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Si è visto come la gran parte delle matricole di Regina Coeli, nell'ultimo ventennio del XIX secolo, provengano dai ceti meno abbienti come, del resto, c’era da aspettarsi. E si è visto anche come una percentuale consistente di loro siano state arrestate per reati contro la sicurezza e l'ordine pubblico, che spesso sono espressione soltanto di una non conformità alle regole sociali prestabilite, e invece interpretati come indicatori di sovversivismo. All'interno di questa categoria, in effetti, vi sono sia individui ai margini del sistema sociale, sia chi manifesta il disagio e il dissenso attraverso comportamenti che possono anche essere consapevolmente politici, fino ai veri e propri reati contro l'ordinamento dello Stato e i suoi rappresentanti. All'inizio del periodo qui considerato, i soggetti “antagonisti” rispetto all’assetto politico-sociale liberale, possono essere ricondotti al socialismo o all’anarchismo: ma se, nel primo caso, i capi d’imputazione degli eventuali rei sono sempre riferiti alla lotta politica, per gli anarchici il discorso è molto più complesso638. La tesi che si vuole sostenere, con questa ricerca, è che l’insediamento sociale degli anarchici (andando oltre il proletariato organizzato), denotasse una relazione stretta con quella frangia di ceti popolari urbani più contigua alla delinquenza comune. Attraverso l’utilizzo dei dati presenti nei registri matricolari, pertanto, in un ambiente circoscritto come quello romano di fine Ottocento, si può far luce su tali aspetti di storia sociale. Le informazioni ricavate dai registri, incrociate con quelle disponibili nel Casellario politico centrale, registrano, nella realtà romana, un effettivo e consistente legame fra movimento anarchico e criminalità comune639.

Nel Manifesto, Marx ed Engels parlano del Lumpenproletariat – categoria eterogenea e

638 La letteratura sull'anarchismo è, naturalmente, molto ampia. A parte i testi citati in alcune note successive, per un inquadramento generale su questo tema si rinvia, anche, a G. M. Bravo (a cura di), Gli anarchici, Torino, Utet, vol. 1°, 1971.

639 Sull'utilizzo delle fonti, cfr. P. Brunello, M. Franzinelli, C. Venza, Voci di compagni, schede di Questura.

Considerazioni sull’uso delle fonti orali e delle fonti di polizia per la storia ell’anarchismo, Quaderni Centro studi libertari

– Archivio “Giuseppe Pinelli”, Milano, 2002; G. Sacchetti, Sovversivi agli atti. Gli anarchici nelle carte del Ministero

difficile da circoscrivere entro confini certi - come di un raggruppamento di «classi» che non hanno più alcun ruolo decisivo, perché residuo di un sistema di produzione arcaico, arrivando a definirle «putrefazione» sociale640. Anche molti emarginati e «sovversivi», tuttavia, sembrano disprezzare chi lavora, considerato come parte dell'ingranaggio di sfruttamento attuato dal ceto dirigente. Si tratta, in buona parte, di disoccupati, i quali sono costretti a vivere di sussidi (abbastanza sicuri nel vecchio Stato della Chiesa), elemosina, prostituzione, piccoli lavori occasionali e mal pagati, attività illegali. Questo strato sociale è spesso la base della delinquenza professionale, la cosiddetta «malavita». Naturalmente, è necessario che essa sia distinta dalla delinquenza occasionale, costituita da lavoratori, ma anche talvolta da borghesi benestanti, che rispondono, in questo modo, a problemi contingenti, spesso determinati da una fase di crisi economica. Fra i piccoli criminali dei rioni popolari, la legge dell’omertà contro le autorità era fondamentale e, da questo punto di vista, essi potevano diventare utili alleati dei sovversivi. Anche i cosiddetti bulli erano vittime, spesso per motivi inconsistenti, di ammonizioni e vigilanze speciali e, come quella frangia del movimento che esaltava l’individualismo e l’assenza di uno spirito associativo organizzato, la malavita romana era storicamente caratterizzata da molteplici attività criminose esercitate da soggetti non consociati, isolati nelle loro imprese e caratterizzati da un rifiuto del potere costituito che li accomunava in qualche modo agli anarchici.

Dalle interviste raccolte da Riccardo Mariani, emerge l’immagine del piccolo criminale popolano come «ultimo ribelle smanioso di farsi giustizia da solo, per sé ma anche per i deboli e gli indifesi»; «uomo proveniente dagli strati sociali più bassi, soverchiato da miseria, assoggettato ai padroni capitalisti, umiliato e offeso, il quale proclama il proprio diritto alla vita e impone con violenza la propria personalità, battendosi per un ideale»641. Come Irene Invernizzi ha sostenuto, per

un altro momento altrettanto indicativo di storia del conflitto sociale (gli anni Settanta del XX secolo), quei soggetti provenienti da strati popolari che non avevano mai legato con gli operai, organizzati nei sindacati e nei partiti, difficilmente potevano avere una marcata coscienza politica e questo li portava ad agire attraverso rivendicazioni parziali e immediate, da estremisti e violenti nelle azioni, ma non

640 K. Marx, F. Engels, Opere scelte a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma, 1966, p. 302 [Manifesto del Partito

comunista]. Marx insiste con termini quali «rifiuto», «feccia», «bohème», anche se riconosce, nel caso dei giovani almeno,

che possano essere capaci di atti coraggiosi e di abnegazione ai loro propositi politici. Cfr. ivi, p. 537 [Il 18 brumaio di

Luigi Bonaparte], e p. 392 [Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 ]. In Italia, considerazioni del genere sono

ampiamente recepite dai marxisti, come già accennato nel capitolo precedente prendendo l'esempio del carteggio fra Antonio Labriola e Friedrich Engels. Cfr. A. Labriola, Lettere ad Engels, Rinascita, Roma, 1949. Sulle politiche contro anarchici e devianti nella Russia bolscevica, cfr. E. H. Carr, Storia della Russia sovietica, vol. I, La rivoluzione bolscevica

1917-1923, Einaudi, Torino, 1964, pp. 157-158. Anche Mao parlerà di disoccupati e marginali, considerati elemento

d’instabilità nella rivoluzione comunista, perché inclini al vagabondaggio, alla slealtà, all’anarchismo: insomma, sostanzialmente, dei «fuorilegge». Cfr. Z. Mao, La rivoluzione cinese e il partito comunista cinese: dicembre 1939, Casa editrice in lingue estere, Bĕijīng, 1969, pp. 52-53.

641 R. Mariani, 1983 I veri bulli di Roma. Cent'anni di cronaca della malavita romana, Nuova Spada, Roma, 1983, p.227.

altrettanto nei contenuti. Nel suo individualismo, questo tipo di ribelle poteva reagire agli ostacoli con apatia e rassegnazione, o rifugiandosi in un’azione illegale solitaria, ricreando inconsapevolmente un microcosmo con le medesime caratteristiche di quella società borghese che sembrava disprezzare (è il caso, per esempio, di sfruttatori, ricettatori, ecc.). Allo stesso tempo, però, è proprio in quest’ambiente che, all'inverso, il movimento anarchico, trasmettendo una consapevolezza politica del disagio sociale, poteva attivare una forma di lotta che non si fermasse alle embrionali rivolte. Ancora citando Invernizzi, infatti, possiamo rilevare che i delinquenti comuni provenienti dai ceti popolari urbani, non legati al movimento operaio organizzato, possono essere considerati a tutti gli effetti «delinquenti politici»: infatti, ognuno di loro è un inconsapevole «rivoluzionario», che compie azioni individuali dettate dal senso d’ingiustizia sociale di cui è vittima e, ignaro di altri mezzi di lotta, può solo violare le leggi di un potere che non gli permette di vivere dignitosamente642.

Il delinquente comune abituale, soprattutto in passato, viveva spesso negli interstizi della società, politicamente impreparato: dunque, soltanto un “mezzo” funzionale alla sopravvivenza del sistema poliziesco e al mantenimento degli equilibri sociali. L'entrata in carcere era, per questo motivo, uno dei modi più efficaci affinché questi individui potessero acquisire una coscienza politica e sociale, grazie al contatto con i compagni più consapevoli. L'ambiente dei carceri giudiziari è, infatti, propizio a questo risultato, diversamente da quelli penali, dove gli individui hanno già subito un processo di spersonalizzazione che li porta al disinteresse verso le questioni esterne. Quando essi si trovano in attesa di giudizio o incarcerati per periodi più brevi, invece, hanno ancora il ricordo di esperienze sociali recenti e sono adatti all’accogliere progetti di valore politico. I detenuti con tale coscienza, in passato, hanno sempre cercato di coinvolgere nelle rivendicazioni interne alla struttura i colpevoli di reati comuni, fino al punto di riuscire a organizzare rivolte interne collettive643.

Limitatamente a questa ricerca, non sembra che si siano verificate frequentemente tali insorgenze interne alle carceri – mentre ve ne sono state alcune ai domicili coatti – e neppure è stato possibile registrare veri e propri propagandisti politici a Regina Coeli644.

642 I. Invernizzi, Il carcere come scuola di rivoluzione, Einaudi, Torino, 1973, p. 288. Si riporta, tratta da questo volume, una poesia scritta da un detenuto del carcere milanese di San Vittore nel 1971, esempiodi un modo di sentire tale condizione di vita, che si adatta a quasi tutti i periodi storici: «Una proposta nella mente, mille lire nella tasca, dover scegliere: trattoria o cinema ? Ecco un cinema. Ahimé: i dubbi restano: cinema o trattoria? L'orlo del marciapiede (non piove più): la jaguar si ferma brusca, i calzoni spruzzati di fango, l'uomo ben vestito entra nel locale, neppure uno sguardo...Deciso. Niente cinema. Niente trattoria. “Ehi! Tu! Per mille lire quante pallottole mi dai?”» (Sante Notarnicola,

Il sottoproletariato, 1971).

643 Questa considerazione sarebbe avvalorata dal fatto che non si sono mai registrati, durante le rivolte carcerarie, ferimenti fra detenuti, che la Direzione cerca poi di separare, mediante spostamenti interni e trasferimenti. Cfr. Invernizzi, op.cit, pp. 243-244.

644 E' piuttosto interessante il caso di un orologiaio romano, Telemaco Vegni, pregiudicato comune e anarchico, che – fra gli altri – sconta anche circa tre anni nel carcere militare di Portici (condannato per furto e appropriazione indebita, di cui si era macchiato durante il servizio militare ), dove tiene un comportamento «cattivo» e fa «propaganda anarchica

I criminali appartenenti ai ceti popolari urbani, anche se spesso partecipano a insubordinazioni sociali con violenza ed estremismo, non ne allargano i contenuti a una visione a lungo termine. Infatti, al fallimento di un'iniziativa, facilmente seguono reazioni di rassegnazione, apatia, sconforto esternato con azioni individualiste, venate di disagio o di disperazione. Tuttavia, come emerge dalle biografie di quasi tutti gli immatricolati comuni schedati anche come anarchici, questo vario e ampio gruppo sociale, tendenzialmente refrattario alla lotta politica sistematica e organizzata, oltre che impermeabile alla strategia marxista, ha una forte carica di ribellione, spesso solo latente, che si risolve in rivolte estemporanee, e funzionali soprattutto a soluzioni personali.

Ciò che sembra essere stato compreso, e accettato, dal movimento anarchico romano di fine secolo, è la scelta, comune a molti emarginati, di sostituire alla rassegnazione e alla passività un’attiva ribellione. Essa, tuttavia, in mancanza di un'organizzazione (che sia anche non gerarchica) più efficace e di una più approfondita e consapevole chiarificazione politica, è necessariamente solo individuale: furto piuttosto che sfruttamento saltuario; lotta, anche quando fine a se stessa e sbagliata, piuttosto che compromesso con gli avversari; forme di asocialità, piuttosto che emarginazione condivisa passivamente con i pari645.

Questo capitolo è dedicato, allora, ad alcuni tra i protagonisti oscuri delle lotte sociali nella Roma di fine Ottocento, attraverso l'inevitabile selezione di un campione dai registri matricolari utilizzati per il capitolo precedente, di cui si è verificato la percentuale di delinquenti comuni, disoccupati, emarginati che abbiano contestualmente abbracciato i valori e gli obiettivi di quella fase storica dell'anarchismo.

Degli anarchici registrati nel campione646 è stata poi eseguita una successiva cernita,

data la mole di dati ricavati, non solo riguardo alle annate, ma anche agli individui. Nel primo caso, oltre ai sei anni benchmark, con scansione quinquennale, del precedente capitolo (1880, 1885 e 1889 e, per la fase successiva all'entrata in vigore del codice penale Zanardelli, 1890, 1895 e 1899), si è tenuto conto anche del 1891, per una ricorrenza del 1° Maggio che calamita anarchici da tutta Italia e

senza alcun ritegno». Tale condotta lo porta al domicilio coatto a Pantelleria e a Favignana (1898-1900). Il fatto curioso è che, alla fine di questo periodo, egli decida di trasferirsi proprio nella prima isola (dove rimarrà almeno fino al 1930), dove terrà un comportamento apparentemente regolare mentre in realtà, come apparirà chiaro nel 1916, è un fiancheggiatore dei coatti lì residenti, un propagandista politico e un ricettatore. Cfr. Archivio Centrale dello Stato (ACS), «Casellario politico centrale» («C.P.C.»), b. 5340, fasc. 16443; Archivio di Stato di Roma – sede di Galla Placidia (ASR-GP), «Carceri giudiziarie di Roma», Regina Coeli, reg. 55.

645 Un approfondimento su queste problematiche, oltre che in Invernizzi, op. cit., in M. Pavarini, The New Penology

and the Politics in Crisis. The Italian Case in «The British Journal of Criminology», XXXIV (1994), s. I, pp. 49-61; D.

Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, Mondadori, Milano, 2002; e in C. G. De Vito, Camosci e girachiavi. Storia del

carcere in Italia, Laterza, Roma-Bari, 2009.

646 Essi saranno sempre menzionati come matricole, ricordando che tutti sono schedati nel Casellario politico come anarchici.

si risolve nella dura repressione delle forze dell'ordine e dei primi tre mesi dopo le leggi anti- anarchiche di Crispi del 1894. Questi ultimi due anni, non trattati nelle rilevazioni statistiche del capitolo precedente, sono stati qui analizzati per la crucialità degli eventi verificatisi, da cui emerge, nel caso romano, un'ancor più stretta convergenza fra criminalità/emarginazione/ribellismo, argomento della questione storiografica qui proposta. A questo proposito è necessario- ricordare come un anno particolarmente indicativo sia anche il 1889 (compreso nel campione, come anno benchmark), quando si manifestano in città numerose e violente insorgenze.

Del gruppo qui considerato - 144 matricole selezionate secondo un campionamento statistico sistematico, dunque equamente distribuite fra gli anni considerati - non si sono potute esporre, per motivi di spazio, tutte le biografie e, pertanto, ne sono state presentate alcune fra quelle che, di volta in volta, sono sembrate più funzionali nella trattazione di una specifica questione.

Fra queste matricole, non vi è alcuna traccia storiografica nell'81% dei casi (con una media pari all'89% negli anni Ottanta, e al 73% nel decennio successivo). Negli anni Novanta, il numero di anarchici conosciuti è maggiore, data la maturazione teorica e organizzativa di molti appartenenti al movimento. L'altro dato medio, che avvalora l'ipotesi della stretta connessione fra anarchismo, criminalità comune e devianza, è l'alta percentuale di piccoli delinquenti, pari al 67% (77,8% negli anni Ottanta e 55,4% nel decennio successivo). Anche in questo caso, negli anni Novanta, la più alta presenza di attivisti del movimento dediti solo all'illegalità politica, rispetto al totale degli arrestati, risponde alle più numerose iniziative, rispetto al decennio precedente, di quegli anarchici che non hanno mai compiuto reati comuni – cioè che non sono delinquenti abituali – i quali, tuttavia, sempre più spesso si rendono autori di reati politici; ma, soprattutto, la loro più alta percentuale è dovuta all'aumentata repressione che, dal 1894, porta a numerose incarcerazioni, spesso preventive, di vari protagonisti della scena romana, compresi coloro che si occupano solo di organizzazione e propaganda, pur affidandosi, per le azioni concrete, agli affiliati provenienti dalla criminalità comune e dal disagio urbano.