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Disabilità: Il Modello Biomedico e il Modello Sociale

3.1. Il modello biomedico

Dalla metà del XIX secolo, il modello biomedico è stato il paradigma prevalente e ha costituito il fondamento concettuale della moderna medicina scientifica (Capra, 1984). Tale modello è così diventato un imperativo culturale e le sue limitazioni sono state semplicisticamente trascurate: in breve, il modello ha acquisito lo status di dogma.

In ambito scientifico, un modello viene messo in discussione o abbandonato quando non riesce a render conto adeguatamente di tutti i dati. Un dogma, al contrario, fa sì che i dati divergenti vengano forzatamente adattati al modello, oppure vengano esclusi. Il dogma biomedico richiede che tutte le malattie, inclusa quella “mentale”, siano concettualizzate in termini di disequilibrio di sottostanti meccanismi fisici. Ciò consente solo due alternative mediante le quali riconciliare comportamento e malattia: quella riduzionista, che afferma che tutti i fenomeni comportamentali della malattia devono essere concettualizzati in termini di principi fisico-chimici, e quella esclusionista, che sostiene che tutto ciò che non è suscettibile di spiegazione deve essere escluso dalla categoria di malattia (Engel, 1977). Il modello biomedico considera il corpo una macchina complessa e l’anatomia, la fisiologia e lo studio delle malattie assumono la massima importanza. I medici inoltre iniziarono a formulare giudizi su cosa doveva essere considerato “normale” e cosa invece dovesse essere considerato “patologico”.

Le invenzioni moderne come lo stetoscopio o il microscopio aiutarono queste attività, e varie scoperte, per esempio quella sui micro organismi, diedero nuova forma alla professione medica aumentandone la credibilità, il prestigio e il potere (French, Swain, 2008).

Il modello biomedico era saldamente radicato nel pensiero cartesiano: Descartes infatti introdusse la netta separazione fra anima e corpo, unitamente all’idea che il corpo è una macchina che può essere capita completamente in funzione della disposizione e del funzionamento delle sue parti. Una persona sana era come un orologio ben costruito in condizioni meccaniche perfette, una persona malata come un orologio le cui parti non funzionavano nel modo appropriato.

Seguendo l’approccio cartesiano, la scienza medica si è limitata al tentativo di capire i meccanismi biologici che hanno parte nel cattivo funzionamento di varie parti del corpo. Tali meccanismi vengono studiati dal punto di vista della biologia cellulare e molecolare, escludendo ogni influenza di circostanze non biologiche su processi biologici (Capra, 1984).

Il paradigma biomedico si fonda su diversi principi tra loro collegati: il

riduzionismo, secondo il quale qualsiasi altro livello di analisi identificabile

nello studio dell’uomo, secondo una prospettiva scientifico-sanitaria, deve essere ricondotto a quello biologico ad esso sottostante.

La visione riduzionistica del mondo, delineatasi alla fine del XVII secolo, rifletteva i principi dell’illuminismo e provocò una rivoluzione nella scienza. Francesco Bacone infatti stabilì l’obiettivo finale del nuovo paradigma scientifico: la conoscenza, ottenuta attraverso la riduzione dell’oggetto di studio alla sua forma fondamentale, avrebbe dato la facoltà di controllare l’ambiente e migliorare la vita.

Descartes riteneva che il mondo fosse diviso in due regni separati e distinti: mente e materia. L’universo materiale, che comprendeva gli organismi viventi, era una macchina che poteva essere compresa meglio analizzandone le più piccole parti. Il riduzionismo è quindi una tesi secondo la quale i fenomeni complessi sono tutti riconducibili ad un unico principio essenziale, alle loro parti elementari, per scoprirne il principio fondamentale sottostante.

Secondo lo spirito medico riduzionistico, i problemi venivano analizzati procedendo verso frammenti sempre più piccoli: tale riduzione della vita a

fenomeni molecolari non consentiva però di comprendere la condizione umana nello stato di salute e di malattia.

Infatti, concentrandosi su parti del corpo sempre più piccole, la medicina moderna ha perso di vista il paziente come essere umano. Inoltre, spesso la terapia medica fa affidamento su forze esterne, come gli interventi chirurgici o farmacologici, ma non prende in considerazione il potenziale di guarigione presente nel paziente (Capra, 1984).

Un’altra caratteristica fondante il modello biomedico consiste nel principio del dualismo mente-corpo, che separa il mentale dal somatico, trascurando le influenze reciproche tra i due. Come ha osservato Engel (1977), all’interno di questa cornice non trovano spazio le dimensioni sociali, psicologiche e comportamentali della malattia. Il pensiero dualistico favorisce il processo di categorizzazione in quanto promuove la dicotomizzazione “o/o”. Inoltre, attraverso un’attenta precisione e uno studio rigoroso si può ottenere la certezza delle conoscenze (Cigoli, Mariotti, 2002).

Il modello biomedico assume che la malattia possa essere pienamente spiegata in quanto serie di deviazioni dalla norma costituita da variabili biologiche (somatiche) misurabili (Giarelli, 2005). Tale approccio utilizza come riferimento concettuale la categoria di normalità e, di conseguenza, considera la malattia come un’interruzione dello stato normale.

Ne consegue la richiesta di un intervento specialistico per ricondurre la situazione ad uno stato di normalità: in questa situazione ciò che è in evidenza è il sapere medico e specialistico che si esplicano attraverso la definizione della malattia o del deficit e degli interventi correttivi e riabilitativi da mettere in atto (Medeghini, Valtellina, 2006). Il corpo umano era considerato una macchina che poteva essere analizzata scomponendola nelle sue parti; la malattia era vista come il cattivo funzionamento di meccanismi biologici che venivano studiati dal punto di vista della biologia cellulare e molecolare; il ruolo del medico consisteva nell’intervenire per correggere il cattivo funzionamento di un meccanismo specifico.

Questa prospettiva, proprio perché centrata esclusivamente sulla relazione causale “morbo-malattia-cura” e sulla prospettiva curativa, non era in grado di comprendere nel suo dominio teorico le situazioni legate alla cronicità (Medeghini, Valtellina, 2006).

Il focus dell’attenzione medica è centrato sulla malattia, non sulla persona. I protagonisti della consultazione sono due: la malattia e l’esperto che la cura, unico depositario della conoscenza, mentre il paziente, portatore della malattia, è relegato nel ruolo di ricettore passivo delle decisioni del medico. Inoltre, la selezione delle informazioni è rivolta solo a quelle funzionali alla mappa biomedica, eliminando a priori quelle che non sono biologiche e riconducendo il contenuto della comunicazione tra medico e paziente alla dimensione biologica della patologia.

Un altro principio su cui si fonda il modello biomedico consiste nello

schema eziologico classico: la causalità lineare è l’unico meccanismo

esplicativo che indica come la malattia si sviluppa e come avviene il cambiamento. Per curare la malattia deve essere identificata una causa isolata che porta a quell’effetto, ossia la malattia. Una volta identificata, la causa va isolata e bloccata o impedito il suo ulteriore funzionamento patologico attraverso molteplici interventi medici (Cigoli, Mariotti, 2002). Tuttavia, tale schema patogenetico non permetteva di dare spiegazione a numerosissimi disturbi, che non presentavano alcuna lesione strutturale. Tale eziologia localistica è anche monocausale: non prendendo in considerazione i fattori ambientali esterni e la storia dell’individuo, essa si concentra sui soli fattori biologici interni all’organismo. La malattia diviene così un semplice guasto circoscritto e astorico localizzato in una parte precisa del corpo-macchina (Giarelli, 2004).

Il modello biomedico considerava la disabilità come una deviazione dalla normalità, definendola un deficit corporeo, fisico o mentale che colpisce una persona, limitandone la partecipazione sociale.

Seguendo una logica di causa-effetto, una malattia o un trauma provoca un deficit nell’organismo, a cui consegue l’incapacità di fare determinate cose,

la quale produce uno svantaggio sociale o un handicap. Secondo questo approccio, la disabilità deriva quindi chiaramente dal deficit di un individuo. Gli interventi proposti vertono principalmente sulle cure e mirano alla guarigione del singolo o per lo meno al suo riadattamento alla società. Con il passare degli anni, il modello biomedico ha attirato a sé numerose critiche. La crisi che ne è conseguita ha aperto la strada ad una più ampia considerazione dei fattori implicati nella salute: l’interazione nella definizione dello stato di salute e di malattia tra i processi che agiscono a livello macro (come l’esistenza di sostegno sociale o la presenza di depressione) e processi che agiscono a livello micro (come squilibri a livello biochimico e cellulare), la natura multifattoriale delle cause che agiscono sulla salute e sulla malattia e degli effetti che questi ultimi possono avere, la non distinguibilità della mente e del corpo nella influenza sulle condizioni di salute di un individuo. La salute non è uno stato che deve essere solamente salvaguardato: la salute è un obiettivo che deve essere conseguito positivamente mediante un’attenzione alle necessità di ordine biologico, psicologico e sociale (I.Re.F., 2007).

Naturalmente, il modello biomedico ha avuto dei punti di forza su cui basarsi. Innanzitutto la sua semplicità, dovuta alla chiarezza dello schema eziologico classico, nel quale ad una causa biologica seguiva un effetto patologico; l’evento malattia era analizzato attraverso la scomposizione in elementi minimi che lo costituiscono e lo esauriscono.

La sua predittività, dal momento che la malattia era sempre l’effetto di una causa biologicamente identificabile, che si ripresentava in soggetti diversi: la costanza dei rapporti di causa-effetto consentiva al medico non solo di diagnosticare le malattia ma di indicarne la prognosi.

La chiarezza del metodo clinico, che propone gli obiettivi che devono essere raggiunti, sia generali, propri della scienza medica, che specifici, ossia gli scopi che ciascun medico deve conseguire nel corso dell’incontro clinico. La possibilità di verificare la correttezza della diagnosi, ossia delle affermazioni del singolo medico, attraverso l’analisi anatomopatologica. La

chiara e semplice identificazione dell’oggetto di pertinenza della scienza medica consente la verifica di ipotesi attraverso il disegno sperimentale. La sua insegnabilità: infatti, le competenze cliniche e le acquisizioni teoriche della medicina possono essere trasmesse, come di fatto avviene in tutte le Università.

Per quanto riguarda invece i punti di debolezza, alcuni autori hanno ritenuto il modello biomedico troppo semplicistico; inoltre, esso enfatizza esageratamente la menomazione e dà per scontata una relazione causale diretta tra menomazione e disabilità.

Il modello biomedico non è in grado di tenere in sufficiente considerazione la dimensione personale e sociale della disabilità, ed è troppo limitato per guidare le attuali tendenze in tema di sicurezza sociale (Dal Pozzo et al., 2006).

Gli ulteriori limiti del modello biomedico sono: la disumanizzazione del paziente, il quale viene identificato in un organismo, parcellizzato nei suoi diversi organi e apparati, in modo da renderlo oggettivo e funzionale al metodo riduzionista; l’iperspecializzazione diagnostica e terapeutica della patologia di un organo o di un apparato, per cui l’attenzione al particolare fa perdere di vista l’intero; l’ipermedicalizzazione, ossia la lettura in chiave medico-biologica dei fenomeni anche quando non sono propriamente

medici, in quanto non riconducibili ad alterazioni biologiche

necessariamente patologiche (Di Taranto, 2006).

Un’altra critica riguarda il fatto che, a causa del suo approccio alla malattia come un problema individuale, la disabilità viene vista come una “tragedia personale” del singolo. Gli handicap, in questa prospettiva, sono considerati come anormalità intrinseche, o deficit, che impediscono all’individuo di compiere le attività della vita quotidiana, ivi inclusa la capacità di ricoprire ruoli sociali di un certo valore (Barnes, 2006).

In conseguenza a questa privatizzazione dell’origine della disabilità, l’attribuzione di responsabilità per il trattamento della disabilità è anch’esso

privatizzata, poggiando unicamente sull’individuo e sulla sua famiglia (Smart, 2006).

La visione dell’approccio biomedico implica che la questione fondamentale della diseguaglianza sociale si riduca a cause biologiche. Nella prospettiva biomedica alla disabilità l’unità di analisi è costituita dall’handicap fisico, e il metodo predominante di ricerca è puramente empirico. Le spiegazioni biomediche della disabilità mancano di individuare le cause della diseguaglianza sociale, poichè si basano sulla malintesa applicazione di paradigmi biomedici a problemi che sono essenzialmente sociali. Nel modello biomedico è l’individuo ad essere il centro del problema, e la rimozione della diseguaglianza troverà il suo necessario metodo di realizzazione nella cura, ossia nel cambiamento, dell’individuo (Marra, 2009).

Da una prospettiva biomedica, le diseguaglianze sociali subìte dai disabili possono ritenersi originate dalla diversità biologica fra individui, e perciò attribuite alla condizione fisica e legate al corpo (Barnes, 2006). Numerosi autori hanno criticato l’impostazione riduzionistica del modello biomedico. Engel (1977), in particolare, sosteneva la necessità di ampliare l’approccio alla malattia, al fine di includere gli aspetti psicosociali.

Secondo il modello medico, un disturbo non diventa all’improvviso una specifica malattia e non è equivalente ad essa. Il modello medico di un disturbo è un processo che inizia con il riconoscimento dei sintomi e arriva all’individuazione di una specifica malattia di cui sono conosciute l’eziologia e la patogenesi e il cui trattamento è razionale e specifico. Si tratta di una tassonomia che a partire dai sintomi arriva ai raggruppamenti di sintomi, da questi alle sindromi, e giunge infine alle malattie con la loro specifica patogenesi e patologia. Inoltre, secondo Engel (1977) dovrebbero essere considerate le distorsioni introdotte dalla tendenza riduzionista nel considerare una specifica malattia come esclusivamente caratterizzata in termini della più piccola componente isolabile avente implicazioni causali; ancor più critica è la tesi secondo cui la designazione “malattia” non sarebbe

applicabile in assenza di perturbazioni a livello biochimico. Il fatto di concentrarsi sull’aspetto biomedico escludendo quello psicosociale distorce le prospettive e interferisce anche con la cura del paziente (Engel, 1977). Inoltre, il riduzionismo crea profondi fraintendimenti quando giunge a negare l’impatto di condizioni non biologiche sui processi biologici (Holman, 1976). L’analisi riduzionistica dell’uomo come una macchina non può fornire una comprensione completa della complessità dei problemi umani. La ricerca biomedica dovrà essere integrata in un sistema più ampio di cura sanitaria in cui le manifestazioni di ogni infermità umana siano viste come risultanti dall’interazione di mente, corpo e ambiente, e siano studiate e trattate in accordo con questa concezione. L’adozione di un tale concetto olistico ed ecologico di salute richiederà non solo un mutamento concettuale radicale della scienza medica, ma anche una consistente rieducazione del pubblico. Molte persone infatti aderiscono ostinatamente al modello biomedico perché temono che si esamini il loro stile di vita e che lo si confronti col loro comportamento patologico: anziché affrontare una tale situazione imbarazzante e spesso dolorosa, essi insistono nel delegare ogni responsabilità per la loro salute al medico e ai farmaci. Inoltre, come membri della società si tende a usare la diagnosi medica come una

copertura di problemi sociali (Capra, 1984).

Nel modello biomedico, la presenza dimostrabile di una specifica deviazione biochimica è generalmente considerata uno specifico criterio diagnostico di malattia. Tuttavia, in termini di esperienza umana della malattia, i dati di laboratorio possono indicare soltanto la malattia potenziale, non l’effettiva realtà della malattia in quel dato momento. L’alterazione potrebbe essere presente, ma il paziente potrebbe non essere ammalato. Il difetto biochimico costituisce solo uno dei tanti fattori la cui complessa interazione può culminare in un disturbo attivo o in una malattia conclamata, e non può essere usato per spiegare tutto della malattia (Engel, 1960).

Per stabilire una relazione tra particolari processi biochimici e i dati clinici della malattia si rende necessario un approccio razionale e scientifico ai dati comportamentali e psicosociali, essendo questi i termini con cui il paziente riferisce la maggior parte dei fenomeni clinici. Il modello biomedico non riserva sufficiente attenzione a questa esigenza, ma incoraggia invece a sorvolare sul resoconto verbale del paziente dando maggior rilievo alle procedure tecniche ed alle misurazioni di laboratorio. Un esame delle correlazioni tra i dati clinici e quelli di laboratorio richiede non solo metodi attendibili di raccolta dei dati clinici, in particolare una notevole abilità nella raccolta dell’anamnesi, ma anche una conoscenza di base delle componenti psicologiche, sociali e culturali con cui i pazienti comunicano i sintomi della malattia (Engel, 1977).

Le più essenziali abilità del medico implicano sia la capacità di elicitare un accurato resoconto verbale dell’esperienza personale del paziente, sia il saperla correttamente analizzare. Il modello biomedico ignora sia il rigore richiesto per ottenere un’anamnesi attendibile, sia la necessità di analizzare il significato del resoconto del paziente tanto in termini psicologici, sociali, e culturali quanto in termini anatomici, fisiologici e biochimici (Engel, 1973). Così, il medico dovrebbe accedere al mondo privato del paziente, assumendo ragionevolmente che l’accesso alle informazioni potrebbe dipendere da quello. È fondamentale quindi il riconoscimento del paziente come l’iniziatore e il collaboratore nel processo, non un mero obiettivo di studio. Il medico, a sua volta, è un osservatore partecipante che, nel processo di ascolto del resoconto del paziente, intercetta il suo sistema di vista interno per la comparazione e la classificazione. Il mezzo è il dialogo, che include a diversi livelli l’essere in comunione (condividere le esperienze), così come la comunicazione (lo scambio di informazioni). L’osservazione (punto di vista esterno), l’introspezione (punto di vista interno), e il dialogo (intervista) sono la triade metodologica di base per lo studio clinico e per l’interpretazione dei dati scientifici del paziente (Engel, 1997). I fattori psicologici e sociali sono cruciali nel determinare se e

quando i pazienti portatori di qualche malattia inizieranno a vedere se stessi o ad essere visti dagli altri come malati.

Il difetto biochimico può determinare alcune caratteristiche della malattia, ma non necessariamente determina il momento in cui la persona si ammala o accetta il ruolo di malato o lo status di paziente. Il trattamento medico indirizzato solo all’anomalia biochimica non necessariamente restituisce la salute al paziente persino a fronte di una documentata risoluzione o una cospicua riduzione dell’alterazione. Altri fattori possono contribuire al mantenimento dello status di paziente persino di fronte alla guarigione in termini biochimici. Le variabili psicologiche e sociali sono in gran parte responsabili delle discrepanze tra la correzione dell’anomalia biologica e l’esito del trattamento (Engel, 1977).

Anche nella somministrazione di terapie specifiche, il comportamento del medico e la relazione tra medico e paziente influenzano notevolmente in modo positivo o negativo l’esito terapeutico. Si tratta di effetti psicologici che possono modificare direttamente l’esperienza di malattia o colpire indirettamente i processi biochimici evidenziati, questi ultimi in virtù delle interazioni tra reazioni psicofisiologiche e processi biochimici implicati nella malattia. Inoltre, il successo nella somministrazione di terapie specifiche è limitato dalla capacità del medico di influenzare e modificare il comportamento del paziente indirizzandolo verso comportamenti adeguati alle condizioni di salute. Per sapere come indurre tranquillità nel paziente ed aumentare la sua fiducia nei poteri di guarigione del medico il solo carisma non basta, ma sono necessarie competenze e abilità psicologiche. Questi elementi sono però esclusi dalla cornice biomedica (Engel, 1977).

Nonostante i benefici delle proposte mediche per alcuni pazienti disabili, le persone erano spesso altamente critiche non solo nei confronti del trattamento che ricevevano, ma anche del modo in cui i professionisti sanitari comunicavano con loro. Questo modello concettuale presenta il corpo in termini di una complessa macchina che richiede attenzione quando alcune parti o processi funzionano in modo “anormale”.

Nonostante questo punto di vista abbia portato un’enorme crescita della conoscenza biologica e un’imponente capacità di intervenire medicalmente in alcuni processi biologici, ha distolto l’attenzione dall’importanza dei processi comunicativi tra professionisti e assistiti. La concettualizzazione biomedica della malattia e della menomazione ha tradizionalmente incoraggiato i clinici ad ascoltare i pazienti solo nella misura in cui essi potevano far luce sulla loro patologia e contribuire quindi ad una diagnosi efficace.

Tale ascolto tuttavia non è sufficiente e la comunicazione tra persone disabili e professionisti della salute richiede una parità di potere all’interno della relazione. Un altro punto del modello biomedico che è stato più volte messo in discussione riguarda la cosiddetta “medicalizzazione della disabilità”. Come sottolinea Barnes (1999), tale medicalizzazione ha trasformato le vite delle persone disabili: l’interesse medico si è esteso sino ad includere la selezione di condizioni educative per bambini disabili, la valutazione e l’assegnazione del lavoro ai disabili adulti, la determinazione dell’idoneità per i sussidi pubblici e la prescrizione di aiuti ed equipaggiamenti tecnici. Come figure esperte della società, i medici hanno grande potere e questo dà loro controllo sugli aspetti fondamentali della vita delle persone, dove esse dovrebbero vivere, se dovrebbero o no lavorare, in che tipo di scuola dovrebbero andare, che tipo di benefici e servizi dovrebbero ricevere e, nel caso di bambini disabili non ancora nati, se essi dovrebbero o no vivere (Oliver, 1990). L’intera opera medica e di riabilitazione è fondata su un’ideologia di normalità e questo ha