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I Modelli Teorici della Disabilità

2.7. Enabling America: il modello dell’Institute of Medicine

Una terza revisione del modello di Nagi fu operata nel 1997 da Brandt e Pope dell’Institute Of Medicine, i quali si chiesero se la disabilità fosse una conseguenza ineluttabile delle patologie, o se si potesse rompere tale circolo vizioso ed attivare un circolo virtuoso di enablement (Masala, Petretto, 2008).

Con tale revisione, denominata “Enabling America: Assessing the Role of

Rehabilitation Science and Engineering”, si rispose alla richiesta di una

rivalutazione degli sforzi verso lo sviluppo della ricerca e tecnologia per la riabilitazione. Gli autori adottarono esplicitamente gli elementi del modello della disabilità di Nagi (denominandoli “le componenti del processo della disabilità”), e definirono la disabilità una limitazione nello svolgere alcuni ruoli e compiti attesi dalla società nei confronti del singolo. Il rapporto dello IOM si focalizzava sul “processo di abilitazione”, con il quale si intendeva ridurre la disabilità.

L’abilitazione potrebbe essere compiuta a partire da altre funzioni ristabilenti l’individuo (la riabilitazione tradizionale) o aumentando l’accessibilità dell’ambiente, o entrambe le cose.

Il modello introdusse inoltre la nozione di condizione secondaria come “una qualsiasi ulteriore condizione di salute fisica o mentale che si realizza come conseguenza dell’avere una condizione di disabilità primaria”, e che

“abbastanza spesso incrementa la gravità della disabilità dell’individuo e che è spesso evitabile” (IOM, 1997, pp. 3-5).

Gli autori valorizzarono il modello dello IOM del 1991, mostrando più chiaramente come i fattori biologici, ambientali (fisici e sociali), comportamentali e lo stile di vita siano coinvolti nel cambiare il processo di disabilità, nella riabilitazione o nel processo di abilitazione.

Le innovazioni includono i rapporti bidirezionali tra i vari stati del processo di abilitazione-disabilità, e ciò indica che il processo di disabilità può essere modificato con gli interventi adatti (IOM, 1997, pag. 6).

Il modello continua raccomandando l’utilità della ricerca per dominio: la patologia e la ricerca sulla menomazione, la ricerca sulle limitazioni funzionali, e la ricerca sulla disabilità; in particolare quest’ultima dovrebbe essere focalizzata esplicitamente sugli effetti dell’ambiente nel produrre o ridurre la disabilità (IOM, 1997, pag. 12). Gli autori constatarono che il modello del 1991 aveva alcune carenze: la disabilità veniva dipinta come un processo lineare, che si focalizzava sui modi per prevenire la disabilità ma che non lasciava spazio al cambiamento della disabilità per mezzo della riabilitazione.

Inoltre, il modello precedente aveva dato una caratterizzazione limitata dell’ambiente e dell’interazione tra quest’ultimo e l’individuo e forniva una rappresentazione ristretta delle limitazioni della società (IOM, 1997, pag. 67).

Al contrario, il nuovo modello dello IOM puntava l’attenzione sul concetto che la disabilità derivava dall’interazione tra la persona e l’ambiente: nella rappresentazione grafica del processo di abilitazione-disabilità l’ambiente, raffigurato come un quadrato, rappresentava sia lo spazio fisico che le strutture sociali (famiglia, comunità, società); una persona che non manifestava una disabilità era pienamente integrata nella società e “si adattava all’interno del quadrato”. Al contrario, una persona in condizioni potenzialmente disabilitanti aveva necessità maggiori e veniva privato delle sue precedenti interazioni con l’ambiente e così “non si adattava nel

quadrato”. Il processo di abilitazione ha lo scopo di rimediare a questo sfasamento, ristabilendo le funzioni nell’individuo, oppure espandendo l’accessibilità all’ambiente (costruendo rampe, ad esempio) (Brandt, Pope, 1997). L’ambiente venne paragonato ad una sorta di tappeto o stuoia, la cui forza o resistenza è proporzionale alla qualità ed alla quantità dei sistemi di supporto e alle varie barriere.

Dall’incontro tra un individuo che ha delle condizioni potenzialmente disabilitanti e l’ambiente si potrà creare una maggiore o minore disabilità, a seconda che l’ambiente sia meno o più supportivo o vi siano più o meno barriere (nella metafora della stuoia è rappresentata dal grado di sprofondamento della persona nella stuoia) (Masala, Petretto, 2007). Inoltre, la rappresentazione grafica del modello non include lo spazio per la “disabilità”, nel tentativo di chiarire il fatto che essa non è inerente all’individuo, ma è prodotto dell’interazione dell’individuo con l’ambiente (IOM, 1997, pag. 8).

Il nuovo modello dello IOM non solo eliminò il livello di disabilità, ma introdusse anche il livello di “non disabilità”, inserito prima della patologia, per indicare il livello di partenza, l’assenza di limitazioni funzionali. Accanto al percorso principale vennero inseriti i fattori transazionali, per sottolineare il loro ruolo di transizione tra i diversi livelli e per indicare che vi possono essere sia fattori di rischio o disabilitanti, sia fattori abilitanti (Masala, Petretto, 2008).

I fattori di rischio sono fenomeni associati con un aumento della probabilità che un individuo si sposterà da sinistra a destra del modello, ossia da una condizione disabilitante verso limitazioni funzionali.

Al contrario, i fattori abilitanti sono fenomeni associati con un aumento della probabilità che l’individuo faccia il percorso contrario, verso sempre meno limitazioni. Le tipologie di fattori abilitanti sono le stesse dei fattori di rischio, ambientali, relativi allo stile di vita, comportamentali (accedere a cure appropriate e alle tecnologie assistive potrebbe essere un fattore abilitante - ambiente sociale - ma la mancanza dell’accesso potrebbe essere

un fattore di rischio, o disabilitante; l’età di una persona è un fattore biologico che può essere abilitante o disabilitante; l’osservanza dei regimi di prescrizioni mediche potrebbe essere abilitante, mentre l’abuso di droga potrebbe essere un fattore disabilitante - fattori comportamentali e stile di vita) (Brandt, Pope, 1997).

Questo modello ha il merito di essersi allontanato dal collegamento tra patologia e disabilità messo in atto nei precedenti modelli, prediligendo una visione secondo la quale la disabilità è una variabile dipendente il cui valore viene calcolato sulla base della interazione delle due variabili, “persona” e “ambiente” (Brandt, Pope, 1997, pag. 75).

Le modificazioni ambientali esterne possono assumere molte forme: dispositivi assistivi, le alterazioni della struttura fisica, le modificazioni oggettuali, e le modificazioni dei compiti (Corcoran and Gitlin, 1997). Il ruolo delle modificazioni ambientali come strategia di prevenzione non è stato sistematicamente valutato: dovrebbe quindi essere studiato il suo ruolo nel prevenire le condizioni secondarie e la disabilità che accompagna un mediocre adattamento tra abilità umane e ambiente (Brandt, Pope, 1997). Le strategie ambientali potrebbero infatti alleviare il carico sperimentato dai familiari, i quali hanno la responsabilità di fornire supporto giorno per giorno ad un individuo che ha difficoltà nella partecipazione sociale e nella vita indipendente nella comunità.

Queste modifiche ambientali possono essere considerate uno sforzo di prevenzione primaria perché tali strumenti potrebbero fornire una rete sicura e prevenire le condizioni di disabilità che possono verificarsi attraverso il sollevamento e il trasferimento degli individui che potrebbero non essere capaci di farlo da soli (Brandt, Pope, 1997).

Il processo di riabilitazione efficace dovrebbe passare necessariamente da strategie ambientali atte ad aiutare le persone con disabilità a acquisire indipendenza e autonomia, superando le limitazioni nella loro partecipazione sociale, nel lavoro, nel tempo libero e nelle interazioni sociali come consorti, genitori, amici o colleghi.