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Il tempo della fine: Il cavallo di Torino di Béla Tarr

«Faccio un film sulla fine del mondo, e smetto».186 Con queste parole, il regista unghere Béla Tarr presenta quella che ad oggi è effettivamente la sua ultima opera. Un annuncio che, da una parte segna la fine di una singolare e tutt'altro che copiosa produzione artistica – nove lungometraggi in trentaquattro anni – e dall'altra conferisce all'intera filmografia del regista di Pécs, in particolar modo al

185Ivi, p. 25.

186M. Grosoli, Armonie contro il giorno. Il cinema di Béla Tarr, Bébert Edizioni, Bologna, 2014, p. 18.

suo ultimo film, un ulteriore senso di coerenza. Come afferma giustamente Marco Grosoli infatti, ciò che rende riconoscibile il cinema di Tarr, dall'esordio di Nido

familiare (Családi tűzfészek) del 1977, è l'inconsistenza di qualsiasi prospettiva

teleologica e la consapevolazza che «la fine non è innanzi, ma è già qui, qui ed ora»;187 con Il cavallo di Torino (A Torinói ló, 2011) tutto questo raggiunge il suo apice, inesorabile e definitivo. Una percezione della fine che come vedremo ruota attorno al termine dell'esistenza umana e animale sulla Terra per farsi, inevitabilmente e implicitamente, discorso sulla dipartita del cinema stesso. La vicenda narrata nel film scaturisce da un episodio accaduto a Friedrich Nietzsche il 3 gennaio del 1889: una mattina, per le strade di Torino, il filosofo tedesco assiste all'atroce scena di un carrettiere intento a frustare a sangue il suo cavallo che inspiegabilmente rifiuta di muoversi. Alla vista di tanta violenza Nietzsche scatta sul carretto per abbracciare il maltrattato animale, scoppiando a piangere. È il primo gesto di una mite follia che non lo abbandonerà mai più. Tutto questo però nel film non ci viene mostrato. Una volta comparsi i titoli di testa, essenziali e senza alcun commento musicale, uno sfondo nero rimane ad occupare l'intero quadro ancora per qualche minuto mentre una voce over ci racconta la vicenda di Nietzsche e del cavallo del quale, afferma concludendo, «non abbiamo più notizie». Se infatti sappiamo che in seguito a tale episodio il filosofo tedesco non si riebbe più – la madre e la sorella lo accudirono durante gli ultimi dieci anni della sua vita – nessuno si è mai chiesto che ne fu del cavallo. Béla Tarr e László Krasznahorkai, scrittore ungherese che dal 1987 collabora alle sceneggiature di tutti i film del regista, decidono allora di colmare questo vuoto,

apparentemente irrilevante, mostrandoci quello che accadde all'animale e al suo padrone una volta tornati a casa.

Alla succiatata schermata nera segue una dissolvenza che ci presenta il carretto trainato a fatica dal cavallo. L'animale è inquadrato frontalmente e la macchina da presa lo tiene in campo con un movimento a seguire per poi spostarsi lateralamente verso destra e inquadrare il profilo dell'anziano cocchiere che incita l'animale a proseguire la sua corsa. L'andatura cantilenante del tema musicale composto da Mihály Víg (sarà l'unico per tutta la durata del film) accompagna, quasi imitandolo, il passo claudicante della vettura. Lo sguardo della cinepresa ora si allontana per tornare solo momentaneamente sul muso del cavallo per poi prendere un'altra strada parallela e seguire il carretto traballante, mentre prosegue verso sinistra, di profilo. Il vento impetuoso alza una fitta coltre di polvere che ostacola la vista rendendola quasi impossibile. La macchina da presa torna dunque sul cavallo con una serie di movimenti instabili e continui, inquadrandone ora il muso leggermente dal basso, ora il manto irregolare, bagnato e polveroso. Una dissolvenza sul nero chiude il primo dei numerosi piani sequenza che costituiscono la struttura dell'intero film.

"Il primo giorno". Questa didascalia su sfondo nero anticipa l'arrivo a casa del cavallo e dell'anziano vetturino. Ad attenderli c'è una giovane donna, figlia di quest'ultimo, che vedendoli si appresta ad aiutare il padre mettendo al riparo il carro e l'animale. L'accompagnamento musicale di Vig presente nella sequenza precedente è ora assente e la colonna sonora è interamente occupata dallo strepitìo del carretto e dal soffiare implacabile del forte vento. La giornata dell'uomo e

della donna prosegue con lentezza e rigido silenzio, così come le successive. Il film ci mostra infatti quelli che a tutti gli effetti sembrano essere gli ultimi sei giorni di vita sulla Terra concentrandosi su questo minimo e misero microcosmo costituito dalla stalla e dal rudere in cui abitano il cocchiere e la figlia. Giorni che si susseguono uno identico all'altro, caratterizzati dalle stesse azioni, dagli stessi gesti, quasi rituali, che si ripetono sempre uguali, sempre nervosi, sempre primitivi:188 ogni mattina la ragazza aiuta il padre a vestirsi, così come ogni notte lo aiuta a spogliarsi (l'anziano vetturino ha il braccio destro paralizzato); i due consumano sempre lo stesso medesimo pasto che consiste in una patata bollita ciascuno, mangiata rigorosamente senza posate; tutti i giorni la giovane figlia esce di casa sfidando il forte vento per recarsi presso il pozzo poco distante e procurarsi la quotidiana scorta d'acqua. Tra un'azione e l'altra il nulla; solo momenti di pausa trascorsi immobili ad osservare un inesistente oltre fuori dalla finestra. I dialoghi tra padre e figlia sono ridotti al minimo e comunque freddamente legati alla contingenza: «Vai a letto!», ordina il genitore sul finire del giorno; «È pronto», lo informa la figlia ogni volta che le patate sono cotte e fumanti nel piatto.

A dir la verità il susseguirsi dei giorni non è esattamente identico, le cose sembra siano sempre le stesse ma invece cambiano, con delle piccole differenze che, inserite in questa assoluta e gravosa monotonia, assumono un significato ulteriore. Tali "variazioni sul tema" si possono rilevare sia a livello diegetico, come vedremo, sia a livello extra-diegetico, derivate dall'azione della macchina da presa. I vari gesti che caratterizzano le giornate dei protagonisti infatti non ci

vengono mai presentati nello stesso modo; questo perché i lunghi piani sequenza si dispiegano in un movimento quasi continuano, dando l'impressione di una ripresa che avviene senza soluzione di continuità con la materia filmata,189 proponendo di volta in volta, di giorno in giorno, uno sguardo inedito. Prendiamo come esempio i due piani sequenza in cui i due protagonisti consumano il loro pasto durante il primo e il secondo giorno.

L'inquadratura si apre con un dettaglio della pentola in cui stanno cuocendo le patate, la macchina da presa compie un movimento verso l'alto per inquadrare la ragazza che entra in campo per togliere le patare dal fuoco e portarle a tavola. Lo sguardo della cinepresa indugia per qualche secondo sulla ciotola lasciata al centro del tavolo per poi spostarsi ed inquadrare la figlia che raggiunge il letto del padre per avvisarlo che è tutto pronto; lei esce fuori campo sulla destra mentre noi seguiamo i movimenti dell'uomo che si alza e si siede per mangiare. Dopo un dettaglio della mano intenta a sbucciare faticosamente la patata, una breve panoramica verso l'altro si sofferma sul primo piano del cocchiere finché questi, una volta terminato, si alza per sedersi di fronte la finestra. La macchina da presa si allontana solo momentaneamente dall'uomo, per includere nell'inquadratura la giovane donna che si alza per sparecchiare, per poi tornare lentamente con un carrello in avanti sulla figura dell'anziano di spalle. Dissolvenza in chiusura. Il piano sequenza del secondo giorno si apre invece su un totale dell'interno della piccola casa, praticamente un locale unico comprendente cucina e camere da letto. La ragazza cammina verso di noi per svuotare il catino nel quale aveva in

189Cfr. A. Mallamo, Il dentro della vita, ovvero il pensiero è un cavallo, «Cineforum», LII, 512 (2012), p. 9.

precedenza lavato dei panni. La macchina da presa si sposta verso destra per inquadrare in primo piano il profilo del padre occupato a forare un lembo di cuoio; la figlia lo chiama per mangiare e lui si alza pedinato dallo sguardo della camera che si ferma, tenendo in primo piano parte del suo braccio sinistro, di fronte alla ragazza che dall'altra parte del tavolo consuma la sua patata. Una volta che l'anziano cocchiere si alza per prendere posto di fronte la finestra, un movimento verso destra stabilizza l'inquadratura tenendola frontale sul mezzo busto della giovane. Il piano sequenza di conclude quando lei, una volta terminato il pasto, raggiunge il suo letto per sedersi e guardare fisso di fronte a sé: l'inquadratura ora tiene padre e figlia in campo, di profilo verso destra, e a fuoco grazie al grandangolo che permette una perfetta profondità di campo.

Saltano dunque facilmente all'occhio le differenze nella messa in scena dovute all'azione della macchina da presa che, munita di una totale libertà, disegna lo spazio filmico proponendo sempre uno sguardo differente, pur riprendendo sempre la stessa situazione.190 Quello messo a punto da Tarr è un dispositivo che trova nel piano sequenza, cifra stilistica da lui prediletta, uno strumento atto allo svuotamento di senso delle azioni, rallentandole e rendendole materia di contemplazione estetica.191 Una materia che, nei corpi dei personaggi e nei gesti che essi compiono, trasuda una pesantezza che fa emergere un altro protagonista del film; un protagonista invisibile da sempre al centro della poetica tarriano: il tempo. L'analisi di Grosoli, all'interno di quella che ad oggi risulta essere l'unica monografia italiana dedicata al regista ungherese, sottolinea come Il cavallo di

190Cfr. A. Signorelli, La luce breve, cit., p. 6.

Torino ponga in realtà lo spettatore dinanzi ad una duplice esposizione del tempo;

quello quotidiano, scandito dal piatto susseguirsi delle azioni, e un tempo "supplementare", materializzato dal lento movimento della macchina da presa che unisce, in una tangibile continuità, queste azioni facendole sfumare una nell'altra:192«È un tempo che scorre dentro un altro, e lo spazializza, lo trasforma in un sistema di relazioni, gli trova una coreografia cucita addosso. [...] È il medesimo tempo, ma spazializzato, coreografato, messo in forma».193 Il piano sequenza, per dirla come Rancière, è l'unità di base di questa costruzione grazie alla quale è possibile rispettare «la natura del continuum, la natura della durata esperita al cui interno le attese si fondono o si disgiungono e radunano e oppongono gli individui».194

Il tempo però non è l'unico protagonista "invisibile" della vicenda. Mentre il film, come abbiamo appena visto, procede col suo lento ripetersi, la routine del vetturino e della giovane figlia viene progressivamente interrotta dall'intervento intangibile di quella che sembra essere una forza superiore, sovrannaturale, causa di quella serie di cambiamenti a livello diegetico che abbiamo finora solo annunciato. Il forte vento che all'inizio del film ostacola il ritorno a casa del carretto trainato a fatica dal cavallo, testimonia l'incombere di una natura divenuta ormai inospitale e ostile che porterà alla graduale e spietata degenerazione delle cose fino all'inesorabile fine: i tarli, che per oltre cinquant'anni col loro rumore hanno accompagnato il sonno del vecchio, a partire dalla notte del primo giorno non si sentono più; il secondo giorno il cavallo mostra i suoi primi segni di

192Cfr. M. Grosoli, Armonie contro il giorno, cit., p. 211. 193Ivi, p.212.

indisponenza rifiutandosi di trainare il carro e costringendo dunque l'anziano a rimanere in casa, dal giorno successivo smetterà anche di mangiare; il quarto giorno il pozzo è inspiegabilmente vuoto e i due presto resteranno senza acqua; persino la luce di lì a poco li abbandonerà, lasciandoli nella più assoluta oscurità del sesto e ultimo giorno.

Il cavallo di Torino, così come molte altre opere di Tarr, presenta una struttura che

solo apparentemente rimanda ad una sorta di circolarità. Il tempo e lo spazio ritornano su sé stessi mostrando sempre uno scarto, una perdita, esibita anche dalla durata delle varie giornate che progressivamente va riducendosi. Più che col cerchio quindi, tutto si potrebbe riassumere con la figura di una spirale tendente verso il basso che trascina con sé le cose, i corpi, i gesti, consumandoli verso l'ineluttabile e indefinibile catastrofe. Indefinibile perché all'interno del film non viene mostrata nessuna causa scatenante, non c'è alcun tentativo di comprensione da parte dei personaggi: una qualsiasi ricerca di senso risulterebbe inutile e pretenziosa. Com'è perfettamente dimostrato dal lungo e inquietante monologo sciorinato dal personaggio del vicino di casa che, giunto per acquistare una bottiglia di pálinka (liquore tipico ungherese) dal vecchio, sentenzia sul destino dell'uomo e sulla sua fine. Un fiume ininterrotto di parole della durata di quasi cinque minuti che, in forte contrasto con la povertà di dialoghi vista finora, fa emergere tutta la sua inadeguatezza: «Tutto è in rovina. Tutto è stato impoverito [...]. Si tratta del giudizio dell'uomo su se stesso, nel quale anche Dio ha un ruolo [...]. E all'improvviso hanno compreso che non esiste né Dio né altri Dei, non c'è ne bene né male [...]». Sembra quasi di sentire un allucinato e disorientato

discepolo di Nietzsche, prigioniero della sua ottica intellettuale e convinto di poter dare ancora una sorta di lettura filosofica al vuoto che lo circonda, senza rendersi conto che, «più forte di ogni parola, a parlare è il silenzio delle cose».195

Questo concetto viene ulteriormente ribadito quando la solitudine dei due congiunti viene disturbata dall'arrivo di un gruppo di zingari assetati che sperano di poter attingere liberamente dal pozzo. Il burbero padrone si infuria e la compagnia nomade riprende il suo cammino lasciando alla giovane figlia del carrettiere un misterioso libro. La ragazza una volta rincasata comincia a leggere, sillabando con fatica, le parole contenute in quest'anti-Bibbia196 in cui si parla di come i preti abbiano chiuso le porte delle chiese, luoghi sacri ormai irrimediabilmente violati «dalla grande ingiustizia delle azioni che hanno avuto luogo al loro interno»: parole che ancora una volta rivelano la loro sostanziale inefficienza conoscitiva, senza recapitare nessun tipo di messaggio e limitandosi a preannunciare l'approssimarsi delle tenebre: «Il mattino diventerà notte. La notte finirà...». Perché, come sostiene acutamente Jonathan Rosenbaum, Tarr e Krasznahorkai non vogliono offrire un messaggio, ma bensì una visione.197

Se il libro donato dal gruppo di zingari alla giovane donna va considerato come un'anti-Bibbia, Il cavallo di Torino assume tutte le caratteristiche di un'anti- Genesi: in sei giorni, ciò che esiste va progressivamente svanendo e davanti ai nostri occhi non resta che il buio primordiale. Il settimo giorno però, quello dell'effettiva fine, non ci viene mostrato. Il regista non intende infatti portare

195A. Cappabianca, Il silenzio delle tenebre, «Filmcritica», LXII, 621/622 (Gennaio/Febbraio 2012), p. 37.

196È lo stesso regista a darne questa definizione in un'intervista consultabile in V. Petkovic,

Simple and pure, http://cineuropa.org/it.aspx?t=interview&l=en&did=198131 .

avanti la rappresentazione di un'inesprimibile "fine del tempo", preferisce concentrarsi sul ben più drammatico "tempo della fine", consapevole del fatto che «il momento del compimento, la fine insomma, non è al termine di tutto, ma è presente in ogni momento».198

L'unico, o per lo meno il primo, ad accorgersi, e umilmente rassegnarsi, dell'imminente oscurità eterna è il cavallo. Per prima cosa rifiuta di muoversi, in seguito smetterà anche di nutrirsi e di bere e sembra quasi assecondare la decisione dei suoi due padroni quando decidono inutilmente di abbandonare la casa in cerca di una irraggiungibile, perché inesistente, salvezza:199 caricato l'indispensabile sapra il carro, i tre si allontanato scomparendo dietro la collina per poi tornare subito sui loro passi, consapevoli ora che ogni moto di speranza è assolutamente inutile. Non resta dunque che chiudere definitivamente il cavallo nella sua stanza e seguire il suo esempio: rassegnarsi all'inevitabile con una consapevole immobilità: il sesto giorno non faranno altro che restare seduti al tavolo e osservare mestamente il loro ultimo pasto senza consumarlo.

Riconoscendo il fallimento di una qualsiasi lettura intellettuale chiarificatrice (il vicino di casa pseudo-filosofo) e rinunciando ad ogni possibile speranza di salvezza teologica (le porte delle chiese sono chiuse), Béla Taar costruisce sopra le macerie postmoderne del rifiuto del progresso il suo film definitivo: fine delle ideologie, fine del mondo, fine del cinema, registrando definitivamente la sua vittoria nei confronti della narrazione.200 L'opera del regista ungherese risulta

198M. Grosoli, Armonie contro il giorno, cit., p. 210.

199Jonathan Romney vede nella figura del cavallo un corrispettivo equino del personaggio melvilliano di Bartleby, lo scrivano che di punto in bianco smette di svolgere ogni funzione che gli viene richesta rispondendo con un lapidario «preferirei di no». Cfr. J. Romney, Gone with

the wind, «Sight & Sound», LXXX, 22 (Giugno 2012), p. 34.

infatti estremamente lontana dalle comuni esperienze che si hanno del cinema. Puntando su una sintesi totale, il film elimina tutti i possibili punti di trascendenza, tutti i piani di significato, di interpretazione, di ritmo narrativo, solitamente espliciti, o comunque nascosti nelle immagini, di una consueta esperienza filmica.201 Un film come Il cavallo di Torino propone quindi allo spettatore una tipologia di visione che Alessandra Mallamo accosta acutamente a quella che si ha di fronte ad un fuoco acceso in un camino che «cattura lo sguardo e slega il pensiero dalla visione: si guarda la fiamma senza cercare un divenire degli eventi, un movimento progressivo verso un fine».202

L'approccio ad un tipo di narrazione inconsueto, spesso molto vicino all'antinarrazione, è una caratteristica che accomuna molti film che recentemente si sono preoccupati di restituire sullo schermo l'inquietudine dell'uomo - e del cinema - di fronte alla presa di coscenza di un'imminente avvento della fine. Pellicole come 4:44 Ultimo giorno sulla Terra (4:44 Last Day on Earth, 2011) di Abel Ferrara, Melancholia (Id., 2011) di Lars von Trier e La quinta stagione (La

cinquième saison, 2012) di Peter Brosens e Jessica Woodworth dimostrano, con

modalità differenti ma con altrettante caratteristiche comuni, come negli ultimi anni il cinema cerchi in tutti i modi di raccontare, forse cercando di esorcizzarlo, l'approssimarsi dell'epilogo.

Il film di Ferrara, per esempio, si concentra sull'ultima giornata della vita di una coppia che attende la fine del mondo, prevista esattamente alle ore 4:44. Lo spazio d'azione è prevalentemente circorscritto all'interno dell'attico in cui i due vivono,

201Cfr. A. Mallamo, Il dentro della vita, ovvero il pensiero è un cavallo, cit., p. 9. 202Ivi, p. 8.

discutono, fanno l'amore, attendono l'apocalisse. L'esistenza di un mondo esterno è testimoniata esclusivamente dalle immagini e dai suoni che incessantemente vengono trasmessi dai più disparati apparecchi tecnologici: televisori, computer, tablet. La fine arriva ma anche qui, come nel film di Tarr, non ci viene mostrata: una dissolvenza su bianco cancella progressivamente i visi stretti in un ultimo abbraccio della coppia, sicura che "al di là della luce" starà insieme in eterno. In Melancholia invece, le turbe psichiche e la depressione della protagonista Justine si sovrappongono all'angoscia causata dall'imminente collisione tra il pianeta, il cui nome da il titolo al film, e la Terra. Anche in questo caso l'azione si svolge in un unità di spazio caratterizzata dalla grande villa in cui è ambientata tutta la vicenda. La catastrofe mostrataci da Trier è prima di tutto una catastrofe intima, rappresentata dal malessere esistenziale di Justine e anticipata dai tableaux

vivant che compongono, in un sontuoso rallenti, l'incipit del film. Nell'anticipare

ogni cosa il regista danese distoglie l'attenzione dello spettatore verso lo sviluppo della vicenda generale, ammansisce la tensione narrativa favorendo una maggiore attenzione sui personaggi e sul loro percorso interiore.203

Tra i film citati quello che più si avvicina, proponendo le stesse tematiche ma affrontandole con modalità differenti, a Il cavallo di Torino è sicuramente La

quinta stagione. Anche qui la fine del mondo assume i caratteri di una natura

inospitale che improvvisamente cessa di seguire le sue stesse regole, stravolgendo

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