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Elaborazione del lutto: Holy Motors di Leos Carax

Il futuro appartiene al film che non potrà essere raccontato.

Germaine Dulac, 1928.

La 65ᵃ edizione del Festival di Cannes, tenutasi nel 2012, ha visto tra le pellicole in concorso la presenza di due film apparentemente molto simili e, allo stesso

tempo, estremamente differenti: Cosmopolis, al quale abbiamo dedicato il paragrafo precedente, e Holy Motors (Id., 2012) del regista francese Leos Carax. Entrambi i film infatti scelgono l'interno di una limousine come spazio filmico in cui ambientare gran parte della vicenda, eleggendo i lussuosi e inusuali velicoli come veri e propri "motori" narrativi. Se Cronenberg sceglie la bianca limousine come simbolo di potere e ricchezza, come "stanza dei bottoni" dalla quale Eric Packer si illude di poter gestire i fili della finanza globale, con Carax assume una valenza completamente differente.

Come Cosmopolis, anche Holy Motors ha una struttura narrativa cronologicamente lineare e segue la storia del suo protagonista nell'arco di un'unica giornata. Se gli incontri e le azioni di Eric, per quanto caratterizzati prevalentemente da una serie di dialoghi complessi e apparentemente inconcludenti, sono facilmente riassumibili e contestualizzabili all'interno del discorso cronenberghiano (e delilliano) sul collasso dell'economia contemporanea, risulta più complicato trovare una sorta di coerenza e di logica nella giornata "lavorativa" del signor Oscar, personaggio centrale di Holy Motors.

Lo vediamo all'inizio del film uscire dalla sua grande villa in abiti da ufficio. Saluta la famiglia, gli addetti alla sicurezza e sale su un'elegante limousine guidata da Céline, sua autista personale. Dopo una breve telefonata, dalla quale si intuisce la sua occupazione di importante uomo d'affari (come Eric Packer), viene a sapere da Céline che nel corso della giornata sarà impegnato in nove appuntamenti lavorativi, il primo dei quali è descritto in un fascicolo riposto nel sedile posteriore accanto a lui. Una volta lette tutte le indicazioni si prepara quindi per il

primo appuntamento della giornata: si spoglia della giacca, si avvicina ad uno specchio illuminato simile a quelli utilizzati dagli attori nei loro camerini ed inizia a pettinare una lunga parrucca brizzolata. La limousine accosta sulla riva della Senna vicino al ponte Alessandro III per far scendere il signor Oscar che, sorprendentemente travestito da anziana mendicante, comincia a chiedere l'elemosina sorretto a fatica da una stampella tra l'indifferenza generale dei passanti.

Nella sequenza successiva lo ritroviamo a bordo della limousine, di fronte allo specchio, intento a struccarsi e a prepararsi per l'appuntamento successivo indossando la tipica tuta nera usata dagli attori specializzati in performance

capture. Raggiunto un set cinematografico munito di sensori per la registrazione

dei suoi movimenti, presterà il suo corpo per la creazione, in tempo reale, dell'immagine di sintesi di una creatura fantastica che imita le sue movenze. La giornata del signor Oscar prosegue in questo modo, passando da un appuntamento all'altro, da interpretazione ad interpretazione, di vita in vita, sempre a bordo della sua limousine-camerino-mobile, sorta si carro funebre in cui rinascere ogni volta come personaggio nuovo.

Chi è dunque Oscar? Qual è la sua occupazione? Sembrerebbe un attore occupato nella realizzazione di più film in contemporanea. Dove sono allora i vari set cinematografici, i registi, i macchinisti? Dove sono le telecamere? Ammesso che abbia veramente un senso porsi tutte queste domande inseguendo le tracce di una logica all'interno di un film originale e complesso come Holy Motors, vale la pena ora soffermarci su un dialogo all'interno del film che si potrebbe adottare come

fondamentale chiave di lettura: «Dimmi una cosa Oscar, ti piace ancora il tuo lavoro?», gli chiede un misterioso signore, il suo superiore probabilmente, preoccupato dal fatto che «alcuni cominciano a lamentarsi perché non credono più in ciò che vedono». «Mi mancano le telecamere», risponde Oscar, «un tempo pesavano più di noi, poi sono diventate più piccole delle nostre teste; adesso non si vedono più, così anch'io trovo difficile credere in tutto questo»; ciò nonostante lui continua con il suo lavoro portandolo avanti come ha sempre fatto, «per la bellezza del gesto»; quella bellezza che, come afferma il suo superiore interpretato da Michel Piccoli, «è nell'occhio di chi guarda». «E se non c'è più nessuno a guardare?», si chiede Oscar potendo fine alla conversazione. Queste parole, questo lapidario quesito finale, ci riportano allora all'incipit del film, al prologo che abbiamo finora volontariamente ignorato.

I brevi titoli di testa si alternano ai frammenti in bianco e nero degli esperimenti protocinematografici di Étienne-Jules Marey dedicati allo studio del corpo umano e al suo movimento; subito dopo, l'inquadratura fissa e frontale di un pubblico all'interno di una sala cinematografica fa da sfondo al titolo del film. Le persone sedute in sala però sono immobili, alcune hanno il capo chinato, forse dormono, forse sono morte: non guardano. La presenza ambigua, quasi ossimorica, di spettatori che non sono in grado o si rifiutano di vedere, unita alle parole del protagonista, rende Holy Motors non solo un film assolutamente decisivo e indispensabile per comprendere che cosa si intende oggi per rappresentazione, ma anche una lucida e consapevole riflessione su cosa significhi essere spettatori in una nuova realtà mediale in cui il cinema non è più dentro il cinema.163 Abbiamo

preventivamente osservato nei capitoli precedenti come il cinema, inteso sia come dispositivo che come sala, abbia perso quella centralità che nel corso del Novecento lo caratterizzava come "macchina" eletta per la creazione di immagini in movimento e di sguardi sul mondo. Abbiamo anche visto come il cinema si è comportato di conseguenza, cercando e trovando nuove valvole di sfogo nella serialità televisiva ad esempio, nei videogames; come la tecnologia digitale ha radicalmente modificato le modalità di produzione e fruizione, coi suoi mezzi sempre più leggeri e la rilocazione dell'oggetto film al di fuori della sala. Quella di Carax è dunque un'opera che ci pone di fronte a tutte quelle trasformazioni che il cinema ha incontrato negli ultimi anni e il fatto che sia il suo primo film girato in digitale è una continigenza produttiva che rafforza ulteriormente questa lettura;164 mettendoci al cospetto di un altro cinema, «ormai del tutto incapace di svolgere quella funzione di costruzione e definizione identitaria degli spettatori che invece era una sua prerogativa nel secolo scorso».165

La leggerezza dei nuovi mezzi di registrazione digitali porterebbe dunque alla scomparsa, all'invisibilità, delle telecamere; destino che Oscar cerca nostalgicamente di evitare al cinema stesso, continuando a proporne i gesti alla ricerca di una bellezza che sembra ormai perduta. Carax orchestra dunque un caleidoscopico "viaggio al termine della notte" (ricordiamo che l'autista della limousine si chiama Céline) per compiere un'acuta riflessione sull'avanzata del digitale e della realtà virtuale sul mondo analogico "giocando" sui corpi del suo attore feticcio Denis Lavant e del cinema stesso.166 Il film è infatti un continuo

164Cfr. A. Lavagnini, L'umanità è un volto senza occhi, «Duellanti», 82 (2013), p. 11. 165F. Marineo, Contatto mancato, «Duellanti», 82 (2013), p. 13.

susseguirsi di generi: dal noir al dramma familiare, dal musical al film di denuncia sociale, avendo come unico trait d'union la performance attoriale di Lavant/Oscar. I dieci segmenti narrativi che compongono il film si susseguono senza soluzione di continuità, come in un morphing inarrestabile167 in cui cambiano personaggio, genere e linguaggio cinematografico. Nella sua prima "interpretazione" abbiamo visto Oscar vestire i panni di un "faccendiere" dell'alta finanza in ansia per l'andamento dei suoi titoli e per l'integrità della sua sicurezza personale: «Vogliono la nostra pelle. Che vuoi che ti dica, siamo i capri espiatori della miseria». Nella sequenza successiva entriamo nel contesto del film di denuncia sociale che potremmo definire "alla Dardenne", con la camera a mano che in mezzo al traffico parigino si muove freneticamente alla ricerca di un dettaglio del reale sul quale soffermarsi. Improvvisamente allora si ferma per sondare da vicino la triste figura di una mendicante rumena intenda a chiedere l'elemosina mentre i suoi pensieri (tradotti dal rumeno tramite i sottotitoli) giungono a noi in voce over: «Per anni e anni ho visto solo pietre e piedi. Nessuno mi ama, neanche un po'. Però sono ancora viva». Svestiti i panni dell'anziana zingara Oscar si prepara per affrontare e interpretare una realtà diametralmente opposta, quella del virtuale. Indossata l'apposita tuta inizia una seduta di motion capture che si apre con un combattimento immaginario a metà strada tra il video game e il film d'arti marziali, continua con una forsennata corsa su tapis roulant armato di mitra e raggiunge il suo apice nel rapporto cybersessuale con una sconosciuta contorsionista, mentre un computer traduce i loro movimenti sullo schermo,

pp. 224-225.

trasformando i due corpi in oscure creature demoniache in preda agli impulsi del desiderio.168 In questa sequenza il discorso di Carax sulla nuova natura digitale del cinema si fa esplicito e assume quasi la forma di una denuncia nei confronti del distacco venutosi a creare tra cinema e rappresentazione della realtà materiale: nella rappresentazione di una sessualità svuotata e dominata dalla virtualità, nel finto travelling che la macchina da presa filma mentre Oscar sumula una corsa quando in realtà sono le immagini sullo sfondo a scorrere al suo posto. Nelle rare interviste rilasciate in pubblico Carax ha infatti più volte espresso un sentimento di rimpianto e nostalgia verso il passato glorioso del cinema e verso le sue "armi pesanti":169

Quando vediamo una carrellata degli albori del cinema, di Murnau per esempio, si ha proprio il senso della pesantezza dei macchinari. Se una macchina da presa segue un uomo per esempio all'alba, si ha proprio l'impressione che sia Dio a guardarlo. Oggi, se guardate un tizio seguito da una macchina da presa su YouTube non avrete quella sensazione, e bisognerà ricrearla con altri mezzi, il che è interessante ed è questo il lavoro di adesso.170

A tal proposito Holy Motors si presenta dunque come un «film cerniera che tenta di collegare immaginario e artigianato, corpo umano e spazio urbano, passato e futuro della visione»,171 passando quasi inevitabilmente attraverso il cinema e la

168Cfr. P. Campana, Leos Carax, cit., p. 225. 169Ivi, pp. 236-237.

170Dichiarazione estrapolata da Conversation avec Leos Carax, incontro col pubblico tenutosi in occasione del Festival di Locarno del 2012 la cui registrazione è inserita tra i contenuti extra dell'edizione italia del DVD Holy Motors a cura della Sound Mirror.

filmografia dello stesso Carax con vari riferimenti alle sue opere passate. Il caso più emblematico di questa autoriflessione è rappresentato proprio da uno dei personaggi interpretati da Oscar all'interno del film, quel Monsieur Merde che dava il titolo all'episodio diretto dal regista francese nel film collettivo Tokyo! (Id., Michel Gondry, Leos Carax, Bong Joon-ho, 2008). Sulle note della colonna sonora presa in prestito dal film Godzilla (Gojira, Ishirō Honda, 1954) seguiamo i passi "bestiali" di un bizzarro individuo vestido di verde, visibilmente sporco, che attraverso la buia e umida rete fognaria di Parigi raggiunge il famoso cimitero di Père-Lachaise fumando affanosamente e divorando tutto quello che gli capita in mano, composizioni floreali comprese. Ci troviamo ora di fronte a una messa in scena grottesca e surreale, e lo stile del film cambia nuovamente registro – la macchina da presa che segue le azioni di Monsieur Merde con un fluido movimento a seguire; l'iris che progressivamente si restringe sul viale del cimitero per evidenziare il dettaglio del tombino dal quale uscirà l'"immonda" creatura. Secondo Paolo Campana la figura tanto mostrusa quanto comica di Monsieur Merde rappresenterebbe quell'istinto primordiale scevro da ogni pregiudizio utile a rifondare la realtà con uno sguardo libero da ogni vincolo morale, sguardo che però non verrà accolto. Come dimostra la totale indifferenza e l'apatia dimostrata dalla sensuale modella rapita da Monsieur Merde e trascinata nelle fogne, nel buio della sua tana.172

«Al passo con la contemporanea e vorace richiesta di emozioni e vicino all'essenza di un linguaggio, il cinema, che si esprire per quadri e frammenti»,173 il

172Cfr. P. Campana, Leos Carax, cit., p. 255.

film continua a seguire la multiforme giornata di Oscar che passando di vita in vita diventa ora un premuroso padre deluso dal comportamento sleale della giovane figlia, in quello che a tutti gli effetti appare con un tipico dramma familiare contemporaneo; ora uno spietato sicario che, inoltrandosi in una sorta di deposito gestito dalla malavita cinese, uccide a sangue freddo la caricatura stereotipata di un personaggio di un odierno gangster movie; e ancora, un anziano signore che sul letto di morte vive gli ultimi istanti della sua vita in compagnia della nipote, seguendo i canoni di un classico melodramma.

Gli unici istanti in cui Oscar sembra liberarsi dal gravoso peso del suo lavoro sembrerebbero essere, il condizionale è d'obbligo, quei trenta minuti di "pausa" trascorsi in compagnia di Jean, sua collega ed ex compagna. In seguito ad un leggero tamponamento tra le limousine dei due scopriamo infatti che Oscar non è il solo ad intraprendere un mestiere tanto bizzarro:174 insieme raggiungono l'edificio dei grandi magazini la Samaritaine, ormai in disuso, dove Jean di li a poco dovrà interpretare la parte di una hostes di volo di nome Eva Grace. Percorrendo gli enormi spazi abbandonati dello storico centro commerciale, tra imponenti scalinate e manichini in disuso, il film assume ora le sembianze di un

musical, con elaborati movimenti di macchina ad esaltare la toccante

interpretazione di un brano musicale. Il dialogo tra Jean e Oscar viene infatti affidato alle parole di una canzone scritta dallo stesso Carax e interpretata dalla pop star, e in questo caso attrice, Kylie Minogue intitolata Who were we?. Sulle

174In una scena, tagliata in sede di montaggio e presente tra i contenuti speciali del DVD del film, si capisce che anche la modella interpretata da Eva Mendes è in realtà un'attrice: Mounsier Merde la riporta in superficie dove l'attende una limousine del tutto simile a quella del signor Oscar.

note del tema principale presente in tutto il film, la canzone si interroga (chi eravamo?) sulla sfuggente condizione del cinema contemporaneo e dei suoi film, dei suoi interpreti e dei suoi spettatori. Tutto il film infatti ruota attorno a personaggi che non sono: «uomini e donne che perdono la propria identità e che si affidano alla rappresentazione per continuare a prendere in prestito la vita che sanno di non poter vivere»;175 come Jean che, per portare a termine linterpretazione di Eva, si getta dall'imponente edificio della Samaritaine togliendosi la vita. Ma lo spettacolo deve continuare e Oscar, sconvolto dalla visione del cadavere della sua ex compagna riverso sul marciapiede, risale a bordo della limousine per recarsi verso il suo ultimo appuntamento giornaliero.

Di fronte una semplice casa uguale alle tante altre presenti nel quartiere, Oscar viene pagato da Céline per il lavoro svolto e i due si danno appuntamento per il giorno successivo. Vestiti i semplici panni di un padre di famiglia, Oscar si incammina pensiero verso casa dove lo attendono la moglie e le due figlie, impersonate da altrettanti innocui scimpanzè. Il tutto è accompagnato dalle note di un'altra fondamentale canzone, Revivre di Gérard Manset, le cui parole esprimono con precisione la situazione in cui è costretto a "vivere" il protagonista del film, mosso da un'irresistibile attrazione verso la ripetizione che lo imprigiona nel continuo «ciclo delle esistenze che lo vede ogni giorno nascere, morire e rinascere, preso in una sorta di ciclo di metempsicosi»;176 una continua ridefinizione del sé nella quale si può facilmente leggere una più ampia metafora del cinema stesso, da sempre soggetto, nel corso della sua storia, ad una perpetua

175F. Marineo, Il cinema del terzo millennio, cit., p. 205. 176P. Campana, Leos Carax, cit., p. 260.

e inesorabile auto-ridefinizione.

La complessa "giostra filmica" messa in moto da Carax, difficilmente riassumibile e catalogabile data la sua forte carica simbolica, assume dunque, nella sua interezza, i toni di una solenne elegia funebre dove il cinema stesso, abbracciandone l'intera storia dagli esperimenti cronofotografici di Marey e Muybridge alla motion capture, diventa oggetto irrecuperabile, insondabile: cannibalizzato dall'interazione videoludica, dalla virtualità come iper- personalizzazione, il cinema è costretto a trasformarsi in dispositivo invisibile,177 non riconoscendosi più in quella «macchina più grande del normale»178 – come una limousine - dal "motore sacro" che un tempo guidava i suoi spettatori attraverso storie uniche e irripetibili.

La metafora che coniuga l'iconica e seducente limousine alla macchina stessa del cinema raggiunge il suo apice espressivo nel sorprendente finale del film, che vede Céline parcheggiare la vettura in un grande deposito in cui convergono altre limousine e sopra il quale campeggia un'insegna al neon con la scritta "HOLY MOTORS". Prima di uscire dall'autorimessa e tornare a casa, Céline si copre il viso con una maschera che le "cancella" la fisionomia lasciandole scoperti solo gli occhi.179 Finalmente sole e al buio del loro garage, le limousine possono ora parlare tra di loro, preoccupate per il loro avvenire, per poi addormentarsi, forse per sempre: «Ci spediranno presto alla rottamazione», «Stiamo diventando inadeguate», «Gli uomini non vogliono più macchine appariscenti», «Si, non

177Cfr. A. Lavagnini, L'umanità è un volto senza occhi, cit., pp. 10-11. 178C. Chatrian, Apoteosi della macchina cinema, cit., p. 7.

179La maschera indossata da Céline è la stessa usata dalla stessa attrice Edith Scob nel film Occhi

vogliono più motori. Niente più azione. Noi non serviamo più. Amen».

La limousine quindi non è solo il veicolo narrativo che rende possibile l'avanzare del protagonista attraverso la città – come accade in Cosmopolis – ma è soprattutto il luogo a partire dal quale le cose possono essere pensate e dunque filmate:180 metafora di un cinema che sta morendo, rappresenta il nodo della vicenda, veicolo dell'azione al pari di una macchina da presa o di un proiettore.181

Holy Motors raggiunge dunque le dimensioni di una profonda riflessione sul

cinema stesso, sulla sua obsolescenza, su quello che è stato, su quello che è diventato ma soprattutto su quello che sarà; un cinema estroflesso che, esorbitando i propri margini e confini, si fa esperienza totale.182 Un cinema che, come sostiene Casetti nel suo ultimo saggio, mette in atto quell'allargamento dei propri confini che da sempre ha sperato di raggiungere ma che non ha mai potuto realizzare per la mancanza di mezzi.183 Holy Motors sembrerebbe appunto riassumere perfettamente, attraverso l'uso originale di metafore e simboli, tutte quelle caratteristiche con le quali lo studioso italiano identifica cinema e spettatore contemporanei. Un cinema che fuoriesce dalla sala buia – occupata oramai da spettatori "ciechi" – per rilocarsi altrove; un cinema ipertopico che non chiede più di andare da lui in quanto è lui a "muoversi" per raggiunge, in ogni dove,184 il suo audience; un nuovo spettatore sempre più esigente, che

non si confronta più con un singolo film, ma con una messe di discorsi diversi;

180Cfr. C. Chatrian, Apoteosi della macchina cinema, cit., p. 7. 181Cfr. P. Campana, Leos Carax, cit., p. 234.

182Cfr. F. Marineo, Contatto mancato, cit. p. 13.

183Cfr. F. Casetti, La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Bompiani, Milano, 2015, p. 49.

non cerca la concentrazione, ma un'attenzione multifocalizzata; non si immerge più nella vicenda raccontata, ma naviga in superficie; non vive in un luogo chiuso, che circoscrive un pubblico, ma in un luogo aperto, che funziona come snodo di una rete ideale [e che] infine non fronteggia un mondo "altro" capace

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