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Nel capitolo precedente abbiamo visto come il 1999 venga considerato da molti come l'anno che ha cambiato il cinema.110 Un anno che ha visto la variegata coabitazione nelle sale di film estremamente diversi tra loro per forme, generi, stili, estetiche, tecnologie e modelli produttivi che, come sottolinea Malavasi, ha sicuramente portato i più attenti tra gli spettatori a chiedersi: che cosa è diventato il cinema?111 Oltre ai già citati Matrix e Fight Club, il panorama distributivo del 1999 è caratterizzato per esempio: dal bizzarro e meta-cinematografico Essere

John Malkovich (Being John Malkovich, 1999) di Spike Jonze, dagli effetti

speciali di Star Wars: Episode I – La minaccia fantasma (Star Wars: Episode I –

The Phantom Menace, George Lucas, 1999), dai microscopici insetti interamente

realizzati in CGI di A Bug's Life – Megaminimondo (A Bug's Life, John Lasseter, Andrew Stanton, 1998) e di Zeta la formica (Antz, Eric Darnell, Tim Johnson, 1998), dall'estetica lo-fi e amatoriale di Mifune – Dogma 3 (Mifunes sidste sang , 1999) di Søren Kragh-Jacobsen. Basta prendere in esame questi pochi titoli per comprendere la pluralità con la quale si identifica il cinema contemporaneo; pluralità che rispecchia perfettamente la sempre più complessa "atomizzazione" dell'audience, dovuta soprattutto alle inedite possibilità offerte dalle nuove

109D. N. Rodowick, Il cinema nell'era del virtuale, Edizioni Olivares, Milano, 2008, p. 113. 110Cfr. H. Jerkins, Cultura convergente, cit., p. 111.

tecnologie digitali.

Introducendo il discorso sul digitale abbiamo precedentemente solo accennato alla distinzione tra immagini di sintesi e immagine fotonumerica, identificando con le prime quelle immagini interamente create mediante l'utilizzo di pc e appositi programmi e con le seconde quel tipo di immagini ottenute grazie a dispositivi di ripresa digitale. Se l'ingresso delle immagini di sintesi ha aperto un necessario dibattito ontologico attorno ad un'inedita mancanza di referenzialità, le immagini fotonumeriche si possono considerare come un'estensione delle immagini fotochimiche. Questo tipo d'immagine, a differenza di quella sintetica, presenta infatti da una sostanziale indexicalità: come la fotografia, sua antenata,

continua a configurarsi come un indice, ossia come un segno che rinvia all'oggetto che denota perché esso è realmente determinato da quell'oggetto. Tale immagine continua a garantire una corrispondenza di fatto con il suo oggetto, con quel referente fisico che in ogni processo o atto fotografico (chimico o numerico che sia) deve necessariamente trovarsi davanti all'obiettivo.112

Il grande cambiamento quindi, quando si parla di immagine fotonumerica, risiede prevalentemente nella scomparsa del processo chimico, un tempo necessario per le riprese di tipo analogico. La luce infatti entra in una macchina digitale esattamente come entrerebbe in una macchina tradizionale, con la differenza che, anziché impressionare una porzione di pellicola, questa raggiunge un sensore che

112C. Uva, Impronte digitali. Il cinema e le sue immagini tra regime fotografico e tecnologia

converte i segnali luminosi (fotoni) digitalizzandoli. L'atto fotografico in sé quindi, che si tratti di analogico o digitale, rimane inalterato continuando a configurarsi come un'azione mediata da una traduzione "da materia a materia" che conduce alla formazione di un immagine nella quale il rapporto referenziale con il profilmico si mantiene del tutto inalterato.113

L'utilizzo della tecnologia digitale oggi nel cinema è sempre più diffuso e variegato. La leggerezza dei mezzi di ripresa, la possibilità di lavorare con troupe ridotte e la diminuzione dei tempi di attesa – dalle fasi di ripresa a quelle di montaggio – danno la possibilità a determinati autori di proporre un tipo di cinema più personale - in certi casi biografico-diaristico – in un rapporto più diretto con il reale. A tal proposito si prenda come esempio l'opera più recente, estrema sotto molti punti di vista, del regista italiano Pippo Delbono, nella quale emergono perfettamente queste nuove forme di soggettività nate dall' utilizzo di una tecnologia leggera. Sangue (2013), suo ultimo film, è girato con un comunissimo videofonino e una maneggevole microcamera HD, strumenti grazie ai quali il regista riesce nella difficile impresa di mettere in immagini un oggetto che il cinema ha da sempre trattato con una certa difficoltà: la morte, quella vera. La morte infatti è il perno attorno al quale ruota l'intera opera che dunque si fa elaborazione di un lutto, allo stesso tempo intimo e universale. C'è la morte di Margerita, madre di Delbono, costantemente seguita nei suoi ultimi giorni di vita; c'è la morte di una città, L'aquila, devastata dal terremoto del 2009; la morte - non mostrata - di Anna, moglie dell'ex brigatista Carlo Senzani col quale Delbono dialoga durante il film; la morte – rievocata – di Roberto Peci, ucciso dallo stesso

terrorista nell'agosto dell'81. La dimensione personale e diaristica è dovuta al totale coinvolgimento del suo autore nella materia viva del film, a «quell'identificazione tra cinema e vita che è stata per lungo tempo l'utopia del cinema-verità».114 Tutto questo è reso possibile dalle caratteristiche tecnologiche e sociali che rendono il videofonino vero e proprio prolungamento dell'occhio, mentale e fisico, dell'autore che «tocca, scappa, viaggia, coglie spezzoni di realtà che fatica a tenere insieme: in una forma che sfiora la sinestesia la camera restituisce, di questa ricerca [del sé], l'ansia e la passione».115 Appartenendo di fatto alla sfera dei personal media il videofonino fortifica il legame tra mezzo di ripresa e corpo, permettendo a chi ne fa uso – che sia, come in questo caso, un autore professionista o un "regista" occassionale – di instaurare un rapporto nuovo, più immersivo, tangibile e personale, con il reale.116

Un'idea di cinema diametralmente contrapposta a quella cui comunemente si fa riferimento quando si associano settima arte e sviluppo tecnologico e che rimanda prevalentemente all'uso spettacolare e attrazionale degli evolutissimi effetti speciali e della CGI . Il nuovo panorama cinematografico risulta quindi talmente complesso e vasto che sarebbe più adeguato, così come suggerisce Christian Uva, parlare di cinema digitali, al plurale. Si apre cosi un amplissimo ventaglio di possibilità che vanno, da un più "leggero" utilizzo del digitale, si pensi all'estetica

lo-fi di un film come Julien Donkey-Boy (Id., 1999) di Harmony Korine,

114A. Sainati, Forme della soggettività in Sangue di Pippo Delbono, in L. Cardone e S. Lischi (a cura di), Sguardi differenti. Studi di cinema in onore di Lorenzo Cuccu, Pisa, Edizioni ETS, 2014, p. 386.

115Ivi, p. 390.

116Cfr. E. Marcheschi, Realizzare sguardi utopici. Il videofonino come mezzo di ripresa, in M. Ambrosini, G. Maina, E. Marcheschi (a cura di), I film in tasca. Videofonino, cinema e

interamente girato in MiniDv, a un cinema in cui la presenza del digitale si fa più "pesante", si prenda come esempio tutto il cinema di James Cameron e in particolare il suo ultimo film, Avatar (Id., 2009). Nel mezzo troviamo un numero elevatissimo di casi in cui l'impiego del digitale avviene in maniera più o meno marcata: che si prenda in esame il sempre più vasto fenomeno della cinematografia indipendente, incentivato da una disponibilità di mezzi prima impensabile; o il cinema spettacolare di intrattenimento, di marca prettamente hollywoodiana, al giorno d'oggi il digitale è una presenza costante. Per quanto riguarda il montaggio, per esempio, questo non viene più eseguito mediante l'uso della moviola, lavorando direttamnete sulla pellicola. Grazie alla digitalizzazione del materiale girato (sia audio che video), tutte le operazioni di post-produzione - dall'editing alla sincronizzazione, dalla color correction all'inserimento di effetti visivi – vengono eseguite tramite appositi software digitali, al computer. Questi software, tra i più utilizzati al cinema ricordiamo Avid, permettono una maggior velocità di elaborazione, la possibilità di modificare in modo diretto le decisioni prese in fase di ripresa (isolare una parte del fotogramma, zoomare, inclinare l'asse dell'inquadratura), la verifica in tempo reale della qualità del girato, la creazione di infinite time line ognuna contenente un differente montaggio delle scene. Tutti fattori che determinano una nuova concezione di montaggio, non lineare, e che esemplificano perfettamente quanto l'idea di integrazione sia fondamentale quando si parla di digitale.117

Per fare un po' d'ordine nell'enorme scenario di opportunità proposte dalla nuova

117Cfr. D. Brotto, Trame digitali. Cinema e nuove tecnologie, Marsilio, Venezia, 2012, pp. 125- 126.

tecnologia digitale lo studioso Denis Brotto propone un esauriente elenco che riassume le «dodici possibilità di linguaggio del cinema contemporaneo»:118 1) minimalismo, low budget, leggerezza dei mezzi e riduzione della troupe; 2) sviluppo di una forma individuale di cinema: autobiografia, diario ecc...;

3) rapporto diretto con il reale, estrema vicinanza tra supporto tecnologico e corpo attoriale;

4) manipolazione del racconto cinematografico e del reale (estremo opposto al punto precedente);

5) frammentazione e multinarratività del testo filmico; 6) presentificazione del testo filmico;

7) narrazione per accumulo di immagini; 8) uso del digitale nella rappresentazione; 9) possibilità di ripresa in assenza di operatore;

10) il meta-racconto, il trial filmico, il carnet de notes; 11) l'effetto rebound;

12) influenza del cinema foto-chimico.

Le succitate novità introdotte nel nuovo panorama contemporaneo potrebbero essere viste, ad una prima analisi, come dei segnali di rottura; come risultato di un forte cambiamento all'interno di un immaginario cinematografico in continua evoluzione. In realtà le varie possibilità realizzative che il digitale mette oggi a disposizione vanno inserite, più coerentemente di quanto si possa immaginare, su una linea di sostanziale continuità con il passato.119 Abbiamo già visto come la

118Ivi, p. 35.

tecnica del morphing si posso considerare come una sorta di realizzazione degli ideali baziniani di rinuncia al montaggio; allo stesso modo altre innovazioni tecnologiche, pensate anni fa, risultano possibili e realizzabili solo oggi. Il cinema digitale infatti, più che una rottura, «costituisce piuttosto una forma di recupero e di radicalizzazione di esigenze, idee e istanze del secolo scorso, in grado di assumere oggi una veste rinnovata», in quanto «le esigenze della mente anticipano di gran lunga le risposte della tecnica».120 La leggerezza dei mezzi di registrazione e la nuova dimensione di istantaneità del dispositivo favoriscono, come abbiamo detto, un rapporto più diretto col reale, portando a compimento l'utopia zavattiniana del poter pedinare il reale, dando la possibilità di osservare la "vita colta sul fatto" così come auspicava Dziga Vertov a metà degli anni Venti, o ancora favorendo un tipo di cinema più personale, in cui il regista usa la cinepresa come il pittore usa il pennello, come lo scrittore usa la penna, attualizzando concetti come quello di caméra-stylo, teorizzato quasi settant'anni fa da Alexandre Astruc. E ancora, pensiamo all'uso che un regista come Abel Gance avrebbe fatto degli attuali mezzi di produzione. Già nei primi anni del secolo scorso Gance sperimentava primordiali movimenti di macchina molto complessi per l'epoca paragonabili alle nostre skycam e steadycam, mettendo in pratica concetti come quello di polivisione che oggi trova nello split-screen, facilmente realizzabile in fase di post-produzione, un equivalente corrispettivo digitale.121

L'impiego della tecnologia digitale all'interno del cinema possiede quindi numerose sfaccettature. Vediamo ora più da vicino quali sono quegli autori che ne

120D. Brotto, Trame digitali, cit., p. 15.

hanno intuito le innumerevoli potenzialità, servendosi delle sue capacità espressive ed estetiche. Un regista come Michael Mann, considerato uno dei più grandi innovatori del genere action americano ha adottato l'estetica del digitale in favore di un più marcato «effetto di reale», rintracciabile in tutta la sua filmografia recente; dove con «effetto di reale» si identificano tutti quei casi in cui lo spettatore crede a ciò che vede non per convenzione, ma perché vi riconosce un fondamento di reale esistito davvero, a differenza di quanto avviene per l'«effetto di realtà» e cioè quando l'immagine ricrea nello spettatore una sensazione di realtà mediante una convenzione, utilizzando dei codici, attivando cioè quella "sospensione dell'incredulità" tipica del cinema.122 Durante la realizzazione del film biografico Alì (Ali, 2001), incentrato sulla leggendaria figura del pugile statunitense, Mann ha avuto l'opportunità di indossare delle speciali apparecchiature particolarmente leggere e quindi di portarsi al centro dell'azione muovendosi liberamente attorno agli attori. In questo modo si dona alle scene di combattimento uno sguardo nuovo, più realistico e fino ad allora difficilmente realizzabile.123 Lo stesso effetto di reale lo si ritrova nel suo film successivo,

Collateral (Id., 2004) nel quale si descrive la città di Los Angeles rinunciando

quasi completamente all'illuminazione artificiale - come fece Kubrick nel suo

Barry Lyndon (Id., 1975) - e sfruttando le luci on location della metropoli, dei

lampioni, delle auto che, catturate da una cinepresa in HD, restituiscono il particolare calore e la specifica materia luminosa che è data dall'umidità notturna

122Cfr. D. Brotto, Trame digitali, cit., p. 81. Brotto in realtà riprende le nozioni di «effetto di reale» e di «effetto di realtà» da J.-P. Oudart in L'effet de réel, in «Cahiers du Cinéma», 228, 1971, pp. 19-28.

e dall'aria.124 Il caso di Michael Mann è solo uno dei tanti che si potrebbero prendere in considerazione per comprendere appieno in che modo numerosi autori, diversi tra loro per tematiche e poetiche, abbiano adottato la nuova "religione" del digitale per continuare a portare avanti la loro idea di cinema. Potremmo aggiungere David Lynch, che con INLAND EMPIRE – L'impero della

mente (INLAND EMPIRE, 2006), suo ultimo film, ci pone di fronte ad una realtà

altra, "deformata" e allucinata, girando esclusivamente in digitale con una telecamera semiprofessionale, la Sony PD-150; potremmo soffermarci sulla filmografia dell'eclettico Steven Soderbergh, che spazia senza problemi dallo sperimentalismo low-budget di Bubble (Id., 2005)125 all'ambiziosa biografia fluviale di Che Guevara con Che: - L'Argentino (Che: Part One, 2008) e Che –

Guerriglia (Che: Part Two, 2008)126. Se però si vuole trovare un film che riassuma e inauguri un nuovo modo di fare e pensare il cinema, Dancer in the dark (Id., 2000) di Lars von Trier è sicuramente una delle opere più paradigmatiche. Il film segue la drammatica vicenda di Selma, interpretata dalla cantante islandese Björk, giovane ragazza madre di origine cecoslovacca emigrata negli Stati Uniti dove lavora come operaria presso una fabbrica. Selma è affetta da una gravissima malattia ereditaria agli occhi che la porterà inevitabilmente alla completa cecità; destino che cerca in tutti i modi di evitare al figlio Gene, lavorando il più possibile e mettendo da parte i soldi per sottoporlo ad una costosissima operazione. Selma è

124Cfr. F. Marineo, Il cinema del terzo millennio, cit., p. 182.

125Il film, oltre che per l'estetica digitale volutamente lo-fi, si caratterizza per le originali modalità distributiva; presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2005, viene distribuito l'anno dopo in contemporanea nelle sale, su tv satellitale, su supporto DVD e attraverso Internet, in tutto il mondo.

126Cfr. R. Menarini, Il cinema dopo il cinema. Dieci idee sul cinema americano 2001-2010, Le Mani, Genova, 2010, p. 79.

inoltre una grande amante dei musical americani e, terminato il lavoro in fabbrica, divide il suo tempo libero tra il cinema e una piccola e modesta compagnia teatrale nella quale recita. Questa grande passione consente a Selma di fuggire dalla triste realtà che la circonda e di dare vita a delle vere e proprie "rêverie musicali" durante le quali il racconto si slega momentaneamente da un tipo di narrazione realistica per adottare, assieme alla protagonista, le regole del genere musical. Proprio durante una di queste "pause dalla realtà" si può notare chiaramente come la figura di Selma appartenga a tutti gli effetti a quella serie di personaggi che Gianni Canova denota come rappresentativi della deriva post- oculare intrapresa dal cinema contemporaneo.127 «Io ho visto tutto, ho visto l'oscurità. Ho visto la luce in una piccola scintilla. Ho visto quello che ho scelto e ho visto quello di cui avevo bisogno», canta Selma mentre torna a casa seguendo i binari della ferrovia, «Io ho visto quello che sono stata, so cosa sarò. Ho visto tutto, non c'è nient'altro da vedere». Accettando serenamente la sorte che di li a poco la porterà alla completa cecità, Selma sembra quasi incarnare metaforicamente il destino del cinema stesso che, prendendo atto della perdita dell'egemonia dello sguardo che un tempo lo caratterizzava, confessa quel senso d'inadeguadezza di cui si è già parlato.

L'originalità di un film come Dancer in the Dark risiede nel modo in cui, affrontando un genere tipicamente "artificiale" come il musical, riesce a mettere in scena una diversa relazione nei rapporti tra realtà profilmica e sistema formale, «tra ciò che c'è e il modo in cui lo si guarda, implicando di conseguenza – sull'asse della relazione estetica – un rapporto altrettanto diverso tra film e

spettatore. E diverso, qui, significa in particolare anti-illusorio».128 Il raggiungimento di questa inedita rappresentazione del reale, in risposta alla "tempesta tecnologica" che in quegli anni rischiava di compromettere la nozione stessa di realtà per il cinema,129 è dovuto all'applicazione più o meno rigorosa di quella serie di regole che compongono il manifesto del Dogma 95, scritto dallo stesso Von Trier assieme al regista Thomas Vinterberg, e che vede nelle nuove possibilità offerte dalla tecnologia digitale uno strumento indispensabile. Si prenda come esempio l'utilizzo di leggere videocamere digitali come le DVCAM che, obbedendo al diktat dogmatico che impone l'utilizzo esclusivo della camera a mano, consegna al film quel grado di iconicità audiovisivo vicino alla pratica amatoriale del video digitale.130 A questo va aggiunta tutta una serie di scelte stilistiche quali movimenti di macchina bruschi e confusi, inquadrature "vuote" e fuori fuoco, un montaggio non sempre motivano dall'azione, la trasgressione di determinate regole convenzionali di continuità spazio-temporale – regola dei 180° su tutte – un sonoro spesso sporco e l'adozione di un'estetica marcatamente lo-fi. Tutti fattori che testimoniano quel nuovo interessamento nei confronti del reale che Luca Malavasi descrive come uno degli aspetti qualificanti del cinema neomoderno, e che vede in Dancer in the Dark un vero e proprio manifesto:131 un reale che ci viene dunque restituito attraverso uno sguardo interno che costantemente prova la sua appartenenza alla realtà; uno sguardo «presente, corporeo, che non inquadra ma accade, inseguendo una realtà che prende e

128L. Malavasi, Realismo e tecnologia, cit., p. 115. 129Ivi.

130Cfr. L. Jullier, Il cinema postmoderno, cit., p. 145. 131Cfr. L. Malavasi, Realismo e tecnologia, cit., p. 114.

cambia forma di fronte a lui».132

Come abbiamo precedentemente accennato, quest'approccio per così dire "amatoriale" attraverso il quale il film affronta la rappresentazione del reale viene abbandondato nelle sei "parentesi musicali" dedicate alle rêverie, ai sogni ad occhi aperti, di Selma. Nel momento in cui la protagonista decide di estraniarsi dalla realtà circostante, il film stesso decide di estraniarsi con lei adottando uno stile completamente diverso. Le inquadrature caotiche e l'uso della camera a mano lasciano ora spazio a inquadrature fisse (fanno eccezione i casi in cui la videocamera è fissata ad oggetti di scena mobili) e ad un utilizzo di colori e luci particolarmente saturi. Il montaggio, se prima proponeva numerosi tagli immotivati non badando alla resa della continuità, ora viene invece dettato dalla musica e dalla coreografia dei tanti attori presenti in scena, ripresi in simultanea da un altissimo numero di videocamere (nella sequenza dedicata al succitato brano

I've Seen It All ne sono state utilizzate addirittura cento). Questo cambio di

registro, in cui il film sembra momentaneamente prendere una pausa dalla sua rappresentazione del reale, è dovuto principalmente al fatto che quella messa in scena ora non è la stessa realtà vista ad esempio all'inizio del film, ma una realtà altra che esiste solo nella mente della protagonista; una "realtà onirica" che nasce comunque sempre da quella circostante. Per potersi abbandonare alle proprie fantasie, Selma deve trarre ispirazione dai suoni e dai rumori che la circondano: il frastuono dei macchinari della fabbrica, lo sferragliare di un treno sui binari, lo sfregare delle matite sui fogli degli illustratori presenti in aula durante il suo

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