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L'irrapresentabilità della crisi economica: Cosmopolis di David

Come si sarà intuito alla fine del capitolo precedente, il cinema sembra non potersi tirare indietro dinanzi alla rappresentazione, alla narrazione, di fatti ed eventi che caratterizzano il contesto storico a lui contemporaneo. Nell'affrontare i drammatici avvenimenti legati agli attentati dell'11 settembre 2001, ad esempio, abbiamo visto come si sia rivelato un perfetto strumento di elaborazione e metabolizzazione di un lutto dalle dimensioni globali. Allo stesso modo in questi ultimi anni il cinema si è inevitabilmente preso carico della disamina di un altro problema di carattere completamente differente ma dalle ripercussioni altrettanto universali, senza però ottenere gli stessi risultati soddisfacenti. Il problema in questione è la rappresentazione e la messa in scena della crisi economica mondiale nella quale siamo oggi immersi, delle sue cause e delle sue conseguenze.

Quello economico-sociale è un territorio nel quale il cinema nel corso degli anni si è agilmente mosso, riuscendo sempre a restituire un quadro coerente e puntuale della situazione a lui coeva. Abbiamo già fatto in precedenza gli esempi di Lang e Chaplin che, con modalità estremamente differenti tra loro, hanno rappresentato in maniera perfetta l'alienazione e gli ideali che in quel tempo governavano la vita nelle fabbriche. Metropolis - coi suoi operai costretti a vivere nella miseria e a

lavorare nel sottosuolo - e Tempi moderni - con Charlot che non riesce a "liberarsi" dai gesti che ripetutamente esegue in fabbrica – infatti, risultano i casi più riusciti di rappresentazione critica del capitalismo produttivo fatta dal cinema agli inizi del secolo scorso. Oggi tutto questo risulta, se non impossibile, estremamente difficile, perché? Come spiega in termini semplici e funzionali Giorgio Ruffolo,143 a cavallo tra gli anni 70 e 80 del secolo scorso si è passati da un'economia guidata da un capitalismo di tipo produttivo (o industriale) ad un'economia amministrata dal cosiddetto capitalismo finanziario, giunta fino ai giorni nostri. Se il capitalismo produttivo si basava sulla produttività e l'accumulo di beni fisici e di servizi, riassumibile con la formula marxiana D-M-D' e cioè con l'investimento di denaro in merce per ottere più denaro; con il capitalismo

finanziario lo scopo è quello di ottenere profitto nel minor tempo possibile,

eliminando così il passaggio intermedio,la produzione di merci, dando vita ad un sistema in cui il denaro investito viene fatto circolare sui mercati finanziari al solo scopo di produrre in modo speculativo una maggior quantità di denaro. Si ottiene cosi la formula più breve D-D', ossia la produzione di denaro per mezzo del denaro, che garantisce un reddito più elevato rispetto alla produzione per mezzo di merci.

Passare in rassegna tutti i meccanismi che hanno portato a questo cambiamento di paradigma risulterebbe, in questa sede, inappropriato e difficilmente riassumibile. È sufficiente avere ben chiaro il fatto che, dal capitalismo produttivo «basato sulla realtà delle "cose"», si è passati al capitalismo finanziario «basato sulla

143Cfr. G. Ruffolo, Capitalismo e democrazia, http://temi.repubblica.it/micromega- online/capitalismo-e-democrazia/, (8 marzo 2013).

rappresentazione dei "titoli"». "Titoli" che da semplici indicatori di ricchezza sono diventati ricchezza essi stessi: una ricchezza letteralmente inesistente.144 Il lavoro in fabbrica e la produzione di merci hanno completamente perso la loro centralità all'interno del sistema economico. La produzione di capitale è diventato così un concetto assolutamente astratto, difficilmente riassumibile con qualcosa di concreto che non sia una serie di numeri che scorrono rapidamente sugli schermi nelle sedi delle borse valori di tutto il mondo. Quindi, le difficoltà che il cinema incontra nel rappresentare le dinamiche interne al capitalismo finanziario risiedono proprio nell'irrappresentabilità di questo fenomeno intangibile, disincarnato, quasi irreale. Tutto questo è riscontrabile anche nella "povertà" delle immagini dell'economia e del capitalismo che abitano il nostro immaginario: persone che parlano fossennatamente al telefono, primi piani di mani intente al conteggio di banconote, numeri digitali che scorrono senza sosta su schermi al plasma.145

L'impossibilità di dare un'immagine esaustiva del capitale e di un qualsiasi evento economico non è una questione recente, aperta con l'avvento del capitalismo finanziario. Partendo dall'idea marxiana che vede il capitalismo come un modo di produzione che è già nella sua effettualità un tutto che non può che essere analizzato dall'interno, Pietro Bianchi si chiede giustamente come sia possibile vedere un oggetto se ne siamo all'interno, come sia possibile restituire un'immagine della crisi economica dal momento che ne siamo costitutivamente dentro: «se è vero che il capitalismo non è un oggetto fuori dal Sé, ma è un tutto

144Ivi.

145Cfr. P. Bianchi, Ejzenštejn occupa Wall Street. Note sul capitalismo e la sua immagine, «Cinergie», 1 (marzo 2012), p. 9.

che circonda il Sé, che lo sovradetermina e lo abbraccia, come è possibile metterlo in immagini senza "gettarlo fuori" dal punto di vista e dunque coltivare l'illusione che il punto di vista ne sia escluso?».146 Una valida risoluzione del problema ci viene proposta da Ejzenštejn sul finire degli anni Venti e dai suoi scritti dedicati al progetto per un film, mai realizzato, proprio sul Capitale di Karl Marx. Proprio da questa inevitabile internità bisogna partire, secondo il regista sovietico, per ricreare sullo schermo l'andamento dialettico dell'opera marxiana e, nello specifico, dagli oggetti, dalla merce. Ejzenštejn propone così tutta una serie di associazioni per immagini che, partendo dalla più banale delle realtà, interroga la natura stessa degli oggetti inserendoli in una catena concettuale che, dalla minestra preparata dalla moglie all'operaio di rientro dal lavoro, simbolo di quel minimo sollievo che placa il bisogno di svolta sociale, porta ad una flotta di navi inglesi che affondano:

Si possono avere due temi intersecantisi per associazione: la moglie che cuoce la minestra e il marito che torna a casa. L'associazione nella terza parte va (ad esempio) dal pepe col quale lei condisce: Pepe. Caienna. L'isola del diavolo. Dreyfus. Lo sciovinismo francese. Il "Figaro" nelle mani di Krupp. La guerra. Le navi affondate nel porto. (Certamente non in tale quantità!!!) N.B. È bello per la sua originalità il passaggio: pepe – Dreyfus – Figaro. Le navi inglesi affondano (secondo Kushner "103 giorni all'estero"): sarebbe bello ricoprirle col coperchio della pentola.147

146Ivi, pp. 7-8.

147S. M. Ejzenštejn, Come portare sullo schermo il Capitale di Marx, in P. Bertetto (a cura di),

Ejzenštejn, FEKS, Vertov. Teoria del cinema rivoluzionario. Gli anni Venti in URSS, Feltrinelli,

In questo modo, tanto bizzarro quanto geniale, Ejzenštejn intendeva produrre in modo diretto un'effetto di comprensione intellettuale del modo di produzione del capitale, svelando attraverso questa serie di associazioni libere la "vita" segreta delle merci.

Torniamo dunque all'oggetto del nostro problema e cioè, in che modo il cinema contemporaneo affronta la sfida del raccontare per immagini un argomento tanto astratto e sfuggente come quello della crisi del capitalismo finanziario. I tanti film che in questi ultimi anni hanno, direttamente o indirettamente, trattato questo tema si possono schematicamente suddividere in tre categorie: film che mettono in scena la crisi economica; film che metaforizzano la crisi economica; film che risentono sintomaticamente della crisi economica. Alla prima categoria appartengo per esempio Margin Call (Id., 2011) di J.C. Chandor e il film per la televisione Too Big to Fail – Il crollo dei giganti (Too Big to Fail, 2011) di Curtis Hanson che, concentrandosi entrambi sugli avvenimenti che hanno portato al disastro dei mutui subprime e quindi all'innesco della crisi delle borse occidentali, propongono una narrazione diretta; il primo adottando lo stile proprio del thriller a sfondo economico, il secondo concentrandosi maggiormente sulla drammatizzazione della vicenda. Tra i film che invece propongono una metaforizzazione della crisi economica, il caso più interessante è sicuramente quello proposto in Contagion (Id., 2011) da Steven Soderbergh il quale ci narra di un letale virus biologico allo scopo di parlare, per interposto racconto, dei titoli tossici e dei virus della Borsa internazionale.148 La terza categoria, composta da

quel cinema che in un certo qual modo - anche inconsciamente - risente della crisi economica, è difficilmente descrivibile. Roy Menarini ad esempio inserisce in questa categoria L'alba del pianeta delle scimmie (Rise of the Planet of the Apes, 2011) di Rupert Wyatt, in quanto film che «reca tracce evidenti di della sfiducia verso la finanza e porta con sé tangibilmente discorsi [...] sulle forme della società sconvolte dalla crisi, sulle organizzazioni comportamentali animalesche che essa produce, sul confronto tra mercato e legge della giungla e così via».149

Vediamo ora in che modo un film come Cosmopolis (Id., 2012) di David Cronenberg si pone dinanzi al problema della rappresentazione della crisi economica contemporanea, collocandosi al di fuori delle tre categori sopra citate. Più che al di fuori, per la precisione, il film di Cronenberg sembrerebbe infatti situarsi in quell'interstizio fra rappresentazione diretta e indiretta che rende difficile, e infruttuoso, un qualsiasi tipo di catalogazione. Ma andiamo con ordine. Eric Packer è un giovane uomo d'affari che grazie alla sua abilità nella speculazione finanziaria è diventato uno degli uomini più ricchi al mondo. Una mattina, quasi inspiegabilmente, decide di attraversare tutta Manhattan a bordo della sua lussuosissima limousine super accessoriata per recarsi da un anziano e fidato barbiere e farsi aggiustare il taglio dei capelli. New York è però bloccata dalla visita del Presidente degli Stati Uniti, da una violenta manifestazione cittadina e dal maestoso funerale di un celebre rapper; il traffico è costretto ad avanzare a passo d'uomo. A bordo della sua limousine Eric fa tutto: incontra il suo socio in affari (giovane quanto lui), la sua consulente di teoria economica; fa sesso con la sua manager Didi, con la quale discute sull'acquisto di un Rothko che

presto sarà sul mercato; si sottopone alla sua quotidiana visita medica scoprendo di avere la prostata asimmetrica. Nel frattempo è turbato da una doppia minaccia: un'azzardato investimento sullo yuan cinese rischia infatti di mandare in frantumi il suo impero economico, mentre si fanno sempre più concrete le indiscrezioni che lo vedono come bersaglio di un presunto attacco alla sua vita.

Portando sullo schermo il profetico (e apparentemente infilmabile) romanzo di Don DeLillo,150 Cronenberg plasma un'opera che assume le stesse caratteristiche dell'oggetto che intende descrivere. Seguendo cioè quella logica dell'astrazione che come abbiamo visto è insita nella natura stessa del mondo della finanza, luogo per eccellenza dell'astratto e dell'immateriale.151 Lo fa principalmente "limitandosi" ad isolare fedelmente quasi tutti i dialoghi presenti nel libro, perché la parola sembra essere l'unica via possibile per dare anche solo una parvenza di «concretezza all'incorporeità della crisi».152 Le parole in Cosmopolis non hanno però lo scopo pretenzioso di "spiegare" la crisi ma, al contrario, quello di "fraintendere la crisi":153 i vari dialoghi che si susseguono all'interno della limousine infatti, sono caratterizzati da una sostanziale centralità falsatà, da una necessaria asimmetria tra significante (parola) e significato (crisi finanziaria). Se leggi della finanza e crisi economica sono concetti astratti e impossibili da descrivere non resta che restituirne un'immagine palesandone la loro congenita indeterminatezza.

Scandita dai continui colloqui tra Eric e i vari personaggi che incontra per strada,

150D. DeLillo, Cosmopolis, Einaudi, Torino, 2003. Nei contenuti speciali inseriti nel DVD del film, Cronenberg afferma di aver scritto la sceneggiatura in soli sei giorni, concentrandosi principalmente sulla trascrizione fedele dei dialoghi.

151Cfr. P. Bianchi, La finanza e il suo corpo, «Cineforum», LII, 515 (2013), p. 9. 152R. Menarini, Crisi dell'immaginario, immaginario della crisi, cit., p. 7. 153Ivi.

la narrazione sembra seguire l'apatico "movimento da fermo" della limousine.154 L'azione è apparentemente inesistente e anche nel finale, quando dovrebbe raggiunge il grado massimo di intensità, risulta invece scaricata da qualsiasi valenza drammatica. Questo perché «ormai il denaro ho perso la sua forza narrativa, come l'ha persa la pittura tanto tempo fa», come afferma Vija Kinsky, consulente di teoria economica di Eric, in una delle conversazioni più illuminanti di tutto il film. Assenza di pathos, dunque, assenza di progressione drammatica. Catastrofe senza catarsi155 che si manifesta in un'assoluta unità di tempo e di luogo, con Eric che abbandona la sua vettura, sorta di seconda pelle e corazza protettiva, solo per incontrare sua moglie Elise; per andare a letto con Kendra, una delle sue guardie del corpo e, alla fine del film, per affrontare il suo ineluttabile destino. Momenti in cui si estranea dalla realtà astratta della finanza rappresentata dall'incessante scorrere dei numeri sui luminosi schermi, per rispondere alle più concrete esigenze del suo corpo. Un corpo che, al pari del tempo e dello spazio, rischia di essere inglobato nel vortice numerico del capitale - «6% di grasso corporeo» - e che cerca nel dolore le ultime tracce di una tangibile esistenza. Lo dimostrano i continui gesti autolesionisti: la richiesta di venire folgorato con il taser, l'immotivata uccisione del capo della sua scorta, lo sparo sulla mano autoinflittosi nella scena finale.156

Nel suo viaggio verso la fine Packer si scopre vulnerabile. La sua innata capacità di prevedere e gestire gli imprevedibili e ingestibili andamenti del capitale si

154Cfr. A. Cappabianca, Moto da fermo, «Filmcritica», LXII, 625/626 (Maggio/Giugno 2012), p. 241.

155Ivi, p. 243.

rivela difettosa: lo yuan157 sta sorprendentemente crescendo, diversamente da quanto lui aveva pronosticato. Nel frattempo scopre di avere la prostata asimmetrica, una piccola e imprevedibile imperfezione che Eric, abituato a sondare quotidianamente la sua salute personale, interpreta come l'infausto segno di una catastrofe imminente. Potere finanziario che quindi si incarna nella figura del giovane miliardario: sprezzante, gelido, assolutamente intangibile e isolato dalla realtà. Una realtà ridotta ad immagine e osservata dai grandi vetri della limousine come fossero schermi al plasma; una realtà da tenere costantemente sotto controllo, da possedere, da acquistare, come la splendida Cappella Rothko che Eric vuole prepotentemente trasferire nel suo opulento appartamento a New York: «Ma il pubblico deve vederla», insiste Didi cercando di farlo ragionare, «Che se la compri, che offra più di me», risponde Eric.

Un sistema capitalistico finanziario che quindi svela la sua natura critica, asimmetrica, a dimostrazione del fatto che le crisi economiche non vanno viste come un'eccezione all'interno dei complessi ingranaggi dell'organismo finanziario, ma anzi come sua cifra qualificante insita nel suo profondo che inevitabilmente e imprevedibilmente si manifesterà dal suo interno,158 come la prostata asimmetrica di Eric.

Partendo dalla scoperta dell'"errore", dalla rivelazione del dettaglio che intacca la perfetta funzionalità del sistema, Eric si spinge in un viaggio apparentemente insensato che gradualmente lo spoglierà dalle sue certezze intaccandone ogni sua

157Nel romanzo si fa in realtà riferimento allo yen giapponese e non allo yuan cinese, modifica che il regista canadese ha apportato per "attualizzare" maggiormente il già profetico testo di DeLillo. Cfr. J. Romney, A Womb with a View, «Sight & Sound», LXXX, (Luglio 2012), p. 17. 158Cfr. P. Bianchi, Ejzenštejn occupa Wall Street, cit., p. 6.

parvenza – lo smarrimento della cravatta e della giacca, la torta in faccia lanciatagli dal Pasticciere Terrorista, la limousine vandalizzata e resa irriconoscibile dai rivoltosi – e lo porterà a una tanto tragica quanto inesorabile fine. Una fine incarnata nella misera figura di Benno Levin, ex dipendente di Eric caduto in miseria perché incapace di "tenere il passo" del bath thailandese: «Io adoravo il bath! Ma il tuo sistema è così micronizzato che io non tenevo il passo, non riuscivo a trovarlo, il suo valore era infinitesimale!». La sua incapacità di gestione e dominio del cybercapitale sfocia in un moto di follia e vendetta che si compirà solo con la morte di Eric, colui che ai suoi occhi impersona tutto il male insito nella finanza contemporanea. Benno dunque è una vittima dell'indefinibiltà del capitale; così come Eric, reo di essersi illuso di poter controllare e padroneggiare quest'indefinibilità: i due non sono altro che due opposte faccie della stessa medesima medaglia.

Il merito di un film come Cosmopolis risiede proprio nell'ammettere e manifestare quel senso di impotenza e inadeguatezza che il cinema incontra quando si pone l'obiettivo di rappresentare, attraverso le immagini, un'oggetto tanto sfuggente e inesprimibile quanto quello del capitalismo finanziario e, nello specifico, della sua crisi contemporanea. Per fare ciò non può che seguire la strada dell'alterazione interiore e dell'astratto perché astratto è il linguaggio del potere.159 Solo prendendo atto di questa strutturale impossibilità il cinema – senza commettere lo stesso peccato di presunzione di Eric - sarà in grado di far emergere un quadro coerente ed efficace del contesto e della realtà in cui siamo immersi, realtà alla quale le leggi del capitalismo finanziario ha già reso problematica, se non impossibile, la

sopravvivenza di qualunque senso.160

Una strada di senso completamente opposto rispetto a quella intrapresa da film come i già citati Margin Call e Too Big to Fail che propongono un'esplicazione della crisi puntando sull'esposizione e la drammatizzazione di fatti realmente accaduti; approccio in parte riscontrabile anche in quello che ad oggi risulta essere l'ultimo esempio di "cinema della crisi", The Wolf of Wall Street (Id., 2013). Proponendo oggi una vicenda avvenuta trent'anni fa, Scorsese è consapevole del carattere indefinibile e irrapresentabile del problema e si concentra esclusivamente sulla vita di Jordan Belfort e della sua società di brokeraggio, mettendone in scena vizi, perversioni e scandali. Il film ne segue le "eroiche gesta" contenute nella sua autobiografia, dal primo giorno a Wall Street – già un presagio di sventura dato che coincide col tragico black monday del 19 ottobre 1989 – alla resa dei conti con la giustizia. Nel mezzo, un continuo susseguirsi di feste, sperpero di denaro, sesso e droga. Tanta droga: Quaalude, ecstasy, cocaina, crack, antidepressivi. Quella di Belfort è una vera e propria ossessione, superata solo da quella per il denaro. È questa l'unica e vera droga del film, non quella che il protagonista assume sulla scrivania del suo ufficio, ma la banconota verde che costantemente arrotola per aspirare quantità sconsiderate di polvere bianca.161 Ed è proprio in questa dicotomia tra denaro e droga che risiede la chiave di lettura di tutto il film: l'accumulo di ricchezza porta ad una incolmabile, inappagabile asuefazione che a sua volta porterà all'inevitabile collasso, allo "scoppio della bolla".162

160Cfr. A. Cappabianca, Moto da fermo, cit., p. 243.

161Cfr. L. Barnabé, Lupus in fabula, «Duellanti», 85 (2013), p. 12.

162Questo forte legame viene esplicitamente illustrato all'interno del film dalle parole di Mark Hanna, trader finanziario e primo "mentore" di Jordan Belfort, che ci fanno capire quanto la droga sia intimamente connessa al denaro non perché quest'ultimo ne facilita il consumo, ma viceversa perché risulta indispensabile per produrlo. Cfr. M. Toscano, Soldi, spinaci e sogni,

Come in Cosmopolis, anche in The Wolf of Wall Street si parla molto, quasi sempre si urla. Ma la parola anche in questo caso non ha alcuna valenza esplicativa. In molti casi è lo stesso Jordan a rivolgersi direttamente allo spettatore per guidarlo, cercando di istruirlo, alla degenerata "giungla finanziaria" - popolata da scimmie, nani e pesci rossi – perdendo però subito la pazienza e rinunciandoci senza troppi scrupoli: «...lo so che non seguite quello che dico, è logico e non ha importanza. La vera domanda è questa: tutto questo era legale?».

Se Cronenberg dunque offre una fotografia, astratta e alterata, della situazione critica della finanziaria globale, che inevitabilmente si rispecchia in quella sociale in cui viviamo; Scorsese ne espone le radici, le sue origini ambigue e ipocrite, proiettando il suo - e il nostro - sguardo là dove tutto ebbe inizio, in America, trent'anni fa.

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