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Segnali di una fine. Un'autodiagnosi del cinema contemporaneo in tre film

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione...2

Cap. 1 – L'inizio della fine: Il contesto postmoderno...3

1.1 Di cosa parliamo quando parliamo di postmoderno...3

1.2 Il cinema postmoderno...23

Cap. 2 – Tra convergenza e digitalizzazione: il panorama cinematografico contemporaneo...48

2.1 Immagini in esilio...48

2.2 Non solo sintesi...59

Cap. 3 – Tre film per un'autodiagnosi della fine...77

3.1 L'irrapresentabilità della crisi economica: Cosmopolis di David Cronenberg...77

3.2 Elaborazione del lutto: Holy Motors di Leos Carax...88

3.3 Il tempo della fine: Il cavallo di Torino di Béla Tarr...100

Conclusioni...114

Bibliografia...115

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Cap. 1 – L'inizio della fine: Il contesto postmoderno

1.1 Di cosa parliamo quando parliamo di postmoderno.

Il dibattito storico-politico-culturale sul postmoderno oggi, agli "esordi" del terzo millennio, sembra essersi assopito. L'oggetto che per decenni ha fatto scorrere litri e litri di inchiostro, che ha prodotto numerose discussioni tra studiosi e critici dei più disparati campi del sapere – dalla filosofia all'arte, dalla politica alla sociologia – sembra aver esaurito la sua influenza e la sua stagione sembra essersi conclusa. Così come la maggior parte di noi tende a dimenticarsi e a rimuovere un determinato trauma, un brutto incubo, si ha l'impressione che ora nessuno voglia più parlare di postmoderno. Ma capire se oggi siamo davvero di fronte a una nuova stagione culturale, a una nuova fase storica, risulta difficile e improduttivo se prima non si comprende fino in fondo il cambiamento epocale avvenuto col postmoderno.

Disegnarne un quadro definito ed esaustivo risulta ancora oggi molto complesso. Gli ambiti da esso percorso, i vari modi del suo manifestarsi e la varietà di teorie espresse (spesso contradditorie) rendono una definizione univoca e oggettiva alquanto problematica. Andiamo dunque per ordine e cerchiamo di definire, per il momento, almeno il quadro cronologico e geografico del postmoderno.

Il termine postmoderno viene usato per la prima volta dallo scrittore e critico spagnolo Federico de Onís negli anni trenta per indicare quel movimento letterario sviluppatosi in America latina in forte contrapposizione al modernismo.1 In questo caso però il termine postmoderno non ha la stessa valenza che acquisterà

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parecchi anni dopo, a partire dagli anni settanta.

Parte della critica e degli studiosi, infatti, fa coincidere la svolta culturale del postmoderno con la fine degli anni cinquanta, con l'avvento di nuove modalità di produzione, di nuove tecnologie, con la rivoluzione dei mezzi di comunicazione, all'indomani del secondo conflitto mondiale.2 C'è chi invece, come ad esempio David Harvey, vede nei vari movimenti controculturali e antimodernisti nati in America e in Europa a cavallo tra gli anni sessanta e settanta il terreno fertile in cui si è sviluppato il postmoderno.3 All'interno di questa periodizzazione – alquanto breve se si pensa, come si è già accennato, che con l'inizio degli anni duemila l'esperienza postmoderna sembra essersi conclusa – alcuni studiosi hanno suggerito una chiara e dettagliata scansione cronologiaca, suddivisa in vere e proprie fasi. Prendo come esempio la fortunata sintesi eseguita dal critico letterario italiano Remo Ceserani che propone una suddivisione dell'"avventura" postmoderna in cinque fasi.4

La prima, come abbiamo già visto, coincide con quel senso diffuso di stanchezza, ripiegamento, esaurimento delle forme espressive della modernità che caratterizza le società occidentali alla fine degli anni cinquanta. La seconda fase invece va rintracciata in quei cambiamenti e in quell'uragano di novità che a partire dagli anni sessanta investono i gusti, il costume e le espressioni artistiche. La pop art di Warhol e Rauschenberg, la musica sperimentale di John Cage, la letteratura beat di Kerouac e Ginsberg, i romanzi di Vonnegut e Pynchon, il cut-up di William S. Burroughs: «forme diverse, ma convergenti, di aperta ribellione contro

2 Cfr. R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, Torino 1997, pp. 9-10. 3 Cfr. D. Harvey, La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano 1993, pp. 55-56.

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l'espressionismo astratto, le ironie snobistiche, le geometrie formali, i razionalismi architettonici e le serialità musicali dell'ultima fase, ormai accademica del moderno».5 È però nella terza fase che il dibattito sul postmoderno si fa più acceso e spinoso. Con gli anni settanta infatti il termine postmoderno diventa di uso comune in tutto il mondo, in tutti gli ambiti e comincia a suscitare un senso di ambiguità, riscontrata per esempio a partire dal termine stesso. Se infatti letteralmente esso contiene un'accezione di posteriorità rispetto all'epoca moderna, il suo significato non riguarda una determinazione temporale e cronologia, cioè ad indicare la stagione che viene dopo quella moderna. "Postmoderno" indica piuttosto un diverso modo di rapportarsi al moderno che non è né quello dell'opposizione, né quello del superamento: si dovrà parlare in quei casi di "antimoderno" e di "ultramoderno".6 Ed è proprio il riferimento al moderno all'interno del suo nome il primo sintomo di ambiguità sottolineato da Ihab Hassan: «Il termine postmoderno non è soltanto goffo e rozzo; esso evoca quello che vorrebbe sorpassare e sopprimere, cioè lo stesso modernismo. Il termine ospita dunque il suo nemico dentro le proprie mura, al contrario di termini quali Romanticismo e Classicismo, Barocco e Rococò».7

A partire dalla quarta fase (siamo sempre negli anni settanta) al termine postmoderno ne viene affiancato un altro, altrettanto discusso e sfuggente, inaugurato dal sociologo statunitense Daniel Bell, quello di "società postindustriale"; spostando quindi il dibattito in ambito socio-economico. La

5 Ivi, p. 31.

6 Cfr. G. Chiurazzi, Il postmoderno, cit., p. 3.

7 I. Hassan, La questione del postmoderno, in P. Carravetta e P. Spedicato (a cura di),

Postmoderno e letteratura. Percorsi e visioni della critica in America, Bompiani, Milano,

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svolta del postmoderno, infatti, non ha influenzato soltato quell'aspetto della società rintracciabile nell'immenso calderone della cosiddetta "industria culturale"; abbiamo già detto come questa ha interessato tutti gli ambiti della vita sociale occidentale, compreso quindi anche quello industriale e le sue modalità di produzione. Si ha quindi, a partire dagli anni settanta, un'importante trasformazione nella struttura economico-produttiva rintracciabile, ad esempio: in una forte internazionalizzazione del capitale, del mercato del lavoro, delle imprese e della loro collocazione; in una produzione di beni sempre più "leggeri" e immateriali, sostituendo l'industria "pesante"; nel boom della produzione informatica e informatizzata; nelle grandi macchine e nella manodopera specializzata che devono lasciare spazio a sistemi integrati di automazione; nella nascita del fenomeno della delocalizzazione.8 È la fine del modello di organizzazione produttivo inaugurato negli anni venti e noto sotto il nome di "fordismo". Si è difatti passati da una produzione di massa di beni di consumo durevoli all'interno di mercati in cui vi era una sostanziale coincidenza fra produzione e consumo, ad una crisi dovuta alla saturazione dei principali beni di consumo che hanno portato le industrie, non più a produrre merci ma consumatori.9 In questo nuovo contesto economico-industriale, conosciuto come "postfordismo" (troviamo ancora una volta il prefisso post), l'assetto produttivo è sempre più caratterizzato dal ricorso massiccio alle tecnologie informatiche e da una predilezione verso il software, a discapito dell'hardware.10

8 Cfr. R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, cit., pp. 24-25. Ceserani cita come esempi lo spostamento a Singapore di parte della produzione della Olivetti e l'installazione di un'avanzatissima fabbrica della Texas Instrument nei pressi di Avezzano, nell'abruzzese. 9 Cfr. G. Canova, L'alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo,

Bompiani, Milano, 2000, pp. 17-19.

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Nell'analisi di Bell troviamo una delle più forti concezioni negative e apocalitiche nei confronti del postmoderno che, col suo attacco violento e totale contro la tradizione, mette in forte crisi quello che avrebbe dovuto essere, secondo l'ideale marxista, il vero agente del cambiamento, e cioè la classe operaia. Secondo lo studioso statunitense però la posizione del fenomeno postmoderno non è una posizione di assoluta antitesi e contrapposizione rispetto al pensiero moderno: egli vede infatti il postmoderno come continuazione e dilatazione di certi aspetti della modernità, come ad esempio le spinte ribellistiche proprie della cultura bohémiens e anticonformista, che però in epoca postmoderna abbracciano fasce sociali più larghe ed influenzano, non solo le culture e sottoculture artistiche e giovanili, ma anche i più ampi gruppi sociali.11

C'è un romanzo del 1997, scritto da un maestro della letteratura postmoderna Don DeLillo, nel quale si trova un'efficace e puntuale analisi dei combiamenti socio-economici appena citati. Il romanzo si intitola Underworld e lo si può descrivere come un gigantesco affresco di un'America disillusa e frustrata, in un arco di tempo che va dal 3 ottobre del 1951 e si conclude nei primi anni novanta, attraversando così l'intera esperienza postmoderna. Vale dunque la pena riportare un estratto dalla prima pagina dell'ultimo capitolo del romanzo; capitolo che porta l'eloquente nome di Das Kapital:

Il capitale elimina le sfumature di una cultura. Investimenti esteri, mercati globali, acquisizioni societarie, il flusso di informazioni dei media

Bologna, 2009, p. 10.

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transnazionali, l'influenza attenuante del denaro elettronico e del sesso virtuale, denaro mai passato di mano e sesso sicuro al computer, la convergenza del desiderio dei consumatori – non che la gente voglia le stesse cose, necessariamente, ma vuole la stessa gamma di possibilità di scelta [...]. Ci sono cose che svaniscono e scompaiono, stati che si disintegrano, catene di montaggio che si accorciano e interagiscono con catene in altri paesi. Questo è ciò che il desiderio sembra richiedere. Un modo di produzione che soddisfi i bisogni culturali e personali, non le ideologie massificanti della guerra fredda [...]. Man mano che il desiderio tende a differenziarsi, facendosi intimo e suadente, la forza dei mercati convergenti produce un capitale instantaneo che schizza via attraverso gli orizzonti alla velocità della luce, puntando a una certa uniformità furtiva, a un appiattimento di particolari che interessa ogni cosa, dall'architettura al tempo libero, al modo di mangiare, dormire e sognare.12

Con un'acutezza da saggista e con il suo tipico "stile" postmoderno, Delillo non solo mette in risalto i cambiamenti sociali, culturali ed economici vissuti in America negli ultimi cinquant'anni del secolo scorso, ma pone le basi per descrivere, come farà nei romanzi successivi e come vedremo più avanti, una nuova realtà sociale, la nostra.

Con gli anni ottanta arriviamo alla quinta ed ultima fase di questo bere excursus cronologico e il termine postmoderno ormai dilaga e interessa sempre più svariati campi. Si registrano tantissimi post: postcontemporaneo, postciviltà, postfordismo, postcristianesimo, postumanesimo, postnucleare, postpositivismo,

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poststrutturalismo, postmarxismo, postminimalismo, postmaschilismo ecc.13 In questa moltitudine di discorsi risulta ora evidente quanto risulti difficile e fuorviante inquadrare il postmoderno in una griglia esaustiva e ben definita. C'è, come abbiamo visto, chi si pone nei confronti del postmoderno con un atteggiamento di sfiducia e lo vede come un fenomeno negativo; e c'è chi invece mette in evidenza il suo spirito liberatorio e lo giudica positivamente.

Ma di cosa parliamo quando parliamo di postmoderno? Sono rintracciabili dei caratteri comuni utili a designare e definire un "oggetto" o un "pensiero" postmoderno?

Tra i numerosi studiosi che hanno cercato di dare una risposta definita e definitiva ai succitati quesiti, dando un'interpretazione tra le più complessive, Fredric Jameson è sicuramente il più acuto e sorprendente. Personaggio di rilievo tra la critica letteraria di stampo marxista, inizia ad occuparsi di postmoderno attorno al 1984 quando, partendo dalle pagine della rivista New Left Review, da alle stampe il suo testo più importante ed influente, dal titolo Il postmoderno, o la logica

culturale del tardo capitalismo.

Prendendo in considerazione i campi del sapere più disparati – l'arte figurativa, la letteratura, l'architettura, la musica – lo studioso statunitense legge il postmoderno come un vero e proprio rifiuto ideologico ed estetico nei confronti del modernismo, non identificandolo come un vero e proprio stile, ma piuttosto come una dominante culturale che accorda al suo interno la presenza e la coesistenza di svariate caratteristiche molto diverse e tuttavia subordinate.14

13 R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, cit., p. 63.

14 F. Jameson, Il Postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti, Milano 1989, p. 13.

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Tra le varie caratteristiche costitutitive individuate da Jameson, e in seguito riconosciute e accettate da molti altri studiosi, la prima che va presa in considerazione e senza dubbio legata a una certa mancanza di profondità dell'oggetto artistico, del prodotto postmoderno. Cosa differenzia, ad esempio, il quadro Diamond Dust Shoes di Andy Warhol del 1980, dal dipinto Un paio di

scarpe di Vincent Van Gogh realizzato un secolo prima? Cosa rende il primo un

esemplare di arte postmoderna, a confronto col secondo, un'opera che appartiene ormai alla "tradizione" tardo moderna? Il soggetto dei due quadri è lo stesso: un paio di scarpe; ballerine per Warhol, scarponi da contadina per Van Gogh. Se un occhio inesperto riesce facilmente e "superficialmente" ad individuare le differenze tra le due opere nello stile, nella tecnica, Jameson accosta i due quadri proprio per mettere in evidenza la suddetta mancanza di profondità dell'oggetto postmoderno. Gli scarponi da contadina rendono possibile diverse letture ermeneutiche, costituiscono l'indizio, il sintomo, di una realtà più vasta e ricreano lentamente al loro interno l'intero mondo di oggetti perduto che in passato ne costituiva il contesto vissuto.15

Le Diamond Dust Shoes di Warhol, invece, rendono impossibile, impediscono, un qualsiasi rapporto ermeneutico; non c'è più, per l'osservatore, la possibilità di ricomporre cioè, dall'immagine frammentata, un intero.16 In questa «raccolta casuale di oggetti morti, privati del loro precedente mondo vitale come il mucchio di scarpe rinvenuto ad Auschwitz»17, a livello contenutistico, abbiamo a che fare con qualcosa strettamente legato alla mercificazione e, nello specifico, a quel

15 Cfr. Ivi, pp. 21-22.

16 Cfr. R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, cit., p. 79. 17 F. Jameson, Il Postmoderno, cit., p. 23.

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feticismo delle merci proprio del passaggio al tardo capitalismo, alla quale Warhol sembra reagire con l'arma dell'ironia.18 Detto questo, potremmo riassumere il concetto di superficialità postmoderna prendendo atto del fatto che, con essa, non ha più senso trovare un significato latente: in una dimensione che privilegia l'estetica della pura superficie, l'arte non rinvierebbe più a una tradizione culturale, a un'alterità invisibile, delegando esclusivamente al visibile l' unica legittimazione del suo esistere.19

Come abbiamo accennato precedentemente, risulta difficile riscontrare all'interno del panorama postmoderno uno stile unitario e riconoscibile, per il semplice motivo che esso non esiste: si nega definitivamente la possibilità di un'originalità di ordine espressivo, lasciando all'estetica il solo compito di ricollocare immagini preesistenti della società, della cultura e dell'arte.20La spinta innovativa e il culto del nuovo portata avanti, ad esempio, dalle vari esperienze avanguardistiche del primo Novecento, si è ora esaurita. Il mito del progresso, che dominava l'ideologia modernista, si rivela come una mera utopia irrealizzabile e l'aura dell'artista che produce viene eliminata, passando dall'immaginario del genio che produce, a quello assolutamente antieuratico dell'artista che riproduce.21

La spinta rivoluzionaria della avanguardie moderniste va smorzandosi in quanto, secondo lo studioso tedesco Michael Köhler, a una fase di sperimentazioni e innovazioni ne succede una meno eroica eppur necessaria di consolidamento: «sulla base del noto schema di rivoluzione e reazione il Postmoderno sarebbe

18 Cfr. R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, cit., p. 79. 19 Cfr. M. Fadda, Il cinema contemporaneo, cit., p. 10. 20 Cfr. Ivi.

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appunto solo una fase di crescente conservatorismo»;22 ed è appunto questo uno dei suoi aspetti più criticati.

Si giunge così ad un'arte combinatoria, ad un gioco di citazioni, ad un collage, che non obbedisce più a nessuna regola di successione logica e lineare del tempo. La concezione stessa di Storia e i rapporti col passato vengono definitivamente stravolti: «il passato è un museo, un contenitore di stili tutti "contemporanei", che possono essere liberamente rivisitati, ma questa rivisitazione non è mera ripetizione, è già di per se una differenza».23 Ci troviamo di fronte a quella pratica, caratterizzante la produzione artistica postmoderna, che Jameson identifica sotto il nome di pastice:24 il passato come referente viene così messo tra parentesi, completamente cancellato e a noi non restano altro che testi; non più opere, ma testi. Questa differenza di approccio nei confronti del passato, che il postmoderno ha rispetto al moderno, viene perfettamente sintetizzata da un'affascinate e puntuale metafora; quella del nano posto sulle spalle di un gigante. Tra le tante immagini che animano le vetrate della cattedrale di Chartres, in Francia, ce n'è una che mostra gli evangelisti Giovanni e Marco sulle spalle, rispettivamente, dei profeti Ezechiele e Daniele. Questo simbolico legame tra Antico e Nuovo Testamento verrà ripreso nel XII secolo dal filosofo francese Bernardo di Chartres come sintesi del rapporto tra antichità e modernità, nonché del concetto generale di storia: sulle spalle dell'antico gigante, i moderni nani avanguardistici riescono a vedere un po' più avanti, «sono il punto culminante di uno sviluppo lineare e

22 M. Köhler, "Postmodernismus": una sintesi storico-concettuale, in C. Aldegheri e M. Sabini (a cura di), Immagini del postmoderno, Edizioni Cluva, Venezia, 1983, p. 120.

23 G. Chiurazzi, Il postmoderno, cit., p. 26. 24 Cfr. F. Jameson, Il Postmoderno, cit., pp. 35-38.

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progressivo, di un processo irreversibile e aperto sul futuro».25 Riprendendo dunque l'immagine secolarizzata del nanus positus super humeros gigantis, sull'analisi di quando detto finora, possiamo azzardatamente disegnare l'intera esperienza culturale postmoderna coi tratti di un nano che, posto sull'altra spalla del gigante, ha sì la possibilità di vedere più lontano, verso un progressivo futuro, ma preferisce guardare nella direzione opposta, con fare nostalgico e arguto, verso il passato.

Fine della storia, dunque, come ulteriore caratteristica rintracciabile nel postmoderno. Crollo della temporalità storica e interesse per l'instantaneità. Senso di sfiducia e di abbandono, riassumibile nell'interpretazione proposta da Lyotard, quando definisce come postmoderna l'incredulità nei confronti delle metanarrazioni;26 quei Grandi Racconti, grand recìt, che in epoca moderna erano finalizzati alla legittimazione del sapere politico e sociale: il racconto

illuministico, secondo il quale il sapere è legittimo in quanto favorisce

l'emancipazione della società civile; il racconto idealistico, che vede la scienza come sapere disinteressato, quindi legittimante; e infine, il marxismo, che poneva nelle mani del sapere la forza liberatrice del proletariato, diventano per Lyotard archetipi fondamentali di quella ideologia che, con l'avvento della società informata, della società dei consumi, perdono di coerenza e di valore assiologico: nell'età postmoderna, le legittimazioni non saranno più globali, ma locali; la speranza posta verso una totalità del sapere certa ed assoluta, che trova le sue

25 G. Chiurazzi, Il postmoderno, cit., p. 6.

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radici nel moderno, cessa ora d'esistere.27 «In tale contesto i vecchi poli di attrazione costituiti dagli Stati-nazione, dai partiti, dalle professioni, dalle istituzioni e dalle tradizioni storiche perdono il loro potere di centralizzazione [...]. Ognuno è rinviato a sé. E ognuno sa che questo sé è ben poco». L'analisi di Lyotard, tuttavia, è ben lungi dall'essere pessimista, e infatti continua affermando che:

il sé è poco, ma non è isolato, è coinvolto in un tessuto di relazioni più complesse e mobili che mai. [...] Esso è sempre situato ai "nodi" dei circuiti di comunicazione, per quanto infimi essi siano. [...] E non è mai, e questo vale anche per le posizioni più sfavorite, privo di potere sui messaggi che lo attraversano definendone la posizione, sia che si trovi nella condizione di destinatore, o di destinatario, o di referente.28

Dalle parole del filosofo francese si evince quindi, oltre alla già citata perdita di fiducia nei confronti dell'utopia modernista, la nascita di un nuovo soggetto postmoderno e di una nuova relazione di quest'ultimo col suo tempo, col suo spazio. Se in epoca moderna la vita quotidiana era dominata e organizzata da categorie di ordine temporale, con ad esempio una ben precisa e razionale partizione tra tempo del lavoro e tempo libero, l'esperienza postmoderna è invece segnata dal dominio delle categorie spaziali. Si è dunque passati dalla dimensione diacronia moderna, ad una dimensione sincronica postmoderna.29 Questo

27 Cfr. M. Ferraris, Postmoderno, in C. Aldegheri e M. Sabini (a cura di), Immagini del

postmoderno, cit., pp. 24-25.

28 J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, cit., pp. 31-32. 29 Cfr. F. Jameson, Il Postmoderno, cit., p. 34.

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cambiamento radicale ha portato ad una diversa interpretazione delle coordinate spazio-temporali nella vita quotidiana e, di conseguenza, ad un inevitabile mutazione sociale. Il soggetto alienato protagonista dell'esperienza moderna, più volte rappresentato anche al cinema – basti pensare al Chaplin di Tempi moderni (Modern Times, 1936) o agli operai ghettizzati di Metropolis (Id., 1927) – viene soppiantato dal soggetto schizofrenico postmoderno:

Non possiamo più concepire l'individuo come alienato nel classico senso marxista; perché essere alienati presuppone un senso dell'io coerente e non frammentato da cui essere alienati. È soltanto nei termini di un tale senso dell'identità personale che gli individui possono portare avanti progetti nel tempo, o pensare in modo convincente alla realizzazione di un futuro significativamente migliore del presente e del passato.30

Confinato in un eterno presente, l'individuo postmoderno ha perso la capacità di organizzare il suo passato e il suo futuro in un'esperienza coerente, arrivando a quello che Jameson descrive come "collasso della catena significante", e cioè a quell' «esperienza di Significanti puramente materiali»31 che caratterizzano il soggetto schizofrenico. La nuova esperienza della molteplicità, della serialità della proiezione di sempre nuovi punti di vista porta ad uno spaesamento, uno svuotamento della personalità, al quale il soggetto reagisce con una strana euforia che altera la sua tonalità affettiva caratterizzata da un susseguirsi di "alti e bassi"

30 D. Harvey, La crisi della modernità, cit., p. 74. 31 F. Jameson, Il Postmoderno, cit., p. 55.

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emotivi che non rinviano a nulla: non hanno più una funzione conoscitiva.32 Ancora una volta il cinema può venirci incontro ed aiutarci a comprendere meglio il rapporto ambiguo e conflittuale che il soggetto postmoderno instaura coi nuovi concetti di tempo e di spazio. Prendiamo come esempio un film del 1986, La

mosca (The Fly) di David Cronenberg, regista che, come vedremo

dettagliatamente in seguito, ha dedicato gran parte del suo lavoro alla "mutazione" del soggetto contemporaneo. Il film segue le vicende dello scienziato Seth Brundle e della sua ambiziosa invenzione, che egli stesso definisce fin da subito come «qualcosa che cambierà il mondo e la vita oggi da noi conosciuta». Brundle sta di fatto portando a termire una serie di esperimenti sul teletrasporto mediante delle capsule. Durante il film lo vediamo teletrasportare da una cabina all'altra delle calze di nylon, appartenenti alla giornalista scientifica Veronica Quaief interessata al lavoro dello scienziato; un pezzo di carne e due babbuini, il primo senza successo, il secondo con esito positivo.

Il protagonista del film, che gradualmente si trasforma in antagonista, incarna perfettamente la figura dell'uomo moderno che vede la scienza come unico sapere legittimante, totalizzante e capace, non solo di dominare le leggi della natura come imponeva l'ideale progressista moderno,33 ma addirittura in grado di sovvertire le regole spazio temporali. Brundle si dimostra essere un personaggio statico; esce poco e sembra essere vittima della frammentazione spazio-temporale postmoderna: «soffro l'auto da quando ero bambino. Odio i veicoli», confessa mentre Veronica guida verso il laboratorio del professore. Impossibilitato a

32 Cfr. G. Canova, L'alieno e il pipistrello, cit., p. 11. 33 Cfr. G. Chiurazzi, Il postmoderno, cit., p. 8.

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muoversi nel caotico ed eterogeneo nuovo iperspazio, cerca di raggirare il problema eliminandolo alla radice: grazie al teletrasporto, infatti, spazio e tempo si annullano.

Una sera, per festeggiare l'avvenuto teletrasporto del secondo babbuino, Brundle si ubriaca e, in preda ai fumi dell'alcol e accecato dalla gelosia verso Veronica, decide di provare la sua invenzione personalmente. Si spoglia, avvia il processo di teletrasporto ed entra nella prima capsula, senza però accorgersi della presenza di una mosca all'interno della stessa cabina. La porta si chiude e in pochi secondi il corpo del professore si ritrova nella seconda cabina; il teletrasporto è, apparentemente, andato a buon fine. Per i primi giorni successivi all'esperimento il corpo del professore sembra non aver subito danni percettibili, anzi, il suo fisico sembra contenere una forza ed un energia mai viste prima. Col passare del tempo però Brundle si rende conto che qualcosa è andato storto. Il macchinario da lui inventato ha infatti disintegrato le strutture genetiche dello scienziato e della mosca nella prima capsula, reintegrandole assieme nella seconda. Inizia così un processo di trasformazione in cui il corpo del professore va progressivamente a sfaldarsi, mutandosi in una mostruosa mosca antropomorfa.

Il peccato di presunzione di Seth Brundle viene così punito e a pagarne le conseguenze è il suo corpo; quel corpo che con ansia era alla ricerca di un posto ben definito e rintracciabile, viene ora fatto sparire, pezzo per pezzo, senza alcun rimedio possibile. A tal proposito c'è una scena del film molto significativa; quella in cui un ormai irriconoscibile dottor Brundle si guarda allo specchio e dispone, come in una teca da museo, le diverse parti del corpo che a poco a poco lo

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abbandonano: dei denti, un orecchio e altri "relitti" non identificabili che lo stesso professore descrive come «reperti archeologici in eccesso, manufatti di un'era superata d interesse puramente estetico». Un corpo che pretende di sollevarsi al di sopra di concetti quali quelli di spazio e tempo non può che rinnegare se stesso, e vedere nelle tracce che un tempo lo identificavano come individuo solo una serie di significanti svuotati del loro significato.

L'implicita interpretazione del film qui proposta ci permette quindi di intuire meglio lo stato di smarrimento e di perdita della concezione di sé in cui vive il soggetto postmoderno.

Arrivati a questo punto risulta opportuno fermarsi un attimo, fare il punto della situazione e riepilogare brevemente le varie caratteristiche del postmoderno. Abbiamo visto come l'esperienza postmoderna sia caratterizzata da un'inedita mancanza di profondità e da una nuova estetica della pura superficie; da una decadenza della nozione di stile e dalla conseguente negazione di una possibile originalità di ordine espressivo; dall' avvento della pratica del pastice e del

remake che porta ad una contaminazione fra stili e una riproposizione delle opere

del passato; da un radicale indebolimento della storicità e quindi ad uno stravolgimento delle categorie spazio-temporali.

Prendiamo ora in esame un'ultima caratteristica fondamentale della parabola postmoderna, quella Jamenson vedeva come più importante ed evidente: la cancellazione del confine tra la cultura alta e la cosiddetta cultura di massa o commerciale.34 Con l'ascesa della società dei consumi, con l'ingresso dell'arte nell'affascinante mondo delle merci, con l'invadente industria culturale che satura

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l'intero peasaggio massmediatico, la cultura d'élite si vede costretta a scendere a compromessi con un nuovo contesto culturale dove il rigido aut... aut... modernista viene scalzato dal più giocoso e tollerante et... et... postmoderno. Tutto questo ha portato al fermento di un numero di fenomeni talmente elevato e vasto che risulta, in questa sede, difficilmente riassumibile. Prendiamo dunque in considerazione uno dei risultati più evidenti di questa nuova sensibilità estetica, caratterizzata dalla giustapposizione di elementi incongrui, dall'interfacciamento tra espressioni popolari e colte dell'arte: il camp .35 Il termine camp, che deriva dal

gergo omosessuale maschile, viene adottato da Susan Sontag sul finire degli anni sessanta per illustrare un modo di vedere il mondo come fenomeno puramente estetico e artificiale, privilegiando forme artistiche che, rapportandosi con elementi della cultura di massa e popolare, mettono in risalto lo stile rispetto al contenuto. «Il camp si caratterizza per un uso consapevole di quell'estetizzazione generalizzata dell'ambiente inclusa nella dimensione del kitsch, e con la sua tensione alla trasfigurazione del banale e il suo gusto per il citazionismo e l'ibrido anticipa le forme estetiche che saranno tipiche dell'arte propriamente postmoderna degli anni a venire».36

A rischio di risultare fin troppo schematici, su un'argomento che per sua natura si svincola da qualsiasi tentativo di semplificazione, si ripropone di seguito il comunque interessante schema che Hassan, tra i primi teorici del postmoderno, ha stilato con l'intento, tutt'altro che superficiale, di mettere a confronto moderno e postmoderno contrapponendone i rispettivi caratteri:37

35 Cfr. M. Fadda, Il cinema contemporaneo, cit., p. 9. 36 Ivi.

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Modernismo Postmodernismo romanticismo/simbolismo

forma (congiuntiva, chiusa) finalità progetto gerarchia controllo/logos oggetto d'arte/opera finita distanza creazione/totalizzazione/sintesi presenza concentrazione genere/confine semantica paradigma ipotassi metafora selezione radice/profondità interpretazione/lettura significato leggibile narrazione/grande historie codice principale sintomo tipo genitale/fallico paranoia origine/causa Dio Padre metafisica determinatezza trascendenza patafisica/dadaismo

antiforma (disgiuntiva, aperta) gioco caso anarchia finimento/silenzio processo/performance/happening partecipazione decreazione/decostruzione/antitesi assenza dispersione testo/intertesto retorica sintagma paratassi metonimia combinazione rizoma/superficie controinterpretazione/fraintendimento significante scrivibile anti-narrazione/petite historie idioletto desiderio mutante polimorfo/androgino schizofrenia differenza-differenza/traccia Spirito Santo ironia indeterminatezza immanenza

Analizzando la tabella di Hassan, portando a termine la nostra breve escursione all'interno del postmoderno, è ben chiaro il distacco, il rifiuto ideologico, nei confronti del moderno. Come abbiamo già visto, aspetti come quello di gioco, ironia, schizofrenia soppiantano i corrispettivi moderni della finalità, della metafisica e della paranoia, portando diversi studiosi, come Huyssens e Aronowitz, a schierarsi in sua difesa: l'aspetto liberatorio, e quindi positivo, del

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pensiero postmoderno si manifesta, ad esempio, nella sua preoccupazione verso le diversità, nella sua apertura nei confronti dei nuovi movimenti come quello femminista, omosessuale, ecologista.38

Sono in molti infatti a trovare nella ferrea ideologia modernista non poche ambiguità e contraddizioni, esemplificate perfettamente dagli orrori di Auschwitz e Hiroshima. A tal proposito risulta interessante, in quanto meno drastico, il pensiero di Harvey quando sostiene «che vi è più continuità che differenza fra l'ampia storia del modernismo e il movimento chiamato postmodernismo», vedendo quest'ultimo come «un tipo particolare di crisi all'interno del primo».39 Iniziamo dunque a porci qualche domande rispetto al cinema: quale forma espressiva figlia della modernità, anche il cinema ha subito la crisi del suo tempo? Se sì, in quali forme essa si presenta?

Cercheremo di rispondere a questi problemi il prima possibile, prima però dobbiamo prendere in considerazione un aspetto del discorso sul postmoderno che abbiamo, volontariamente, fino ad ora tralasciato; un campo che è stato teatro delle discussioni più accese e interessanti sull'argomento: l'architettura.

Prendere in esame l'intero dibattito attorno all'architettura postmoderno risulta essere, in questa sede, alquanto dispensioso e improduttivo; ci limiteremo a prendere in considerazione gli aspetti principali e, soprattutto, pratici in relazione al nostro oggetto di studio che è il cinema.

Alle ore 15:32 del 15 luglio del 1972. È in quel preciso istante che l'architetto Charles Jencks fa coincidere la "morte" dell'architettura moderna, del new

38 D. Harvey, La crisi della modernità, cit., pp. 67-68. 39 Ivi, pp.146-147.

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urbanism, e la successiva nascita del movimento postmoderno. Jencks fa

provocatoriamente riferimento alla demolizione del complesso Pruitt-Igoe a Saint Louise nel Missouri. Questo evento segna simbolicamente, secondo i sostenitori del postmoderno, la definitiva liberazione dalla gabbia e dai dogmi imposti dal

diktat modernista, rappresentato emblematicamente dal complesso abitativo

progettato da Le Courbusier e demolito per la sua, paradossale, inabitabilità. All'autoritarismo dei padri, gli architetti postmoderni rispondono con un atteggiamento più tollerante. Questo intende Robert Venturi quando, nel libro-manifesto Imparando da Las Vegas, invita i suoi colleghi ad assimilare il più possibile dai paesaggi popolari, dalle periferie, dalle zone commerciali e ad abbandonare gli ideali astratti, teorici e dottrinali:40

ogni architetto, ogni artista apprende da fonti numerose e modelli diversi, coscentementeo incoscientemente, nelle diverse fasi della sua attività e io non credo che si possa affermare o partire dalla premessa che certe fonti sono "giuste" e altre no [...], credo che un architettura sia tanto più ricca e variata quante più fonti un architetto possiede; ed io non affermerei mai a priori che una fonte è migliore di un altra.41

Un euforico impulso all'inclusione che trova in architettura un terreno fertile facilmente individuabile. Un'architettura che non si limita all'assimilazione di stili e modelli dal passato, pratica che come abbiamo visto è molto presente

40 Cfr. Ivi, pp. 57-58.

41 R. Venturi, Ridere per non piangere, in C. Aldegheri e M. Sabini (a cura di), Immagini del

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nell'estetica postmoderna, ma che implica al suo interno l'assorbimento del soggetto stesso. Ed ecco che, ancora una volta, ci vengono in aiuto le parole di Jameson. Nel già citato saggio dedicato al postmoderno infatti, lo studioso statunitense dedica ampio spazio all'analisi dell'Hotel Bonaventure di Los Angeles, preso come esempio di tipico edificio postomoderno per appurare quanto detto finora: un edificio che aspira ad essere «uno spazio totale, un mondo completo, una specie di città in miniatura» che, continua Jameson, «non dovrebbe avere alcuna entrata, [...] dal momento che l'edificio non desidera essere parte della città, ma piuttosto un suo equivalente o sostituto».42 In che modo allora questo nuovo spazio ospita e accoglie il soggetto, il suo "destinatario"? «Siamo dentro questo iperspazio fino agli occhi e con tutto il corpo; e se prima poteva sembrare che quell'annullamento della profondità [...] fosse difficilmente raggiungibile in architettura, forse ora si sarà disposti a vedere in questa immersione sconcertante l'equivalente formale nel nuovo medium».43

Totale immersione del soggetto postmoderno quindi, come sintomo di quella mancanza di profondità già rilevata in ambito figurativo nell'arte; un concetto che, come vedremo nel paragrafo successivo, risulterà fondamentale per iniziare a parlare di cinema e del suo manifestarsi all'interno del caotico panorama postmoderno.

1.2 Il cinema postmoderno.

Come si è anticipato, non è un caso che il paragrafo precedente si sia concluso con la descrizione dell'Hotel Bonaventure fatta da Jameson, e in particolare con

42 F. Jameson, Il Postmoderno, cit., p. 77. 43 Ivi, p.80.

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l'interesse sottolineato dallo studioso americano nei confronti del carattere di immersività che caratterizza gran parte degli edifici della postmodernità e che adotteremo come spunto per iniziare ad analizzare nel dettaglio i caratteri e il manifestarsi del cinema nello scenario postmoderno.

Già Walter Benjamin, a metà degli anni Trenta, profetizza un forte legame tra arte architettonica e arte cinematografica. Precisamente, lo studioso tedesco segnala notevoli affinità nelle modalità di ricezione che il soggetto instaura con le due arti. Nel fondamentale saggio L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità

tecnica Benjamin ci fa notare come architettura e cinema condividano lo stesso

destino di resistenza dinanzi alla crisi portata dalla massificazione dell'opera d'arte. A differenza dell'arte pittorica infatti, per sua natura "auratica" e quindi destinata a una ricezione solitaria e unica, architettura e cinema nascono come arti destinate e accessibili alle masse: «il dipinto aveva sempre la pretesa peculiare di venir osservato da uno o da pochi [...]. La pittura non è in grado di proporre l'oggetto alla ricezione collettiva simultanea, come invece da sempre risulta vero per l'architettura, come un tempo risultava vero per l'epopea, come oggi risulta vero per il cinema».44

Ai tanti che criticano del cinema il suo modo di approcciarsi alla massa e la partecipazione acritica di quest'ultima sollecitata dalla visione di un film in sala, Benjamin risponde osservando come proprio questa "fruizione nella distrazione" alimenti nel pubblico un atteggiamento valutativo. Cinema e architettura condividono infatti lo stesso tipo di pubblico: un "esaminatore distratto" che

44 W. Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 2011, p. 27.

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attraverso l'abitudine della fruizione protende verso una ricezione tattile, quindi più vicina all'opera osservata.45

Abbiamo dunque visto come Benjamin, acuto osservatore del suo tempo, già ottant'anni fa metteva in relazione architettura e cinema, due forme d'arte apparentemente distanti; relazione che col passare degli anni si è fortemente confermata. Il legame tra architettura e settima arte nel nuovo contesto della postmodernità si può trovare, come abbiamo anticipato, nel concetto di "immersione" riscontrato da Jameson nella sua indagine sugli edifici postmoderni. L'immersione del soggetto (in questo caso dello spettatore cinematografico) è infatti uno dei caratteri centrali presi in considerazione in uno dei più importanti studio sul cinema postmoderno, ad opera di Laurent Jullier. Il contributo dello studioso francese, dall'eloquente titolo Il cinema postmoderno,46 passa in rassegna

le varie caratteristiche – linguistiche, estetiche, tecnologiche – di un nuovo modo di fare e pensare il cinema mettendo in evidenza come concetti come quello di crisi, fine e sfiducia, propri del panorama postmoderno, abbiano investito anche il cinema. Ma andiamo con ordine. Se nel paragrafo precedente ci siamo più volte soffermati sulla difficoltà di dare all'esperienza postmoderna una precisa datazione ora, circoscrivendo l'analisi al solo campo cinematografico, Jullier designa il 1977 come anno di nascita del cinema postmoderno, in seguito all'uscita di Guerre

stellari (Star Wars, 1977).47 Il film di Lucas infatti ospiterebbe diversi aspetti peculiari e specifici dello stile del film-concerto, quella nuova forma estetica con

45 Cfr. Ivi, pp. 33-36.

46 L. Jullier, Il cinema postmoderno, Kaplan, Torino, 2006. L'edizione italiana, pubblicata nove anni dopo rispetto quella francese, presenta un'esclusiva introduzione nella quale Jullier utilizza un'interessante metafora calcistica per illustrare il concetto di stile postmoderno. 47 Cfr. Ivi, p. 53.

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la quale il cinema postmoderno di manifesta.

Impiego di appositi dispositivi tecnologici, concezione di spettacolo presentificato come un hic et nunc, primato della dimensione sonora rispetto a quella visiva: sono questi i tre punti fondamentali sui quali si plasma la forma del

film-concerto,48 che potrebbero essere interpretati in risposta ai vari sintomi di crisi incontrati nel contesto postmoderno. L'apparato tecnologico usato per la produzione e per la proiezione di questi film infatti restituisce alla sala cinematografica quella specificità che aveva perso col sempre più massicio diffondersi delle televisioni; la visione attraverso il piccolo schermo di fatto danneggerebbe notevolmente il potere "pirotecnico" di certi film. La presentificazione dell'esperienza spettatoriale inoltre porterebbe a una decandenza dell' immagine-traccia e all'esaltazione dell'immagine-sensazione: «l'idea di spettacolo come hic et nunc, provenendo dall'uso di immangini che rimandano più che ha una realtà passata [...], a una tecnologia di innesti perfetti e della sintesi, che ne cancella l'effetto di rimando a favore di una dimostrazione al presente».49 La perdità dell'egemonia dello sguardo nel cinema postmoderno è invece riscontrabile nel continuo ricorso ad una colonna sonora sempre più avvolgente che immerge lo spettatore in un "bagno sonoro" (non è un caso che Guerre stellari sia il primo film distribuito con il sistema Dolby). Vediamo dunque nel dettaglio in che modo questo nuovo linguaggio cinematografico si presenta concretamente. Jullier individua diverse "figure dell'immersione" attraverso le quali viene definitivamente annullata la distanza tra il film e lo spettatore, passando dal

48 Cfr. Ivi, p. 37. 49 Cfr. Ibidem.

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regime di comunicazione a quello di fusione.50 In questo senso risulta peculiare

l'innovativo impiego del travelling (o carrello) in avanti, col quale lo sguardo del film non è più ancorato alla soggettiva e agli spostamenti di un personaggio, ma è libero si esplorare lo spazio compiendo dei movimenti fino a questo momento impensabili. Ci troviamo di fronte a un cinema che Gianni Canova definisce post-oculare,51 nel quale alla struttura bioculare della vista umana viene preferita quella monoculare della macchina da presa, più "indipendente" ed euforizzante: «si compie un'evoluzione che segna il passaggio dall'immagine del cinema classico, rappresentante uno spazio la cui superficie è esplorata dall'occhio dello spettatore, a uno spazio che non è più un'immagine ma si presenta come un territorio da esplorare con tutto il corpo».52 Per fare in modo che tutto questo si presenti, l'utilizzo del carrello in avanti deve rispondere ad almeno due delle tre seguenti condizioni:

1. La dissociazione della macchina da presa da ogni oggetto diegetico che potrebbe compiere lo stesso suo percorso;

2. L'assenza di una meta diegetica, che il travelling potrebbe aiutare a raggiungere;

3. L'associazione a un obiettivo a distanza focale corta e/o a una scenografia che accentua l'effetto di penetrazione nella direzione dell'asse dell'obiettivo, in modo da procurare una sensazione di vertigine.

Prendiamo come esempio l'incipit di un film divenuto un cult del nostro tempo,

Fight Club (Id., 1999) di David Fincher: i titoli di testa compaiono all'improvviso

50 Cfr. G. Canova, L'alieno e il pipistrello, cit., p. 33. 51 Cfr. Ivi, p. 73.

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sullo schermo mentre la macchina da presa compie un movimento apparentemente illogico, a ritroso. Si fa spazio tra numerosi ostacoli difficilmente riconoscibili cercando una via d'uscita. Solo in un secondo momento capiamo che lo spazio "impossibile" attraversato non è altro che l'interno del corpo del protagonista, il suo sistema nervoso, dal quale la cinepresa (e noi assieme a lei) fuoriesce attraverso un poro della pelle. L'occhio e lo sguardo in questo caso si dissociano da qualunque soggetto diegetico, riuscendo a compiere tragitti impossibili.53 In questo modo si manifesta quella sfiducia nel regime scopico del cinema contemporaneo, conseguenza della crisi del soggetto postmoderno sempre più frammentato e dissociato da sé.54

Questi notevoli cambiamenti all'interno della pratica e nel linguaggio cinematografico sono stati sollecitati e stimolati soprattutto dal costante sviluppo tecnologico che ha investito la società, e quindi il cinema, dalla fine degli anni Settanta. Invenzioni come la louma e la steadicam sanciscono la definitiva dissociazione della macchina da presa dal corpo dell'operatore, grazie soprattutto alla loro facile maneggevolezza che rende possibile un notevole ventaglio di movimenti e inquadrature, a prescindere dalle condizioni di ripresa.55

La louma consiste in un'evoluzione del più ingombrante dolly: meno ingombrante del suo predecessore, permette di effettuare dei carrelli in avanti più virtuosi e di attraversare qualsiasi tipo di spazio e ostacoli come lunghi corridoi, finestre e sbarre. Uno dei primi registi ad utilizzare questo nuovo macchinario è Roman Polanski per le riprese di L'inquilino del terzo piano (The Tenant, 1976): come

53 Cfr. A. Sainati e M. Gaudiosi, Analizzare i film, Marsilio Editori, Venezia, 2007, p145. 54 Ivi.

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possiamo osservare nel long take che ospita i titoli di testa, la cinepresa si libra leggera nell'aria del cortile interno al palazzo in cui è ambientata gran parte della vicenda, raggiunge altezze alquanto elevate e volteggia, con una semplicità fino ad allora difficilmente raggiungibile, da una finestra ad un altra, facendosi strada tra i comignoli.

La steadicam invece è una cinepresa collegata direttamente al corpo dell'operatore da un'imbracatura munita di ammortizzatori: i movimenti di macchina risultano così più fluidi e liberi rispetto a quelli ottenuti con la più tradizionale macchina a

mano e non causano alcun riverbero sull'inquadratura. Si pensi ai più volte citati

percorsi effettuati dalla macchina da presa lungo i corridoi dell'Overloock Hotel o all'interno del labirinto in Shining (The Shining, 1980) di Kubrick, ma anche alla "soggettiva" dello spirito malvagio in La casa (The Evil Dead, 1981) che rapidamente esce dalla foresta, attraversa il cottage e raggiunge il protagonista nel finale del film.

A scanso di equivoci è bene chiarire subito una cosa. L'impiego del travelling non è un'invenzione del cinema postmoderno; anche nei film del cinema classico, e moderno, si trovano spesso movimenti di macchina molto elaborati. Quello che cambia è appunto il modo in cui questa figura filmica viene impiegata: si tratta infatti di «un uso nuovo, che ha lo scopo di suscitare nello spettatore pure sensazioni, fino a una sorte di dolce ebrezza, di leggera vertigine, che virtualmente lo trasporta dalla sua poltrona al cuore dell'immagine».56

La decisione di far coincidere l'uscita nelle sale di Guerre stellari con le origini del cinema postmoderno non dipende esclusivamente dal fatto che il film sia stato

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il primo a presentare un innovativo impianto sonoro idoneo, come abbiamo visto, all'"immersione" dello spettatore nel cosiddetto "bagno di suoni". Rimanendo nel campo delle innovazioni tecnologiche infatti, il film di Lucas presenta per la prima volta l'utilizzo di una nuova tecnologia che influenzerà indiscutibilmente il modo di fare e pensare il cinema: il digitale.57 Ci riferiamo alla scena dell'organizzazione dell'attacco alla Morte Nera da parte dei ribelli: la simulazione della battaglia che compare sullo scherzo durante il briefing è difatti realizzata digitalmente.

Prima di far luce sui vari quesiti che l'avvento del digitale ha portato con sé, è opportuto darne una definizione precisa ricorrendo, ancora una volta, alla chiara analisi di Jullier. Secondo lo studioso francese il termine "digitale" non si riferisce a un determinato supporto o a una specifica tecnica creativa, ma esclusivamente a una tecnica di codifica dell'informazione. Derivando dall'informatica, questa tecnica consiste nella traduzione dell'informazione in codice binario, composto esclusivamente dai numeri "0" e "1" che a loro volta saranno decodificati da una macchina e associati, rispettivamente, all'assenza e alla presenza di corrente elettrica.58 Possiamo ora segnalare due differenti modalità d'impiego della tecnologia digitale all'interno della produzione di un film: la prima, utilizzando apparati di ripresa digitali, ottiene un'immagine cosiddetta fotonumerica; la seconda, mediante l'uso esclusivo del computer, produce delle immagini di

sintesi.59 Lasciamo per un momento in sospeso il concetto di immagine fotonumerica, sulla quale torneremo nel capitolo successivo, e concentriamoci sul

57 Cfr. C. Uva, Cinema digitale. Teorie e pratiche, Le Lettere, Firenze, 2012, p. 9. 58 Cfr. L. Jullier, Il cinema postmoderno, cit., p. 45.

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fenomeno delle immagini di sintesi.

Al giorno d'oggi tutto è digitalizzabile. Un antico testo di Platone può essere scannerizzato, convertito digitalmente e trasferito su vari nuovi supporti, come nel caso degli e-book; le immagini di un vecchio film girato in pellicola possono trovare col digitale una nuova vita; dopo la conversione posso essere restaurate e ridistribuite nelle sale con un nuovo formato.60 Con le immagini di sintesi l'approccio è però completamente diverso: si tratta di immagini interamente progettate numericamente, che si svincolano da qualsiasi tipo di analogia con la realtà.61 Se la ripresa fotografica e cinematografica partiva da un referente per arrivare all'immagine, con le immagini sintetiche il ragionamento è inverso: attraverso il computer si elabora numericamente un immagine, in seguito riconosciuta come simulacro di un oggetto reale. Il primo personaggio cinematografico interamente creato al computer è lo pseudopode misterioso che abita le profondità marine di The Abyss (Id., James Cameron, 1989) la cui complessa lavorazione valse non a caso l'Oscar per i migliori effetti speciali ai tecnici della Industrial Light & Magic. Soffermandoci all'interno della filmografia di James Cameron, grande sperimentatore nel campo del digitale e degli effetti speciali, il T-1000 che minaccia il futuro dell'umanità in Terminator 2 – Il giorno

del giudizio (Terminator 2: Judgment Day, 1991), è un altro esempio di impiego

del digitale all'interno di un film: il cyborg, fabbricato con idrogeno liquido, ha la capacità di modellare il proprio corpo assumendo le sembianze, sia organiche che

60 Si prenda come esempio la Cineteca di Bologna che dal 2013 porta avanti la lodevo iniziativa denominata Il Cinema Ritrovato, attraverso la quale porta nelle sale grandi classici della storia del cinema restaurandoli digitalmente.

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inorganiche, di cose e persone con cui viene a contatto.

Siamo ancora agli albori della progettazione di immagini numeriche, la sintesi è ancora fortemente percettibile dallo spettatore, non avendo ancora marcati intenti replicativi ma solo lo scopo di fabbricare immagini di referenti inconcepibili; ciò nonostante questi due esempi testimoniano in maniera chiara il carattere malleabile e fluido (sia lo pseudopode che il T-1000 hanno una natura liqueforme) che il digitale dona all'immagine cinematografica, inaugurando un nuovo modo di guardare: «se tutto diventa possibile e qualsiasi creatura è capace di mutare in qualunque altra, allora nulla può essere considerato reale e tutto potrebbe essere un falso».62 Tutto questo porta all'instaurazione di una nuova percezione da parte dello spettatore e a un totale ripensamento di quello che da sempre è stato alla base dello specifico filmico: il rapporto tra soggetto e oggetto filmato. Fin dalla sua origine il cinema è stata un'arte strettamente legata agli automatismi imposti dall'apparecchio fotografico e le sue immagini hanno sempre avuto come referente un reale, sono sempre state il risultato di un non fittizio punto di vista sul mondo. Il cinema ha sempre avuto bisogno sia di un osservatore (sia pure meccanico come la macchina da presa), sia di qualcosa da osservare; con l'elaborazione digitale di immagini di sintesi questo statuto ontologico viene messo in crisi: non si ha più bisogno né di un occhio che guarda né di un qualcosa da osservare; si producono sguardi su realtà virtuali.63 Una natura, quella delle immagini di sintesi, che presenta, secondo Canova, un conflitto intrinseco: da una parte esse ci permettono di relazionarci con visioni mai viste prima; dall'altra abbiamo la consapevolezza

62 F. Marineo, Il cinema del terzo millennio. Immaginari, nuove tecnologie, narrazioni, Einaudi, Torino, 2014, p.48.

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di trovarci di fronte a immagini slegate da qualsiasi referente, che «non rinviano a null'altro che a sé, che splendono, brillano e rifulgono nella loro irrelata inseità».64 Prendiamo come esempio il primo lungometraggio interamente realizzato con immagini di sintesi: i personaggi e le ambientazioni di Toy Story – Il mondo dei

giocattoli (Toy Story, 1995) di John Lasseter non hanno alcun legame con la

realtà. Il piccolo Andy e la sua stanza non sono mai esistiti, non è stato allestito nessun set per le riprese anzi, non ha mai avuto luogo nessuna ripresa; il tutto è frutto di elaborati calcoli informatici: non si tratta più di ri-produzioni ma di

produzioni, di una realtà nuova e altra.65

Se la produzione di film completamente realizzati mediante immagini di sintesi risulta essere lo strappo più grande nel legame tra reale e immagine filmica, numerosi sono i casi in cui l'innesto della tecnologia digitale all'interno dell'opera cinematografica avviene in maniera meno drastica, sviluppando nuove figure espressive. Esemplare in questo caso è la pratica del morphing: impiegata per la prima volta al cinema da Ron Howard in Willow (Id., 1988), questa tecnica consiste nel far calcolare al computer le posizioni intermedie che di trovano tra due immagini, permettendo ad un'immagine A di trasformarsi gradualmente in un'immagine B senza alcuna interruzione.66 In questo caso le uniche immagini realizzate digitalmente sono quelle intermedie, quelle iniziali e finali appartengono ad un referente reale che, per un determinato lasso di tempo si è trovato di fronte alla macchina da presa; come si vede chiaramente nel finale del video musicale di Michael Jackson Black Or White (1991) in cui i volti di svariate

64 G. Canova, L'alieno e il pipistrello, cit., p. 27. 65 Cfr. C. Uva, Cinema digitale, cit., pp. 97-98.

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persone si susseguono uno dopo l'altro trasformandosi senza tagli: sul finire della canzone vediamo il regista John Landis entrare sul set per parlare con una delle attrici. Il morphing suggerirebbe dunque un rifiuto del montaggio e, come osserva Jullier, sembrerebbe quasi realizzare l'utopia baziniana del "non tagliare!"; il condizionale è d'obbligo perché molto probabilbente Bazin non avrebbe accolto positivamente questa nuova tecnologia «che finge soltanto di realizzare i suoi desideri di piano-sequenza dissimulando lo stacco dietro uno scivolamento dei punti luminosi all'interno del quadro».67

Chiudiamo solo momentaneamente il discorso sul digitale, che riaffronteremo più avanti, e concentriamoci sulle altre peculiari caratteristiche del cinema postmoderno. Come abbiamo già evidenziato, seguendo il pensiero di Lyotard, uno dei caratteri più rappresentativi dell'esperienza postmoderna è rappresentato dal rifiuto dell'ideale progressista del moderno che ha portato a una totale sfiducia nei confronti delle grandi narrazioni. Paradossalmente al cinema si è invece manifestata una sorta di nostalgia nei confronti del racconto: col postmoderno il cinema riscopre il desiderio-piacere di raccontare storie; ma non lo fa seguendo il modello discorsivo del racconto classico, né l'ideologia autoriale propria del cinema moderno. Quella del cinema postmoderno è infatti una narrazione che rispecchia quel senso di debolezza, leggerezza, dispersione, commistione e frammentazione tipici del suo tempo.68 Fattori questi, che all'interno del film possono manifestarsi in varie modalità, come ad esempio nella figura del narratore. Gran parte del cinema della modernità – su tutti il cinema della

67 L. Jullier, Il cinema postmoderno, cit., p. 49.

68 Cfr. A. Negri, Ludici disincanti. Forme e strategie del cinema postmoderno, Bulzoni, Roma 1996, pp. 19-20.

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Nouvelle Vague - presentava un narratore ideologicamente forte, che nella maggior parte dei casi incarnava il punto di vista sul mondo dell'autore stesso, spesso nella forma del film-saggio; il racconto postmoderno viene invece affidato a un narratore che, riconquistato il ruolo di personaggio, risulta fragile e inaffidabile in quanto «ha perso la funzione di fonte e garante dell'unità semantica del testo, della coerenza logica del racconto [...], il suo sapere è ambiguo, vacillante, debole».69 Nel film Il grande Lebowski (The Big Lebowski, Joel Coen, 1998) vicenda e protagonista ci vengono presentati da una voce over che, rivolgendosi direttamente allo spettatore col massimo della confidenza, fa intuire che i fatti che vedremo di li a poco lo vedano coinvolto in prima persona: «dopo aver visto Los Angeles e vissuto la storia che sto per raccontarvi, penso di aver visto quanto di più stupefacente si possa vedere in tutti quegli altri posto e in tutto il mondo», afferma il nostro narratore all'inizio del film. Dopo averci accompagnato all'interno della narrazione, con questo breve monologo introduttivo, il narratore sembra quasi abbandonarci tra le trame contorte e bizzare della storia del Drugo e dei suoi compagni. Solo alla metà del film scopriamo che la voce over appartiene in realtà ad un personaggio, un cowboy che nei titoli di coda compare sotto lo pseudonimo di "The Stranger" (Lo Straniero), completamente estraneo alla vicenda che, seduto al bancone del bar si limita a rimproverare il Drugo per il suo linguaggio scurrile. Un narratore bugiardo quindi, che fin da subito confessa la sua inadeguatezza; un narratore che spesso «perde il filo del discorso» e che quindi in qualche modo determina il susseguirsi insolito e stravagante degli eventi che costituiscono il film. Perché il cinema postmoderno

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non si preoccupa più, come accadeva nel cinema classico, di simulare la finzione; i trucchi son già stati svelati e, piuttosto che ritirarsi dal gioco, il cinema ne prende atto e continua a giocare. Come ha perfettamente sintetizzato Alberto Negri, il racconto del cinema postmoderno:

cerca di mettere subito in chiaro il fatto che sta dicendo bugie, che siamo all'interno di un bel gioco finzionale. Non solo ci troviamo in presenza dunque di un racconto imperfetto, ma questa imperfezione viene esibita, esplicitata, contestualizzata a più riprese. È un cinema che non vuol farci credere a quel che racconta, seminando dubbi nella diegesi, spesso esibendo senza ritrosia la sua falsità programmatica. È importante che lo spettatore sappia in ogni momento di essere al cinema, cioè dentro una bella favola.70

Come quando, nel finale del film dei Coen il cowboy-narratore prende di nuovo la parola, rivolto direttamente allo spettatore con lo sguardo fisso in camera, per congedarsi e sincerarsi che la storia sia stata di nostro piacimento, anche in questo caso in modo vago e disilluso.

La stessa inadeguatezza narrativa la si può trovare in quei film in cui è lo stesso autore-regista a farsi carico del racconto. Se, come si è già detto, il cinema moderno proponeva un autore-narratore dotato di un punto di vista marcato che organizzava il racconto mediante l'uso di una prima persona autorevole (si pensi ad esempio a molti film di Godard), nel cinema postmoderno l'autore stesso denuncia un'inadeguatezza e un'impotenza nei confronti della narrazione. Come si

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evince nell'incipit di un altro film, Manhattan (Id., Woody Allen, 1979). Scritto, diretto e interpretato da Woody Allen, il film si apre con diverse inquadrature che ci mostrano il quartiere newyorkese in diverse ore del giorno. La colonna sonora è occupata dalla voce over del protagonista (Allen) che, accompagnato dalla

Rapsodia in blu di Gershwin, legge l'inizio del libro che sta scrivendo, incentrato

prioprio sulla descrizione della citta: «Capitolo Primo. Adorava New York, la idolatrava smisuratamente... Ah, no! È meglio: la.... mitizzava smisuratamente. Ecco... Per lui, in qualunque stagione, questa era ancora una città che esisteva in bianco e nero, e pulsava ai grandi motivi di George Gershwin. Aaaah! No! Fammi cominciare da capo. Capitolo Primo...». È evidente che dietro le parole di Ike, il protagonista, si nasconda il pensiero di Woody Allen, la cui voce, esitando e piegandosi continuamente su se stessa, denuncia l'impossibiltà di descrivere in modo efficace una realtà eterogenea come quella della Grande Mela. Le immagini sì ci mostrano effettivamente quello Ike legge - la fotografia è in bianco e nero, il montaggio è rapido e segue il ritmo della musica di Gershwin – ma solo per confermare quell'esitazione inevitabile quando si cerca di dominare, descrivendola, qualcosa al di fuori della nostra portata, com'è la città di New York; esitazione che poi caratterizzerà la struttura narrativa dell'intero film, che arranca senza un'apparente linearità, proprio come le parole di Ike.71

«Tutto il cinema postmoderno è un'arte concettuale. Ciascun film [...] è intrinsecamente una teoria del cinema».72 Tutto il cinema postmoderno è metacinematografico: continuare a raccontare storie come faceva un tempo, dopo

71 Cfr. A. Sainati e M. Gaudiosi, Analizzare i film, cit., p. 165. 72 M. W. Bruno, Effetto giorno, «Segnocinema», 39 (1989), p. 2.

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che la generazione del moderno ha svelato tutti i trucchi, è impossibile; bisogna scendere a compromessi. Uno di questi, come abbiamo visto, è l'affermazione di un narratore manifestatamente debole; un altro è rappresentato dall'introduzione della macchina-cinema all'interno del discorso filmico, il film-sul-film che Marcello Walter Bruno vede come meccanismo più ovvio del metacinema. Le pratiche di mise en scène e di mise en abîme della creazione delle immagini non sono un invenzione nè del cinema moderno né tanto meno di quello postmoderno, si pensi per esempio a opere come La palla n° 13 (Sherlock Jr., 1924) di Buster Keaton e Viale del tramonto (Sunset Boulevard, 1950) di Billy Wilder, due film che, con le dovute differenze, rappresentano il cinema rendendolo protagonista esibendone i meccanismi della visione. Col passare degli anni l'autoreferenzialità al cinema ha assunto svariate forme e inclinazioni. Se nel cinema moderno, l'autoreferenzialità veniva esibita come un artificio straniante, comportante un'autocoscienza del film e dello spettatore; nel cinema della postmodernità diviene un mezzo di coinvolgimento, una performance fine a se stessa, che non si prende carico di indagare sul rapporto tra il linguaggio e il mondo, esaltando ancora una volta i meccanismi della simulazione.73 È una differenza sostanziale in quanto, come osserva Bruno, se «il cinema moderno era la "coscienza infelice" del cinema classico, il metacinema ne è la "coscienza felice": la trasparenza del gioco non è più pagata con la perdita del piacere del testo».

Prendiamo come esempio, cercando di fare un po' di chiarezza, un film del 1973 di Orson Welles; un'opera strutturata come il tipico film-saggio moderno, ma che

73 Cfr. V. Buccheri, Sguardi sul postmoderno. Il cinema contemporaneo: questioni, scenari,

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contiene in nuce diverse spie di postmodernità. In F come falso (F for Fake) Welles mette subito le cose in chiaro svelando in prima persona, nei panni emblematici di un illusionista, i vari trucchi su cui regge tutta la "magia" del cinema: ci presenta la troupe al lavoro, ci mostra il dietro le quinte con le sue luci e cineprese, e così via. Quest'atto di onestà viene poi ulteriormente rimarcato da una promessa: rivolgendosi direttamente allo spettatore, Welles il mago, giura che da lì in avanti, per i prossimi sessanta minuti, si assisterà esclusivamente a «verità vera, basata su fatti veri». Una dichiarazione di intenti molto importante e precisa, se si pensa che il film in questione ha come scopo principale quello di indagare su concetti quali quelli di falso e autentico all'interno dell'arte. Welles passa allora in rassegna le vite di tre famosi falsari: il pittore Elmyr de Hory, lo scrittore Clifford Irving e il regista Orson Welles. Inserendo se stesso all'interno della categoria dei falsari, il regista racconta vari aneddoti della sua turbolenta carriera; dagli inizi come giovane attore di teatro, al debutto nel cinema in seguito ad una fortunata esperienza radiofonica, sempre naturalmente sotto il segno dell'inganno e dell'imbroglio.74 L'indagine di Welles prosegue tra interviste, riflessioni, sale di montaggio, spezzoni di un vecchio film mai portato a termine: tutti elementi che rimandano al processo simulatorio del cinema.

L'ultima vicenda presa in esame nel film riguarda un curioso episodio che ha come protagonisti il grande artista spagnolo Pablo Picasso e la bella nipote di una vecchio falsario. Il film sta per concludersi ed è giunto il momento per Welles di

74 «La mia carriera è cominciata con un falso, sarei dovuto finire in prigione: sono finito a Hollywood», con queste parole Welles ricorda il suo arrivo alla RKO in seguito alla famosa trasmissione radiofonica, avvenuta la notte di Halloween del 1938, in cui riproponeva il famoso racconto di Wells La guerra dei mondi, camuffandolo come un vero notiziario.

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