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GLI EFFETTI SPECIFICI DELLA DIVERSITA’: ORGANIZATIONAL TENURE E DIVERSITA’ D

1.3 LA DIVERSITA’ NELLE TEORIE DEMOGRAFICHE

1.3.3 GLI EFFETTI SPECIFICI DELLA DIVERSITA’: ORGANIZATIONAL TENURE E DIVERSITA’ D

Ciascuna leva demografica, così come intesa in questo percorso, è portatrice, come visto, di talune conseguenze (siano esse positive o negative), che vanno ad incidere sui gruppi e sulle organizzazioni nel complesso. Proprio questa indicazione, rappresenta la chiave di lettura ed il punto di svolta per concepire l’importanza e la validità di questo lavoro. Infatti, quello che più interessa comprendere, è quali variabili in modo decisivo più delle altre, incidono sulle organizzazioni e condizionano la formazione di processi mentali, che si presume si ripercuotano sulle azioni degli individui. Di seguito, diversamente dal paragrafo precedente,

Nei paragrafi precedenti, si è visto come la presenza della diversità all’interno dei gruppi e tra i gruppi, sia valutata dagli studiosi in generale come fonte di conflitti, soprattutto se non gestita o amministrata in maniera non corretta. In questa parte del lavoro, si vuole mettere in evidenza il contributo che vede e valuta la diversità, ed in particolare quello di alcune leve, nel ruolo di fattori che tendono ad innescare processi volti a diminuire o ad accentuare di converso i conflitti operando quindi come moderatori o meno dei medesimi. Verranno soprattutto analizzati i condizionamenti provenienti da alcune delle leve demografiche, ritenute più rappresentative, cercando di cogliere la positività e le negatività che esse sono in grado di apportare alla causa organizzativa. L’analisi del genere, in questa sede trascurata, verrà eseguita in un capitolo a parte.

Anche se eterogeneità e conflitti, viaggiano spesso nella stessa direzione, innescando processi negativi, è bene ricordare che esistono elementi nei gruppi, che possono in un certo modo essere ricondotti a situazioni che portano all’indebolimento ed alla riduzione delle lotte, che a vario titolo si sviluppano nelle organizzazioni101.

In primo luogo, se si pensa ad esempio al periodo di permanenza lavorativa all’interno di un’azienda di un individuo (organizational tenure102), ed agli effetti

101 In organizzazione aziendale e come è stato già osservato, in genere ci si riferisce alle relazioni

informali presenti nei gruppi, indicando le relazioni informali, i rapporti con il commitment e l’analisi dei livelli di soddisfazione del personale (Ferraro, op. cit.).

102 La traduzione letterale del termine di origine anglosassone, tenure, è riferita alla tenuta o al modo ed

derivanti da questo fenomeno, si comprende come variabili che a primo impatto sembrano indipendenti tra di loro, risultano poi essere enormemente collegate. La diversità si manifesta, oltre che con l’emergere delle variabili demografiche, anche attraverso gli attributi relazionali (relazioni informali), di status e personali. Questo tipo di relazioni, che si sviluppa attraverso scambi di informazioni tra i soggetti e tra i gruppi103, e la sua qualità, vengono condizionate dai livelli di tenuta organizzativa e più precisamente, come detto all’aumentare del periodo trascorso insieme dai membri dei gruppi, le relazioni presenti migliorano104. Il significato di questa affermazione, è da ricercarsi come detto all’interno della complessa rete di relazioni informali ed in modo speciale nella loro stabilità, nella loro durata e nella qualità delle stesse. Appare però evidente, che mentre la durata delle relazioni è un fattore privo di altre ulteriori implicazioni, quello della qualità deve essere considerato con le opportune cautele che il caso richiede. Analizzare la qualità delle relazioni informali, richiede in effetti maggior tempo e maggior investimento di risorse da parte del ricercatore ad esempio, perché si rischia di incorrere in errori di valutazione, misurazione, dovuti anche alla possibile arbitrarietà nella valutazione che ne consegue105. Per accrescere la comprensione di questo problema, si può pensare ad esempio al periodo di lavoro di un individuo all’interno dell’azienda come ad una situazione in cui il soggetto vede aumentare il proprio grado di integrazione con i membri del gruppo, derivante da una maggiore condivisione delle esperienze nel corso del tempo. McCain ed altri (1983) ad esempio, effettuando un’analisi di misurazione del gap comunicativo ed indagando sulla differenza tra i membri di un’organizzazione relativamente al periodo di lavoro da essi svolto, hanno stabilito che maggiore è questa differenza, minori sono i livelli di comunicazione e sinergia che si vengono a creare tra gli stessi membri, maggiori saranno di conseguenza i conflitti che si generano. Tutto ciò fissa il concetto che gruppi omogenei, quanto a tenuta organizzativa, sperimentano livelli di coesione e condivisione delle risorse maggiore e sensibilmente positivo, rispetto ai gruppi composti

quindi esso si riferisce alla capacità delle medesime di trattenere le risorse umane al suo interno ed in definitiva alla misura del periodo di permanenza degli individui nell’azienda stessa.

103 Lawrence, 1997. 104 Ancona e Calwell, 1992

105 Si è voluto affermare questo, perché effettuando la raccolta dei dati, relativa alla descrizione delle

variabili relazionali, tramite il questionario, si è osservato che in alcuni casi gli intervistati non hanno ben compreso il senso della richiesta o comunque la stessa domanda non era stata posta in maniera corretta, per cui alcuni dati, potrebbero risultare falsati, per quanto detto.

da individui con periodo lavorativo trascorso in una stessa azienda differente. In uno studio condotto su gruppi di lavoro globali (Global Virtual Teams), Harvey ed altri (2004), indicano che la presenza di membri con differenti basi culturali ed etniche, richiede l’implementazione di soluzioni ad hoc, che devono esplicarsi in differenti metodi di comunicazione da utilizzarsi a seconda dei casi, in quanto proprio tale eterogeneità della base culturale, aumenta la complessità e la difficoltà delle mansioni. Questo carattere rappresenta per alcuni studiosi, un importante attributo che di fatto può diminuire gli attriti presenti tra i membri106.

Sotto altri aspetti, il tempo trascorso insieme con gli altri lavoratori, sembra avere altri effetti anche se analizzati in maniera comunque sempre positiva. Milliken e Martins (1996), affermano ad esempio, che maggiore è il tempo di permanenza dei lavoratori all’interno dell’azienda, maggiore è la loro soddisfazione, perché l’integrazione agisce in maniera altrettanto positiva sui rapporti esistenti e sulla loro evoluzione. Gli autori però parlano di tempo trascorso, riferendosi ai gruppi di maggioranza. Questa considerazione è molto importante, per le implicazioni che riveste nella formazione degli stereotipi. Quello che risulta essere importane adesso, è che il riferimento dei gruppi di minoranza o di quelli svantaggiati come sono stati definiti, sono proprio quelli di maggioranza, i quali decidono, anche se spesso non consapevolmente e volontariamente, le linee di azione, i canoni in pratica entro i quali gli altri, considerati diversi, debbano essere inclusi107. Dal punto di vista opposto, se il tempo in cui gli individui si relazionano con l’azienda, con i gruppi e con i loro membri è ridotto, minori saranno i livelli di integrazione e, l’aderenza ai piani ed ai programmi di azione che i manager implementano, risulterà essere al pari compromessa (Pelled, 1996). La diversità nei livelli di tenuta organizzativa, è considerata dall’autrice, fonte di conflitti, in misura maggiore della diversità in termini di età tra i membri, anche se un confronto tra i differenti gradi con cui le variabili possono “moderare” più o meno gli effetti della diversità, sembra essere anche abbastanza complesso da realizzarsi. Zenger e Lawrence (1989) ad esempio affermano, che non vi sono sufficienti ragioni per poter affermare che età, razza e tenuta organizzativa incidano allo stesso modo sulla

106 Milliken e Martins, op. cit., Pelled, op. cit., Ancona e Caldwell, 1992. 107 Si veda a tal proposito la parte dedicata agli stereotipi ed alla loro formazione.

frequenza delle comunicazioni e quindi, sui livelli di integrazione sociale108. I chiari effetti moderatori della diversità si evincono però, anche dalla miglior comprensione degli obiettivi, da parte dei soggetti che godono di stessi livelli di tenuta organizzativa tra di loro. Un confronto per valutare la portata delle differenti variabili nel moderare gli effetti dei conflitti, non è come detto precedentemente agevole. Uno degli aspetti che si deve infatti evidenziare, è relativo allo stato secondo cui alcune variabili legate alla diversità, come l’età o il genere dei membri, avendo dei tratti comuni, come essere ad esempio facilmente osservabili, vengono visti dagli studiosi alla stessa stregua, e spesso vengono incorporati entro schemi classificatori standard109. Questo significa senza dubbio considerare il confronto tra le differenti variabili relativamente complesso da realizzarsi. Per la corretta definizione della diversità e per chiarire il ruolo delle altre che intervengono, condizionandone gli effetti, è bene anche presentare un quadro che valuti compiutamente tutte le fonti di influenza e condizionamento. Evidenziando le difficoltà insite in un processo di confronto delle differenti variabili e dei loro effetti sui processi organizzativi in maniera isolata, Zenger e Lawrence (1989) con le loro analisi, permettono di poter affermare che non esistono, di fatto, regole empiricamente dimostrate a supporto della tesi secondo la quale ogni variabile inciderebbe in un modo, piuttosto che in altro. Le conseguenze che le variabili demografiche hanno ad esempio, possono essere comprese meglio, soltanto se si considerano gli effetti congiunti di altri fattori. Williams e O’Reilly (1998), affermano, dopo aver condotto una disamina degli studi sulla diversità che copre circa quarant’anni, che per cogliere appieno gli effetti che la diversità provoca (compresi quindi anche gli effetti moderatori di alcune variabili), bisogna valutare il complesso contributo di tutti i fattori che a vario titolo concorrono a formare lo scenario di riferimento entro cui le organizzazioni agiscono. Per fare soltanto un esempio, la diversità di genere, da solo potrebbe condizionare le performance dei lavoratori110; una valutazione maggiormente incline alla realtà, dovrebbe tener conto dell’ambiente esterno, dei livelli di comunicazione, dei conflitti presenti, delle caratteristiche delle mansioni e delle organizzazioni111. Con le giuste cautele quindi, si

108 Come si vedrà meglio nel paragrafo destinato all’analisi dell’integrazione sociale, essa sembra essere

collegata positivamente ai livelli di comunicazione tra i soggetti.

109 Pelled, op. cit., Pelled ed altri, op. cit., O’Reilly ed altri, op. cit. 110 Gorman, 2005.

potrebbe tentare almeno di riscoprire, le forze che singolarmente agiscono sui conflitti, spingendoli in una direzione, piuttosto che in un’altra. In riferimento alle altre variabili, bisogna premettere che sebbene le difficoltà insite in un’azione di confronto degli effetti che le differenti leve demografiche generano, alcune delle ricerche analizzate, orientandosi verso direzioni simili hanno considerato la diversità come il risultato di forze e caratteri e l’hanno valutata in modo tale da coglierne il contributo generale ed unitario. Numerosi studiosi, infatti, parlano di effetti della diversità, piuttosto che di effetti che le singole variabili generano sui processi organizzativi112.

In contesti caratterizzati da alti livelli di globalizzazione (come quello americano ad esempio), l’esigenza di gestire la diversità ed in particolar modo, quella dell’etnia, risulta più pressante. Partendo dal presupposto che bassi livelli di tenuta organizzativa, conducono ad un aumento dei conflitti e prendendo in considerazione i risultati di alcune ricerche113, si può affermare che esiste un rapporto che lega l’eterogeneità del

background etnico e culturale quindi, alla tenuta organizzativa. Più in particolare, le peculiarità culturali, tendono a convergere quando i gruppi sperimentano maggiori periodi di vita lavorativa in comune (Verkuyten e altri, 1993). Il reciproco scambio di informazioni, la risoluzione dei problemi che si presentano in ambito lavorativo, l’aumento quindi delle relazioni (non solo in senso quantitativo, ma anche qualitativo), consente agli individui di omogeneizzare il proprio bagaglio comportamentale ed il background personale, che induce i soggetti ad uniformarsi anche agli obiettivi che essi si prefiggono di raggiungere. Il modo in cui un gruppo si compone dal punto di vista etnico inoltre, evidenzia differenti modalità di formazione delle percezioni della discriminazione e quindi livelli di conflitti differenti, peraltro di difficile misurazione. O’Reilly ed altri (1989) ad esempio, affermano che la diversità di etnia nelle prime fasi di vita di un’organizzazione, produce effetti negativi riconducibili ai conflitti. Nelle fasi successive però, con il miglioramento delle relazioni informali, gli effetti positivi si manifestano in maniera consistente. Il problema rilevato, si ricollega di nuovo al tempo trascorso insieme dai lavoratori e all’importanza della presenza di buone relazioni informali che si sviluppano tra di essi. Tutto questo, non fa altro che confermare l’importanza per le aziende di dotarsi di una solida e soprattutto flessibile struttura

112 Dose, op. cit., Ancona e Caldwell, op. cit., Pelled e altri, 1999. 113 O’Reilly ed altri, 1989, Watson e altri, 1993, Bachner e Hesketh, 1994.

organizzativa, che permetta lo sviluppo di relazioni che non siano necessariamente quelle previste dai canoni organizzativi (la divisione formale e l’assegnazione di compiti e mansioni previste ad esempio dagli organigrammi), quanto piuttosto lo sviluppo di relazioni basate sulla conoscenza, la fiducia ed il reciproco rispetto.

La differenza delle risorse umane dal punto di vista etnico, incide quindi in maniera non trascurabile sui processi che si svolgono all’interno dei gruppi, come ad esempio la percezione della discriminazione attuata nei confronti di determinate classi di individui. Bachner e Hesketh (1994), affermano che membri che provengono da differenti paesi, colgono in maniera differente la discriminazione nei gruppi. In parole più semplici e dirette, una differenza dal punto di vista etnico / culturale tra i lavoratori, porta una maggiore sensibilità nell’avvertire i processi discriminatori in atto in una società e nei gruppi che la compongono. L’incrocio teorico che può essere fatto, attiene quindi, al modo di formazione delle idee, all’incidenza di alcuni fattori (come ad esempio la differenza del background etnico dei membri, come in questo caso), sulla formazione delle percezioni e la tenuta organizzativa dei membri stessi. Anche se vi sono sostanziali differenze etnico / culturali, tra gli individui, queste possono essere attenuate o addirittura annullate, aumentando l’integrazione sociale, aumentando il periodo di tempo trascorso insieme, migliorando soprattutto i rapporti esistenti.

Altre ricerche però, nonostante l’importanza di questi aspetti, si orientano in direzioni totalmente opposte a quelle fin qui esaminate. Dose e Klimoski (1999) ad esempio, affermano che in genere le aziende tendono ad assumere personale che presenta caratteristiche simili agli altri dipendenti o che si conformano ai canoni stabiliti dall’organizzazione in generale. Già in fase di selezione del personale, viene di fatto suggerito che, se si è costretti a selezionare un insieme di candidati demograficamente differenti (dal punto di vista razziale ad esempio), conviene valutare in maniera positiva gli individui che presentano valori conformi a quelli dell’organizzazione. Questa affermazione può essere analizzata, pensando ai selezionatori (e quindi in genere ai responsabili delle risorse umane), come una sorta di filtro per evitare di portare all’interno dell’organizzazione fonti di conflitto, che, di fatto, non moderano la diversità, anzi la ampliano ed in senso negativo. Per congiungere la diversità di etnia, razziale e di genere, ai suoi effetti, Sher (1999), invoca la giustizia ed auspica il riconoscimento delle pari opportunità per le minoranze, attraverso il riconoscimento di

entità morali che accolgano gli individui in base alle proprie caratteristiche, includendoli in gruppi da salvaguardare e proteggere. Quest’ultima impostazione, anche se può rientrare a pieno titolo in questo tentativo di distinzione delle caratteristiche demografiche e del loro più o meno accentuato carattere di moderatori dei conflitti, si ritiene debba essere annoverata tra i contributi sulla diversità che si riferiscono al riconoscimento dei diritti nella società (come è risultato essere quello dell’Affirmative Action). Ancorare la diversità al riconoscimento dei diritti, senza tuttavia riconoscerne la valenza che si delinea sui conflitti, sembra essere proprio per i fini di questo lavoro, un’attività scevra da ogni possibile implicazione pratica e di considerazione della realtà. Lo stesso autore, conclude, che i trattamenti preferenziali che vengono adoperati per gli individui appartenenti a gruppi di minoranza, non consentono di dotare tutti gli individui di stesse opportunità, ma soltanto di combinare al meglio le ineguaglianze presenti nelle organizzazioni. Questo però, non vuol dire rassegnarsi a concepire gli effetti della diversità (i conflitti quindi) come caratteri non controllabili; anzi lo sforzo da compiere, è quello di identificare non soltanto le cause dei conflitti, ma anche rintracciare quei fattori che concretamente li riducono e permettono alla diversità di apportare vantaggi competitivi e duraturi per le organizzazioni. Dalla disamina della letteratura che è stata sviluppata sull’argomento, è emerso anche che le analisi combinate che riguardano le differenti leve demografiche, non sono tante. Questa affermazione, trova conferma anche se in riferimento a studi ormai non più recenti, nella ricerca condotta da Reskin e altri (1999). Il problema potrebbe essere semmai riconducibile alla difficoltà insita ad esempio nel coniugare insieme gli effetti della diversità di etnia, con quelli propri della tenuta organizzativa, oppure con quelli relativi alla differenza di età tra i lavoratori e misurarne le modalità che singolarmente essi apportano.

In conclusione, si avverte l’esigenza di dire che la considerazione e l’analisi di tutte le variabili afferenti la diversità, è stata fatta per esigenze di completezza di trattazione del problema e per fornire un quadro completo degli studi condotti sull’argomento, oltre che per comprendere la differenza con il genere nel condizionare i processi dei gruppi. Alcune leve, infatti (come ad esempio quella della diversità di etnia), sono state considerate solo marginalmente nell’analisi empirica dei dati (rilevando soltanto la provenienza del personale dipendente del gruppo analizzato).

1.3.4 IL RAPPORTO DELLE VARIABILI DEMOGRAFICHE CON