformi per diverse categorie di delitti, non appariva ragionevole nel caso concreto.

«Una valutazione esaustiva della compatibilità di una norma processuale, quale quella risultante dal combinato disposto dell'art. 656 comma 9°, lettera a), c.p.p. e dell'art. 4-bis, comma 1° quater, dell'ordinamento penitenziario, con il dettato della Carta Costituzionale è possibile soltanto laddove se ne legga il dettato in relazione alla norma incriminatrice sostanziale all'esecuzione delle cui pene irrogate sovrintenda. La Corte di Cassazione, con il nitido rigore argomentativo che

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le compete quale organo nomofilattico, ha bene spiegato come la scelta di sottoporre l'esecuzione delle pene irrogate per fatti di violenza sessuale in danno di minorenni, quand'anche attenuate dalla minore gravità, ad un regime esecutivo di maggior rigore rispetto ai fatti di violenza sessuale commessi in danno di vittime maggiorenni, anch'essi attenuati, sia rimessa alla discrezionalità del legislatore, quando esercitata in modo non arbitrario. La ratio di tale differenziazione, in tutta evidenza, risiede nella particolare natura dei reati di violenza sessuale in danno di minori, riconosciuti di particolare gravità da un lato ed espressione, dall'altro, di una particolare e patologica espressione della personalità dell'autore. Così la legge ha imposto, per effetto del combinato disposto dell'art. 656, comma 9°, lettera a) e dell'art. 4-bis, comma 1° quater, o.p., che l'accesso al lavoro all'esterno, ai permessi premio e alle misure alternative sia possibile soltanto dopo un anno di osservazione personologica condotta dall'equipe carceraria. In buona sostanza, la legge ha considerato il tipo d'autore del sex offender di una pericolosità specifica che può e deve essere valutata, fronteggiata e in via eventuale attenuata o elisa soltanto attraverso l'osservazione ed il trattamento penitenziario, laddove a tali conclusioni non perviene quando il violentatore «mite» abbia invece commesso il fatto in danno di una vittima maggiorenne, sia pure con violenza o minaccia Però, il legislatore prima e la Corte di Cassazione poi non hanno forse valutato appieno la gamma di fatti coperti dalla previsione della norma incriminatrice dell'art. 609-quater, ultimo comma, c.p. La considerazione dell'ipotesi di fatto del processo a carico del S. che ha portato all'inflizione della pena della cui esecuzione si discute nel presente incidente di esecuzione, mostra in tutta evidenza un profilo di irragionevolezza nel complesso normativo applicabile alla fase esecutiva, così come correttamente ed inevitabilmente interpretato dalla 287

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Corte di Cassazione. Ancora una volta si rammenta come l'odierno ricorrente sia stato condannato per fatti di congiunzione carnale con una minorenne con la quale aveva allacciato una relazione - nec vi nec clam e consenzienti i genitori della vittima - iniziata quando anch'egli era minorenne e proseguita nel corso degli anni sino all'instaurazione di una stabile convivenza dalla quale era nato anche un figlio. In tutta evidenza, non è possibile individuare, in una relazione nata nell'ambito del gruppo dei pari e sfociata in rapporti sessuali privi di qualunque connotato di violenza o clandestinità, alcun profilo personologico patologico tale da suggerire o imporre quel periodo di osservazione intramuraria di un anno previsto dalla legge. Al contrario, la legge riporta l'esecuzione delle pene inflitte al sex offender nel binario delle regole ordinarie - per cui, lo ricordiamo, la forma dell'esecuzione carceraria è soltanto residuale, nel favore per le forme alternative di espiazione - nell'ipotesi in cui, pur commesso il fatto con violenza o minaccia, lo stesso sia stato ritenuto di particolare tenuità. Forse in quest'ultimo caso - in cui comunque l'autore sottopone ad atti di natura sessuale la vittima con violenza - residua un profilo personologico tale da consigliare un'osservazione della personalità, ma la legge ha, al contrario, in ragione della minore gravità del fatto, lasciata aperta la possibilità dell'accesso alle misure alternative alla detenzione direttamente dallo stato di libertà. E' evidente, quindi, come una situazione di fatto di minore gravità subisca un ingiustificato trattamento deteriore rispetto ad altra connotata da profili di maggiore gravità, in violazione del principio di uguaglianza dell'art. 3 della Costituzione. L'art. 27, comma 3°, della stessa Carta Costituzionale, prevede che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato. Il precetto costituzionale, nel corso dell'evoluzione del nostro sistema sanzionatorio, si è articolato e ha trovato attuazione con l'ordinamento penitenziario che, in via di estrema sintesi, ha previsto la forma

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carceraria di esecuzione della pena soltanto come extrema ratio, laddove forme diverse di esecuzione (le c.d. misure alternative), non siano possibili e praticabili. Il precetto costituzionale trova un corollario inevitabile nella adeguatezza della forma di esecuzione della pena alla concreta esigenza rieducativa. Come sopra evidenziato, infatti, nel caso di specie non sussiste la particolare «esigenza rieducativa» che ha condotto il legislatore - secondo la condivisibile opinione della Corte di Cassazione - a stabilire un regime differenziato e più gravoso dell'esecuzione penale, con la previsione dell'anno di osservazione intramuraria. Risulterebbe - a giudizio di questa Corte - pertanto, violato anche il principio posto dal terzo comma dell'art. 27 Cost. In verità, il precetto costituzionale è violato dalla stessa norma sostanziale dell'art. 609-quater, c.p., nel suo combinato disposto con la norma processuale e quella dell'ordinamento penitenziario, laddove conduce ad un trattamento sanzionatorio ingiustificatamente deteriore per ipotesi di gravità minore rispetto a quella prevista dall'art. 609-bis, ultimo comma, c.p. ».

Pressoché analoga la questione sollevata dal Tribunale di Sorveglianza di Bari288, secondo cui «va rilevato che, per le ipotesi di violenza sessuale attenuate dalla circostanza di cui all'art. 609-bis, terzo comma, c.p. (casi di minore gravità), il legislatore non richieda la preventiva osservazione scientifica della personalità per almeno un anno. In sostanza, nel caso di violenza sessuale di minore gravità, le esigenze di prevenzione generale e speciale rispetto a determinate categorie di delitti espressione di particolare allarme e pericolosità sociale non sono così rilevanti da giustificare la necessità di un periodo almeno annuale di osservazione collegiale. Tornando al caso di cui si tratta, il delitto contestato al condannato è stato punito con la pena minima (mesi sei di reclusione). Senza soffermarsi su quale tra i due delitti sia, in concreto, più

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offensivo dell'altro, nel caso di specie la pena inflitta al condannato (mesi sei di reclusione) è di gran lunga inferiore rispetto a quella applicabile, nel minimo, in caso di violenza sessuale attenuata (anni uno mesi otto, partendo da anni cinque e con la riduzione massima di due terzi). Ciò induce a ritenere che, sulla base dei limiti edittali fissati dal legislatore, il fatto di cui si tratta è di gran lunga meno allarmante e pericoloso di quello di violenza sessuale di minore gravità. Dunque, mentre nel caso della violenza sessuale attenuata non è necessario procedere ad osservazione collegiale per almeno un anno, nel caso di cui si tratta, ritenuto già dal legislatore di minore gravità anche rispetto all'ipotesi di cui all'art. 609-bis, terzo comma, c.p., è necessario procedere a tale forma di osservazione. Inoltre, per giurisprudenza costante della Corte di Cassazione: «Il divieto di sospensione dell'esecuzione della pena non si applica all'ipotesi di violenza sessuale attenuata di cui all'art. 609-bis, ultimo comma, cod. pen., per effetto della mancata inclusione, in forza nel rinvio normativo operato dall'art. 656, comma nono, lett. a) del codice di rito, nel novero dei reati indicati dall'art. 4-bis, comma primo quater, L. n. 354 del 1975, per i quali opera la presunzione di pericolosità superabile solo all'esito del periodo di osservazione della personalità» (Cass. sez. 1, sent. n. 2283.2013, RV 258293). Dunque, il delitto di violenza sessuale attenuata non solo non richiede la preventiva osservazione di durata almeno annuale, ma non e' nemmeno ostativo all'applicazione della detenzione domiciliare generica, non rientrando nell'elencazione di cui all'art. 4-bis L. 354.1975. Inoltre, va rilevato che, se il contemperamento tra le esigenze rieducative e quelle di prevenzione speciale e generale rispetto a determinate categorie di delitti può avere un senso con riferimento a delitti espressione di particolare allarme e pericolosità sociale, per cui è assolutamente necessaria la sottoposizione 288

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del condannato ad un congruo ed approfondito periodo di osservazione, non altrettanto può dirsi quando gli stessi delitti siano stati commessi con modalità attenuate, nei casi, appunto, di minore gravità. In tali ipotesi, le esigenze di rieducazione vengono sacrificate in funzione di un'esigenza di prevenzione generale e speciale insussistente oppure non tanto allarmante da giustificare la necessità di un così lungo periodo di osservazione. Nel caso di specie, tale sacrificio assoluto è evidente, atteso che, in sostanza, il condannato dovrà espiare tutta la pena di mesi sei di reclusione in carcere, senza la possibilità di ambire ad una qualunque misura alternativa, che, con ogni probabilità, sarebbe quella più adeguata alle esigenze di prevenzione speciale e generale. In tali ipotesi, allora, non è necessario attendere gli esiti dell'osservazione intramuraria ma è compito del giudice quello di procedere al bilanciamento concreto degli interessi in gioco e diversificare quale sia la migliore prospettiva rieducativa. In conclusione, si ritiene che la disposizione di cui all'art. 4-bis, comma uno quater, L. 354.1975, sia costituzionalmente illegittimo per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui non equipara il delitto di violenza sessuale attenuata a quello di corruzione di minorenne, nell'ipotesi in cui il delitto di cui all'art. 609-quinquies c.p., questo possa essere ritenuto dal giudice (magistrato di sorveglianza) di minore gravità, tenendo conto della pena inflitta dal giudice della cognizione. Inoltre, si ritiene che la detta disposizione contrasti con l'art. 27, terzo comma, Cost. perchè presuppone in ogni caso che il condannato sia sottoposto ad osservazione collegiale per almeno un anno e, dunque, sacrifica irragionevolmente le finalità rieducative della pena, perseguibili nel caso concreto attraverso il riconoscimento delle misure alternative alla detenzione, anche in ipotesi di corruzione di minorenne sostanzialmente ritenuta dal giudice di minore gravità e, dunque, di un delitto di non elevato allarme e pericolosità sociale. La

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questione di legittimità costituzionale evidenziata, oltre a non essere manifestamente infondata, per le suesposte considerazioni, ha rilevanza ai fini della decisione sull'istanza presentata. Sotto tale ultimo aspetto, il divieto posto e derivante dall'art. 4-bis, comma 1-quater, L. 354.1975 non è superabile in via interpretativa, perché fa espresso ed inequivoco riferimento all'art. 609-quinquies c.p., senza alcuna eccezione. Inoltre, non è nemmeno superabile attraverso l'interpretazione costituzionalmente orientata fornita dalla Corte di cassazione e dalla Corte costituzionale, per la ragioni già esposte. Infine, la rimozione del divieto censurato permetterebbe di valutare nel merito le domande presentate, anche quella di detenzione domiciliare generica, altrimenti inammissibili e di verificare quale sia, in concreto, il miglior percorso rieducativo possibile, tenendo conto che, dagli atti del procedimento, emerge la concreta possibilità di disporre una misura alternativa alla detenzione. Non incide sulla rilevanza della questione il disposto di cui all'art. 4 bis, comma uno quinquies, L. 354.1975. Infatti, tale comma non pone un limite invalicabile alla decisione nel merito dell'istanza ma si limita ad invitare il Giudice di Sorveglianza a «valutare», tra l'altro, anche la partecipazione del condannato al programma di riabilitazione specifica di cui all'art. 13-bis della stessa legge, ai fini della concessione dei benefici di cui al precedente art. 4, comma uno. Dunque, la questione di legittimità costituzionale che si solleva ha il chiaro ed unico fine di superare l'ostacolo, non altrimenti superabile, che l'art. 4, comma uno quater, L. 354.1975 pone alla valutazione nel merito della situazione di fatto posta all'attenzione del Tribunale di Sorveglianza».

Entrambe le corti territoriali, dunque, sollevano un problema di irragionevolezza del maggiore favore accordato al legislatore nel caso di condanna per l’ipotesi attenuata di cui all’art. 609-bis c.p. rispetto all’accesso ai benefici penitenziari nonché alla sospensione dell’esecuzione

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della pena, e suggeriscono la necessità per il giudice dell’esecuzione o della sorveglianza di poter valutare concretamente il singolo caso, in modo da poter rispettare, l’originaria ratio normativa individuata comunque nel voler usare maggiore indulgenza nei confronti degli autori di condotte meno gravi.

Come anticipato, la Corte Costituzionale non ha ancora affrontato il merito delle questione sopra riassunte289, per cui occorrerà attendere eventuali pronunce per comprendere quali saranno le conclusioni cui il giudice delle leggi giungerà sul punto.

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Con ordinanza n. 29 del 2013, esaminando la questione posta dalla Corte di Appello di Bologna, la Consulta rilevando che successivamente alla pronuncia dell’ordinanza di rimessione è intervenuta la legge 1° ottobre 2012, n. 172 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno), legge che ha, tra l’altro, inciso sull’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, sia modificando il comma 1-quater, con l’ampliamento del catalogo dei delitti rispetto ai quali l’accesso a taluni benefici penitenziari è subordinato ai risultati positivi dell’osservazione scientifica della personalità del detenuto, sia, soprattutto, inserendo il comma 1-quinquies, secondo il quale ai fini della concessione dei benefici ai detenuti e internati «per i delitti di cui agli articoli 600-bis, 600-ter, anche se relativo al materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater.1, 600-quinquies, 609- quater, 609-quinquies e 609-undecies del codice penale, nonché agli articoli 609-bis e 609- octies del medesimo codice, se commessi in danno di persona minorenne», è previsto un trattamento psicologico con finalità di recupero e sostegno del condannato e la sua «positiva partecipazione» è valutata dal magistrato di sorveglianza o dal tribunale di sorveglianza e che lo jus superveniens appariva idoneo ad influire sulle proposte questioni di legittimità costituzionale, al punto che una valutazione sull’incidenza della legge sopravvenuta sulle censure in esame, effettuata per la prima volta da questa Corte, senza che su di essa abbia potuto interloquire il giudice a quo, comporterebbe «un’alterazione dello schema dell’incidentalità del giudizio di costituzionalità, spettando anzitutto al rimettente accertare se ed entro quali termini permanga il denunciato contrasto» con la Costituzione (ordinanza n. 150 del 2012). Per tali ragioni, la Corte, alla luce della sopravvenuta normativa rappresentata dalla legge n. 172 del 2012, ordinava la restituzione degli atti, affinché il rimettente procedesse a un rinnovato esame della rilevanza e della non manifesta infondatezza delle questioni.

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CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Il problema principale che si è prospettato e che si prospetta tutt’oggi al Legislatore nella costruzione del sistema penitenziario consiste nel conciliare due esigenze contrapposte: mantenere l’ordine e garantire la sicurezza negli istituti di pena, da un lato, ed attuare la finalità rieducativa del trattamento penitenziario, dall’altro.

L’ordine – inteso quale dimensione obiettiva della disciplina all’interno degli istituti – e la sicurezza – volta a salvaguardare gli interessi individuali dei singoli detenuti e del personale di custodia oltre che l’interesse sociale all’effettiva esecuzione della pena – sono strettamente collegati al processo di adeguamento del detenuto alle regole di vita e funzionamento dell’istituzione carceraria, mentre la finalità rieducativa della pena – imposta dall’art. 27 comma 3 Cost. – costituisce il riflesso dell’adeguamento degli istituti carcerari agli interessi e ai bisogni dei singoli detenuti.

In questa prospettiva diventa indispensabile, ai fini della coesistenza tra funzione rieducativa della pena e tutela dell’ordine e della sicurezza, la collaborazione di ogni detenuto al trattamento; collaborazione da perseguire, in primo luogo, attraverso uno spontaneo processo di “responsabilizzazione sociale” e, solo secondariamente, con l’adozione di misure repressive.

Il sistema delle misure alternative alla detenzione sembra essere stato adottato – e modificato nel tempo – proprio per rispondere compiutamente alla necessità del contemperamento tra queste due esigenze.