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Non si può dire di conoscere veramente una lingua senza averne introiettato anche tutte le caratteristiche sociopragmatiche ed extralinguistiche – come la cinesica, l’oggettemica, la prossemica e la vestemica – oltre alle competenze strettamente linguistiche. Questo è vero soprattutto nel caso di una lingua come il giapponese, una linguacultura dominata da varie dinamiche sociopragmatiche che mettono senza dubbio a dura prova il traduttore di un prodotto audiovisivo nipponico, in quanto dovrà prodigarsi affinché il pubblico di arrivo – nel nostro caso specifico quello italiano – nonostante il basso grado di conoscenza della linguacultura giapponese, possa fruire del prodotto con un risultato il più vicino possibile agli effetti che questo intende suscitare nel pubblico a cui era originariamente diretto. Bazzanella (1994) parla di dialogo come di quell’interazione tra parlanti i cui elementi fondamentali sono l’interattività e la condivisione di un comune bagaglio culturale e di elementi idiosincratici53 in una comunità di interpreti.

It can be concluded […] that the genre of dialogue does not simply negotiate the meanings, but rather the whole relationship between the speakers (the "coauthors"), in a process of constant co- construction where conversational and social roles mingle together (Bazzanella, 1994, p. 212).

53 In linguistica, si intendono con questo termine soprattutto le invenzioni dei singoli parlanti, i

quali formano parole e strutture sintattiche secondo la fantasia e la propria struttura cognitiva, spesso creando dei neologismi.

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Nell’analisi dunque di un dialogo audiovisivo, è inevitabile concentrarsi sugli elementi contestuali di base che lo influenzano maggiormente e che ne fanno un vero e proprio genere, identificati da Vitucci (2016) in:

1) The setting of the conversation, ovvero lo spazio dove si realizza un dialogo, che da un punto di vista sociolinguistico non si riferisce soltanto al canale fisico e a quello temporale, ma anche ai registri del linguaggio, i quali ricoprono un ruolo chiave nell’organizzazione del discorso in giapponese sia in termini di variazione diastratica che diafasica;

2) The participants, cioè i parlanti che, in quanto membri di una data società, portano con sé le proprie peculiarità personali e sociolinguistiche, sulla cui base costruiscono relazioni interpersonali più o meno simmetriche54;

3) The kind of interaction they construct, con le caratteristiche dell’interazione strettamente collegate non solo al genere del discorso nella situazione specifica, ma anche al suo grado di convenzionalità/istituzionalizzazione e all’obiettivo dell’interazione stessa.

La lingua giapponese presenta diversi elementi che lo distinguono da una lingua come l’italiano, prima fra tutte una struttura sintattica diametralmente opposta dove il verbo è posto alla fine della frase55. Ma gli elementi caratterizzanti il dialogo giapponese sono molti, così come lo sono gli autori che ne hanno cercato di dare una descrizione esauriente. Balboni (e Caon, 2015, p. 114), per esempio, propone il così detto modello a spirale, che tenta di rappresentare la tendenza dei parlanti di avvicinarsi gradualmente al cuore del discorso attraverso approssimazioni in successione. La sociolinguista Okamoto (2008) sottolinea invece come un tratto tipico della lingua giapponese sia quello del formulare sintagmi incompleti da un punto di vista grammaticale, come a voler incoraggiare l’interlocutore a completarli: questo avviene poiché la costruzione di significato e l’approvazione verso i contenuti espressi dall’interlocutore si sviluppano simultaneamente al dialogo

54 Nel caso del giapponese, l’asimmetria del dialogo è spesso connessa al concetto di

“interno/esterno” che regola le relazioni umane e – conseguentemente – la scelta del registro linguistico (Casadei e Vitucci, 2012).

55 L’italiano è una lingua SVO, mentre il giapponese è SOV. Questo si traduce spesso nella

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stesso attraverso una serie di espressioni di feedback sia verbali che extralinguistiche. Inoltre, i dialoghi in giapponese hanno un’ulteriore caratteristica, vale a dire quella di lasciare celata una parte dell’informazione, sostituita da congetture ed elementi socioculturali: l’interazione che ne risulta è quindi fortemente dipendente dal contesto e ne consegue che la sua comprensione diviene difficile per i partecipanti esterni. Ancora, Vitucci (2014) parla del concetto di “evocatività” (evocativeness) della lingua giapponese, elemento chiave nell’organizzazione dei turni di parole all’interno di una conversazione, direttamente connesso alla teoria di Markus e Kitayama (1991) i quali affermano che nell’espressione di opinioni e di atteggiamenti, l’attenzione tipica giapponese al livello sociale ha come scopo quello di voler evitare una qualunque fonte di vergogna sia per chi parla che per il suo interlocutore, tanto che i giapponesi possono essere considerati come “interlocutori collaborativi” (collaborative conversationalists) 56: non è un caso infatti che nella lingua giapponese il numero di marche conversazionali – dette aizuchi57 – siano molto più numerose rispetto alla lingua italiana, con una conversazione che ne contiene tra le quindici e le venti al minuto (Sawano, 2008)58, e nonostante da un lato la ridondanza di questi segnali discorsivi sembri contraddire lo stereotipo della conversazione giapponese dove i turni di parola sono ben distinti ed alternati, dall’altro va anche in un certo senso a confermarlo, in quanto non si tratta di vere e proprie interruzioni, quanto piuttosto di una strategia comunicativa il cui scopo è quello di confermare la collaborazione nell’evento comunicativo (Pettinari, 2016). Volendo ricapitolare dunque le caratteristiche del dialogo giapponese, si ritiene particolarmente utile avvalersi

56 La cultura occidentale tende più ad una concezione più “indipendente del sé”, con gli

interlocutori che più facilmente esprimeranno il loro punto di vista personale, pronti a criticare o comunque ad esporsi per far valere le loro ragioni.

57 Horiguchi (1988) individua cinque tipologie di aizuchi: 1. aizuchi per dimostrare la propria

attenzione verso l’interlocutore (hai, ee, ano, ecc.); 2. aizuchi che dichiarano la comprensione e la condivisione del contenuto dell’enunciato (sono toori desu, sō desu ne, sore wa iemasu ne, naruhodo, ecc.); 3. aizuchi che esprimono disaccordo (iie, ie, iya, ecc.); 4. aizuchi che esprimono

stupore e/o confusione riguardo il contenuto della conversazione (ee?, ha?, hontō?, hontō

desuka?, ara!, ecc.); 5. aizuchi che vanno a richiedere delle spiegazioni ulteriori (to iu to?, to

osshaimasu to?,

dō iu imi?, ecc.).

58 Un ulteriore motivo dell’elevata frequenza di utilizzo di queste interiezioni è da ricercarsi

nella mancanza di contatto visivo tra parlanti, richiedendo quindi di dimostrare l’attenzione all’interlocutore in altro modo (Machida e Katō, 2004)

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della tassonomia emersa dagli studi di Vitucci (2016), secondo cui i concetti principali su cui si basa il dialogo giapponese sono:

 Circolarità (circularity), ovvero l’abilità di procedere gradualmente nelle costruzioni di significato attraverso una serie di formulazioni preparatorie e successive.

 Collaboratività (collaborativeness), o quell’abilità di strutturare il dialogo insieme all’interlocutore, attraverso l’utilizzo di feedback emotivi reciproci non percepiti come invasioni o disturbi dei turni conversazionali.

 Evocatività (evocativeness), cioè l’abilità di rimandare a concetti e immagini tipiche della linguacultura attraverso interazioni spesso sintatticamente limitate, ma ricche di aspetti paraverbali ed extraverbali.

 Attenzione sociopragmatica (sociopragmatic attention), ossia l’abilità di selezionare accuratamente il registro linguistico richiesto da ogni determinata situazione secondo le norme dell’etichetta giapponese.