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Una città alla prova

3. Entrate più o meno solenn

8 dicembre 1515: l'entrata del papa

L'irrisolta questione bentivolesca fu la base su cui si sviluppò un giudizio poco lusinghiero sull’entrata a Bologna del papa Medici. Nelle prossime pagine cercheremo di dimostrare come l'incertezza del destino politico della città abbia costituito una sorta di lente deformante con cui alcuni testimoni giunti in città al seguito del pontefice interpretarono gli avvenimenti di quella prima giornata a Bologna di Leone X. A questo proposito, procederemo in due direzioni: innanzitutto, concedendo uno spazio maggiore di quanto sia stato fatto finora al punto di vista dei bolognesi, alla loro percezione della vicenda. In secondo luogo, allargando l’analisi all’intera durata del soggiorno a Bologna della corte papale. In entrambi i casi, la valutazione dei fatti ne uscirà alquanto mitigata.

L’evento ebbe luogo l’8 dicembre e - è da dire - sarebbe comunque stato destinato a sfigurare a confronto con la trionfale e sontuosissima accoglienza che Firenze aveva riservato al suo illustre figlio solo pochi giorni prima. Per celebrare degnamente l’ideale «gemellaggio Toscana-Roma» incarnato nella persona stessa del primo papa mediceo, la città era stata letteralmente trasformata secondo il modello della Roma antica367. L’impietosa comparazione tra le due entrate è tutta riassunta nelle righe

iniziali della lettera di Paolo Giovio a Marin Sanudo: se l’ingresso fiorentino era stato contraddistinto da «tanto honore et tante acclamatione et accoglientie dil populo, che fu cosa mirabillissima», quello bolognese si era invece svolto «con freddo apparato et pochissime acclamatione»368.

La tradizione storiografica non ci ha però consegnato l’immagine di un’entrata semplicemente sottotono, bensì di un vero e proprio affronto da parte della città di Bologna al pontefice. «Nel più cupo silenzio»: così il papa sarebbe stato accolto secondo William Roscoe, autore agli inizi dell’Ottocento di una monumentale biografia

367 Cfr. M. FAGIOLO, L’Effimero di Stato. Strutture e archetipi di una città d’illusione, in M. FAGIOLO (a cura

di), La città effimera e l’universo artificiale del giardino. La Firenze dei Medici e l’Italia del ‘500, Roma, 1980. «A magnificent entry -one of the century’s finest»: B. MITCHELL, The Majesty of the State.

Triumphal Progresses of Foreign Sovereigns in Renaissance Italy (1494-1600), Firenze, 1986, p. 107. Cfr. I. CISERI, L’ingresso trionfale, cit.

368 Lettera del Giovio del 15 dicembre da Bologna, in M. SANUTO, I diarii, cit., coll. 391-394; ed. più

dedicata a Leone X369, seguito poi dallo storico francese Jean Marie Vincent Audin, il

quale, riprendendo quasi alla lettera la biografia tardo settecentesca del pontefice di Angelo Fabroni, sostiene addirittura che il papa non avrebbe qui incontrato «che faccie intristite. Nessun arco trionfale, né statue, né colonne, né iscrizioni; le strade vuote e silenziose»370.Versione, questa, eccessivamente riduttiva, perché di addobbi in realtà ne

erano stati preparati. Ma anche Odorico Rinaldi, continuatore dell’imponente storia ecclesiastica del cardinale Cesare Baronio, non si dimostra tenero verso i bolognesi, accusandoli di grande ottusità, trascuratezza e sfacciataggine371. Più tardi, le

fondamentali opere di Louis Madelin e di Ludwig von Pastor non avrebbero fatto che consolidare ulteriormente una vulgata di segno negativo.

Particolare di non poco conto, tutte queste letture si sono basate esclusivamente su fonti extra-cittadine. Oltre al già citato Giovio, l’ingresso di Leone X era parso ben poco trionfale anche agli ambasciatori veneziani e a quelli mantovani. E se i primi si erano laconicamente limitati a registrare che «non fu intrà tropo sumptuosa, né con tropo cridar Lion né Palle»372 (ovvio riferimento allo stemma mediceo, consistente in sei

palle), il giudizio di Alessandro Gabbioneta, arcidiacono della cattedrale di Mantova e agente del marchese Francesco Gonzaga presso il pontefice, era stato severissimo: «li archi et ornamenti sono stati tanto brutti che l’è una infamia a questa così nobile cità». Perfino le donne bolognesi, coi loro volti «infernali», gli erano sembrate orribili373. Altra

conferma, dalle sue parole, delle poche acclamazioni udite, nonostante la «gente infinita» che gremiva le strade, e come se non bastasse, «in alcuni loci s’è sentito cridar “Julio Julio”»374. Che alcuni bolognesi non sapessero neppure l’esatto nome del papa e

lo confondessero con il suo predecessore Giulio II375?

A queste testimonianze, oltretutto, si deve ancora aggiungere quella del maestro

369 W. ROSCOE, Vita e pontificato di Leone X, tradotta da L. Bossi, V, Milano, 1817, p. 142. Sull'autore si

veda A. QUONDAM, William Roscoe e l'invenzione del Rinascimento, in M. FANTONI (a cura di), Gli anglo-

americani a Firenze. Idea e costruzione del Rinascimento, Roma, 2000, pp. 249-388.

370 J.M.V. AUDIN, Storia di Leone Decimo, cit., p. 154; cfr. A. FABRONI, Leonis X, cit., p. 95.

371 «Per summam socordiam»; «Bononiensium impudentia»: O. RAYNALDUS, Annales Ecclesiastici ab anno

quo definit Card. Cæs. Baronius MCXCVIII usque ad annum MDXXXIV continuati […], XX (1504- 1534), Coloniæ Agrippinæ, 1694, p. 194.

372 Lettera del 9 dicembre da Bologna dell’oratore Marino Giorgi, in M. SANUTO, I diarii, cit., col. 371. 373 ASMn, AG, Carteggio estero, Roma, b. 863, Alessandro Gabbioneta a Isabella d’Este, Bologna, 8

dicembre 1515 [DOCUMENTO 30]. Questa e le successive lettere del Gabbioneta sono brevemente citate in

L. VON PASTOR, Storia dei papi, cit., pp. 85-86.

374 ASMn, AG, Carteggio estero, Roma, b. 863, Alessandro Gabbioneta a Francesco Gonzaga, Bologna, 8

dicembre 1515 [DOCUMENTO 29].

375 Nello stesso errore incorre un cronista modenese del tempo, ricordando il transito per Modena di «uno

re de Ferança» diretto a Bologna per incontrarsi «con papa Giulio»: cfr. A. TODESCO, Annali, cit., pp. 18-

19. Nello specifico caso bolognese non è però da escludere che con «Julio» ci si riferisse al legato Giulio de’ Medici.

di cerimonie pontificio Paride Grassi, una delle fonti più importanti sull’incontro bolognese e la più critica sull’entrata del papa. Il cerimoniere aveva già assistito nel novembre del 1506 all’ingresso a Bologna di Giulio II. Anche allora, avendo negativamente influito maltempo e scarsa partecipazione dei cittadini, l’evento era stato meno sontuoso del previsto. Tutto sommato non c’era però stato di che indignarsi, e il Grassi si sofferma a lungo nel suo Diarium a descrivere addobbi, suoni e folla festante376. Pur trattandosi di due vicende dal significato politico molto diverso377,

sarebbe stato interessante confrontare nel concreto, all’interno dell’opera del Grassi, l’ingresso di Giulio II con quello del suo successore nove anni più tardi. Interessante e utile, per verificare se a cambiare, e tanto in peggio, fosse stata la capacità dei bolognesi di allestire un simile evento, o se piuttosto il mutamento non avesse riguardato il gusto degli osservatori della corte romana. Ipotesi non da escludere. A Bologna erano ormai lontani i fasti mitizzati della signoria bentivolesca378; ma occorre anche tener conto del

fatto che proprio le entrate che avevano avuto come protagonista Leone X, e cioè il grandioso possesso romano dell’aprile 1513 e l’ingresso fiorentino del novembre 1515

379, avevano segnato due tappe fondamentali nell’evoluzione di questo genere di

festeggiamenti380. Purtroppo invece per l’entrata del dicembre 1515 il nostro

cerimoniere, sopraffatto dall’irritazione, non ci ha lasciato alcuna descrizione degli apparati.

L’appunto che si può leggere a margine della carta dell’esemplare bolognese del

Diarium dedicata all’arrivo di Leone X, recita: «Bononia non bono animo Papam

recependa», e ancora «Vide quantam rusticitatem adversus Papam». Il resoconto che il Grassi ci ha lasciato dell’entrata si riassume in fondo tutto qui, limitandosi, nella

376 Cfr. M. RICCI, Giulio II e l’ideologia trionfale. Una lettura dell’ingresso a Bologna del 1506, in G.M.

ANSELMI, A. DE BENEDICTIS (a cura di), Città in guerra, cit., pp. 249-268.

377 Cfr. M.A. VISCEGLIA, Guerra e riti di pacificazione: le spedizioni di Giulio II a Bologna nelle pagine

del cerimoniere del papa (1506-1512), in G.M. ANSELMI, A. DE BENEDICTIS (a cura di), Città in guerra, cit.,

pp. 85-117: «momento cruciale per la definizione della nuova dominazione politica che si doveva instaurare nella città», l’ingresso in Bologna di Giulio II «doveva concludere una fase di transizione, di vuoto, di sospensione delle magistrature come avveniva nel rito del possesso» (p. 103). Da qui la minuziosa organizzazione dell’evento da parte del papa e del suo maestro di cerimonie.

378 Cfr. C.M. ADY, I Bentivoglio, cit., pp. 223-228: «La Bologna dei Bentivoglio non fu superata neppure

dalla Firenze dei Medici nella varietà e nello splendore delle sue feste pubbliche». Le feste religiose, le cerimonie civiche e quelle dell'Università, «insieme con le loro feste di famiglia, diedero l'opportunità ai Bentivoglio di organizzare spettacoli ai quali partecipavano tutte le classi».

379 Si vedano i saggi di A. GAREFFI, Il possesso di Leone X, cit., e di J. SHEARMAN, L’entrata fiorentina di

Leone X, 1515, in F. CRUCIANI, D. SERAGNOLI (a cura di), Il teatro italiano, cit., pp. 239-250.

380 Sul tema dell’evoluzione dei trionfi nella Roma rinascimentale si veda M.A. VISCEGLIA, La città rituale.

Roma e le sue cerimonie in età moderna, Roma, 2002, pp. 53-117. Secondo Giovanni Sassu i rimproveri del Giovio, del Grassi e del Gabbioneta agli organizzatori bolognesi sono il «segno evidente che, a quelle date, anche in Italia esisteva ormai uno standard grammaticale e qualitativo di riferimento molto forte»: cfr. G. SASSU, Il ferro e l’oro. Carlo V a Bologna (1529-30), Bologna, 2007, p. 34.

sostanza, a un elenco di rimostranze. Le sue disposizioni relative ad addobbi e cerimoniale erano state in gran parte disattese, e anche quando erano state seguite, i bolognesi, sia laici che religiosi, si erano dimostrati non all’altezza. Il clero, ad esempio, aveva allestito lungo le vie del corteo gli altari previsti, ma «simpliciter et ruditer», e perfino la croce presentata al papa era così «simplex et rustica» che Leone X, nel baciarla, si trattenne a stento dal ridere («quasi cum risu osculatus est»). Un misto di ilarità e violento sdegno aveva di lì a poco invaso anche i cardinali. All’arrivo dei due baldacchini che avrebbero dovuto coprire l’uno il pontefice e l’altro il Corpus Domini, i cardinali «mirabiliter riserunt». Il baldacchino destinato all’ostia consacrata, in particolare, di tela consunta, strappata e macchiata, era parso tanto offensivo che i cardinali avevano dato ordine ai propri palafrenieri di lacerarlo381. Una sorta di

appropriazione da parte dei cardinali - seppure per interposta persona - delle rituali distruzioni di baldacchini e altri addobbi che accompagnavano le solenni entrate nell’Europa medievale e moderna, e che vedevano come protagonisti attivi i giovani della città382. I giovani bolognesi, invece, compaiono nella relazione del Grassi soltanto

perché a fronte dei cento da lui richiesti per scortare il pontefice, se ne erano presentati a malapena una ventina, e pure «male ornati»383.

Resta da considerare il punto di vista dei bolognesi: come avevano vissuto l’evento i diretti interessati? E quale memoria ne era poi rimasta nelle successive generazioni? Quanto agli apparati, neppure le cronache bolognesi sono particolarmente prodighe di particolari. Prima di cedere loro la parola, per indagare l’aspetto scenografico dobbiamo quindi ricorrere ancora una volta ad una relazione extra- cittadina, le Cronache forlivesi di Andrea Bernardi detto il Novacula. Narra il cronista che lungo il tragitto stabilito (entrato da Porta Maggiore, il corteo papale aveva percorso la strada omonima, corrispondente al decumano romano, fino ai piedi delle Due Torri,

381 Secondo il Gabbioneta sarebbe stato invece il pontefice a ordinare di stracciare questo baldacchino di

taffettà bianco; l’altro, di damasco bianco e broccato d’oro era stato quindi usato per coprire il Corpus Domini, mentre il papa si sarebbe adattato a proseguire senza baldacchino. Entrambi comunque gli erano parsi troppo «picoli et stroppiati». ASMn, AG, Carteggio estero, Roma, b. 863, Alessandro Gabbioneta a Francesco Gonzaga, Bologna, 8 dicembre 1515 [DOCUMENTO 29].

382 Sull’argomento si vedano C. GINZBURG, Saccheggi rituali. Premesse a una ricerca in corso, in

«Quaderni storici», n.s. 65 (1987), pp. 615-636; IDEM, Pillages rituels au Moyen Age et au début des

temps modernes, in Normes et déviances, Neuchâtel, 1988, pp. 311-325; S. BERTELLI, Il corpo del re.

Sacralità del potere nell’Europa medievale e moderna, Firenze, 1990, pp. 87-103; G. RICCI, I giovani, i

morti. Sfide al Rinascimento, Bologna, 2007, pp. 17-38 e 55-70. Proprio il Grassi aveva già da diversi anni affrontato il problema delle violenze giovanili, stabilendo che il baldacchino del papa fosse «dopo la cerimonia donato ai palafrenieri e quello del Sacramento diviso in tre parti» in «un’attribuzione tutta interna alla familia del pontefice»: cfr. M.A. VISCEGLIA, Guerra e riti di pacificazione, cit. p. 91.

per poi proseguire in direzione della cattedrale di San Pietro)384 erano stati eretti tre

archi («ponti») lignei ornati «ala similitudine de quili de Cesaro ali trionfe romano», recanti versi di varia materia. Un altro arco, recante la scritta «Benedictus qui venit in nomine Domini» era stato allestito per iniziativa di un certo «Matio dalla Lana», massaro dell’Arte della seta. Lo stesso «Matio», ossia Matteo, aveva fatto costruire anche un balcone sopra la propria bottega, ornato di drappi con «alcuna figura molte fantastiga» e di una tenda dove l’arma del papa era sorretta da una coppia di angeli e da una di leoni, sovrastata dalla scritta «Al divo pontifico maximo Lione decimo Medici et dela republica cristiana moderatore». A destra e a sinistra dell’arma papale, erano raffigurate rispettivamente l’arma del re di Francia e quella del legato Giulio de’ Medici, con le relative epigrafi «Franceschus primo Galorum Regi Cristianissimo» e «Patre dela patria». Lungo la via che conduceva a San Pietro, ci sarebbero stati poi altri sei archi, pregevolmente adornati di scritte varie e medaglioni385.

Nessuno di questi dettagli relativi alla scenografia viene descritto in modo particolareggiato dai cronisti bolognesi coevi. Il frate Leandro Alberti, ad esempio, accenna soltanto sommariamente agli altari «con le sante reliquie» allestite dagli ordini religiosi, alla strada «coperta de pani» e ai numerosi archi di trionfo con le armi della Chiesa, del pontefice, del legato e della città. Il valore del suo resoconto sta piuttosto nella percezione avuta del grande evento a cui aveva assistito. Nulla gli era sembrato poco decoroso, anzi: i giovani della città (trenta, in questo caso) erano abbigliati «riccamente», e perfino il tanto vituperato baldacchino, sebbene non «di oro, secondo che si convienne» era a parer suo «nobile». Il fatto che fosse stato lacerato, secondo lui dal Grassi in persona386, lo aveva quindi lasciato interdetto. Peccato non sapere qualcosa

di più sulla composizione materiale di questo oggetto. Sappiamo soltanto che era di taffettà, di colore bianco e che la seta era stata scelta in quanto, secondo l’Alberti, più

384 Il copione resterà sostanzialmente immutato anche per l’entrata a Bologna di Clemente VII il 24

ottobre 1529, cfr. G. SASSU, Il ferro e l’oro, cit., pp. 36-40.

385 A. BERNARDI (NOVACULA), Cronache forlivesi dal 1476 al 1517, a cura di G. Mazzatinti, II, Bologna,

1897, p. 428. Secondo il Novacula l’autore delle scritte sugli addobbi della bottega di «Matio dalla Lana» erano del genero di questi, il cronista bolognese Friano degli Ubaldini. Cfr. G. EVANGELISTI, Leone X e

Francesco I, cit., pp. 160-161.

386 Per l’effettivo intervento del maestro di cerimonie in un saccheggio rituale, si veda l’aneddoto

ricordato dal Bréquigny e ripreso a sua volta dal Frati, a riprova del carattere irritabile e impulsivo del nostro personaggio: il 20 ottobre 1508, nel tentativo, in quel caso, di sedare il disordine nel corso di una cerimonia funebre, il Grassi si era accapigliato con alcuni frati: «je le saisis par son scapulaire que je déchirai de haut en bas, et dont je fis voler au loin les lambeaux; je dechirai aussi sa tunique,…etc. L’un de frères m’ayant menacé de me casser la tête si je ne m’arrêtois, je le pris lui-même par les oreilles et les cheveux, etc. Tout le peuple m’applaudit» Cfr. L.-G. O.-F. DE BRÉQUIGNY, Notice du Journal, cit., p. 563;

resistente alla pioggia387. L’unico contrattempo, insomma, era stato per l’Alberti proprio

la pioggia fitta e insistente, «per la quale fu poco piacere in vedere questa entrata del pontefice». Nonostante questo fastidio, però, il popolo «pareva pieno di alegrezza», e continuamente inneggiante al pontefice388.

Come abbiamo accennato, anche l’ingresso di Giulio II nel 1506 era stato in parte guastato dal maltempo. E che eventi all'aperto come questi risentissero pesantemente di condizioni climatiche sfavorevoli è fin troppo ovvio389. Rimanendo nel

dicembre 1515, disponiamo di un significativo esempio di quanto un clima ingrato potesse raffreddare perfino gli animi meglio disposti. Pochi giorni dopo la nostra entrata, le pessime condizioni atmosferiche crearono non pochi imbarazzi al Senato veneziano, alle prese con l’arrivo in città di una comitiva di nobili francesi capeggiata dal duca di Vendôme390, che, approfittando della trasferta bolognese, vollero recarsi a

Venezia per «veder feste di done et pescar». Considerata la strettissima alleanza che la legava ai francesi, la Signoria aveva deciso di riservare loro un «grandissimo honor». Causa freddo e pioggia battente, gli illustri ospiti rischiarono però di non vedere granché al loro arrivo. Fin dal principio era stato stabilito che «tutti quelli zentilhomeni sarano chiamati di andarli contra, non andando, siano privi per un anno di Pregadi». Ma, nonostante la minacciata esclusione dal Senato, il giorno dell'arrivo, il 19 dicembre, quando già i francesi erano in vista, a causa della «grandissima pioza» ci fu un fuggi fuggi generale, «et si convene mandar a reiterare l'hordine» di presenziare all'ingresso. Solo la cooptazione forzata di gentiluomini e gentildonne veneziane salvò insomma la situazione, e solo in parte. Gli apparati risentirono non poco di «pioza, caligo e cativo tempo», soprattutto il particolare ”addobbo” richiesto dai francesi: gentildonne veneziane danzanti. Fu con pochissimo entusiasmo che alcune di queste cedettero alla pressioni del Senato veneziano di imbarcarsi in un burchio dove, incontrato il bucintoro

387 Un confronto sommario può essere istituito col baldacchino allestito quattro mesi prima per l’entrata a

Bologna del legato Giulio de’ Medici. Da una piccola nota di spese risulta che fosse anch’esso di taffettà, rosso questa volta, foderato di tela azzurra, e che fosse costato circa 26 lire: cfr. ASBo, Assunteria di Camera, Miscellanea, filza 34 (1513-1530).

388 L. ALBERTI, Historie di Bologna, cit., pp. 429-430: il papa «fu condutto con la pioggia insino a S. Pietro,

et poscia al palagio, ove fu sbarata grande artegliaria, sempre sonando le campane, et cridando il popolo: “Viva papa Lione”». Un'eccitazione festosa che non sarebbe scemata nemmeno nei giorni successivi: «furo' fatti gran segni di alegrezza per tre giorni con fuoghi, campane et artegliarie».

389 Nella vicina Ferrara, la pomposa cerimonia di intronizzazione del duca Alfonso II, il 26 novembre del

1559, fu svilita da una pioggia che, secondo un testimone, «assassinava» gli spettatori, e che portò parecchi gentiluomini a disertare il banchetto ufficiale: cfr. G. RICCI, Il principe e la morte. Corpo, cuore,

effigie nel Rinascimento, Bologna, 1998, pp. 43-45.

390 Ne facevano parte anche il fratello del duca di Lorena e altri nobili: in tutto una cinquantina di

aristocratici coi rispettivi seguiti, per un totale di 250 persone. Cfr. M. SANUTO, I diarii, cit., col. 400. Vedi

coi francesi, avrebbero danzato per sollazzo degli ospiti «zò per Canal»391.

Ritornando a Bologna, è da dire che la relazione di frate Leandro potrebbe sembrare un poco edulcorata, tanto più se si considera che egli tralascia un particolare che non era affatto sfuggito agli altri suoi concittadini: l’assenza della sparsio trionfale, atto consueto per un pontefice al primo ingresso in una città del suo stato. Leone X, infatti, che pure a Firenze aveva largheggiato facendo gettare al popolo ben 3.000 ducati

392, a Bologna, trovatosi probabilmente nella necessità di ridurre le spese, non aveva

fatto spargere nemmeno una moneta, e questo sì che ai bolognesi era parso irrispettoso della tradizione. Tra gli indignati c’era sicuramente Fileno dalla Tuata, il quale, con malcelata soddisfazione, ricorda allora che il papa «non vene tropo achonopagnato da signori e zentilomini». Inconvenienti, del resto, che egli sembra considerare quasi scontati, essendo Leone X «priete e fiorentino»393. Nonostante tutto il suo malanimo,

però, neppure Fileno può dimenticare che l’entrata si era svolta «chon grande honore e grande adornamento».

Per restare tra i contemporanei, il notaio Eliseo Mamelini riferisce di un grandissimo trionfo394 e Bonifacio Fantuzzi, priore del Collegio di diritto civile,

ricordando l’onore tributato dal corpo dottorale395 in occasione del «foelicissimus

adventus» del papa, annota come unico elemento di disturbo una contesa di precedenza sorta tra i Collegi dei giuristi e degli artisti riguardo alla posizione da occupare nel corteo. Dal Fantuzzi ci arriva tra l’altro una parziale spiegazione della scarsa partecipazione di gentiluomini di cui parla Fileno. Il Collegio degli artisti, avuta la