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«Ho mandato da qui tutte le lettere. […] Non so cosa si aspetti da me. Che me ne vada? Ma io resto. Sono le cose che vanno»126.

(A. Parronchi)

Negli anni Trenta del Novecento, a Firenze, lo scambio per lettera era ancora l’unico strumento di comunicazione in absentia fra i molti giovani e meno giovani, artisti ed intellettuali, che partecipavano alla intensa vita culturale della città. Essi, infatti, molto spesso si conoscevano all’università o nelle redazioni

122 Diafani, La «stanza silenziosa», cit., p. 61.

123 Bonifazi, Le lettere infedeli, cit., p. 13: Bonifazi definisce «totale» la scrittura epistolare di

Giordani perché essa «coinvolse gran parte, e la migliore, della sua attività di scrittore».

124 Quéré, Da una lettera all’altra, cit., p. 76.

125 G. Leopardi, lettera a P. Giordani del 30 aprile 1817, in G. Leopardi, Epistolario, 2 voll., a cura

di F. Brioschi e P. Landi, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, p. 88.

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delle riviste e delle case editrici e poi iniziavano delle lunghe corrispondenze epistolari che, ancora oggi, permettono di approfondire un periodo storico particolarmente vivace, dal punto di vista culturale, e ricco di rapporti umani e intellettuali. L’interesse per questi scambi epistolari, intesi come documenti e testimonianze storico-culturali, si associa dunque a quello per l’evoluzione del genere epistolare e di una tradizione retoricamente codificata.

Il lungo dialogo fra Bo e Betocchi, durato dal 1934 al 1985127, può

dunque servire come «campo di riconoscimenti»128 agli spunti teorici fin qui

offerti. A distanza di più di un secolo da quello fra Leopardi e Giordani, anche il carteggio Bo-Betocchi si basa sullo scambio intellettuale e sulla loro «intimità al servizio della letteratura»129. Come scrive Bo, nel suo saggio più famoso,

Letteratura come vita, per letteratura si vuole intendere «una strada, e forse la strada più completa, per la conoscenza di noi stessi, per la vita della nostra coscienza»130.

Questa concezione della letteratura, che sottende tutto l’arco del carteggio in esame, va dunque a collocarsi e a proporre la strada specifica per affrontare l’ambiguità ineliminabile della scrittura epistolare. Il carteggio fra Bo e Betocchi dimostra ancora una volta quello che Todorov ha scritto in La letteratura in pericolo: sia l’opera letteraria, che la scrittura epistolare, possono «permettere a ciascuno di rispondere meglio alla propria vocazione di essere umano»131 e

trasformare quindi la parola scritta in un mezzo insostituibile di maturazione personale e di comunicazione con l’altro.

Nell’ultima lettera di Betocchi a Bo, quella del 7 novembre 1985 dettata alla figlia Silvia, pochi mesi prima della sua morte, il poeta ormai quasi ottantenne dichiara di aver trovato nell’amico la più approfondita vicinanza al suo spirito132.

127 Il carteggio ancora inedito fra Bo e Betocchi, come si vedrà poi per esteso nella nota al testo,

premessa alla trascrizione del carteggio, consta di circa 480 unità documentarie conservate ad Urbino e a Firenze, comprendenti le lettere di Bo e quelle di Betocchi, più alcune dei suoi familiari.

128 Barthes, Il discorso amoroso cit., p. 353. 129 Kaufmann, L’equivoco epistolare cit., p. 163.

130 C. Bo, Letteratura come vita (1938), in Letteratura come vita, a cura di S. Pautasso, pref. di J.

Starobinski, testimonianza di G. Vigorelli, Milano, Rizzoli, 1994, p.5.

131 T. Todorov, La letteratura in pericolo [2007], Garzanti, Milano, 2015, p. 17. 132 Betocchi, 7 novembre 1985 [462].

39 Già cinquant’anni prima, il 10 gennaio 1935, Bo scriveva a Betocchi: «[…] Perché tu felicemente sai uscire da una pratica quotidiana […] per consegnare viva (e insisto sull’aggettivo) una parte intima, tua. Sai prima di tutto rinnovare la vera corrispondenza», un dialogo che il successivo 27 febbraio Betocchi definiva «una corrispondenza che non ho mai tenuta con alcuno e che credo potrebbe essermi utilissima». Dunque, nonostante Barthes abbia definito la lettera il «punto in cui si congiungono al meglio – in una maniera spossante per il soggetto – la mano di ferro del codice e l’illusione di spontaneità, di espressività»133 del soggetto,

sembra che Betocchi riesca fin da subito, «senza tradire la propria sincerità»134, a

consegnare una parte viva di sé al proprio destinatario.

Con il passare degli anni Betocchi ha reso l’epistolografia una pratica quotidiana di affinamento spirituale e di insostituibile sostegno all’attività intellettuale: egli è stato un epistolografo d’eccezione del nostro Novecento, sia per la quantità che per la qualità delle lettere scritte135. La sua figura non è oggi

conosciuta come quelle di Cicerone, Petrarca o Leopardi, ma le lettere di Betocchi testimoniano, come le loro, un’intensa rete di relazioni personali e intellettuali e, insieme, la vivacità di un periodo storico e di una larga parte del Novecento italiano ed europeo. Nella corrispondenza con Bo Betocchi è colui che scrive per primo e più assiduamente, il «destinante» principale, mentre spesso Bo si è dimostrato un destinatario sfuggente. Quest’ultimo, però, ha saputo rispondere al desiderio e all’affetto dell’amico con la vicinanza costante, negli anni, della sua amicizia e soprattutto con la pubblicazione dei suoi scritti, che

133 Barthes, Il discorso amoroso, cit., p. 192. 134 Barthes, Frammenti, cit., p. 184.

135 La corrispondenza di Carlo Betocchi è attualmente conservata nel fondo Betocchi

dell’Archivio Contemporaneo Bonsanti del Gabinetto Vieusseux di Firenze. Nonostante siano ancora molte le lettere e i carteggi inediti, negli anni si sono susseguiti molti studi sulle carte betocchiane e la pubblicazione dei seguenti carteggi, riportati in ordine cronologico di pubblicazione: C. Betocchi, M. P. Pazielli, Io son come l’erba. Epistolario, a cura di P. Mallone, con uno scritto di L. Betocchi, San Marco dei Giustiniani, Genova, 2004; P. Bargellini, C. Betocchi, Lettere (1920-1979), a cura di M. C. Tarsi, Interlinea, Novara, 2005; G. Caproni, C. Betocchi, Una poesia indimenticabile. Lettere 1936-1986, a cura di D. Santero, pref. di G. Ficara, Pacini Fazzi, Lucca, 2007; M. Luzi, C. Betocchi, Lettere. 1933-1984, a cura di A. Panicali, Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2008; C. Betocchi, G. Ungaretti, Lettere. 1946-1970, a cura di E. Lima, Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2012; V. Sereni, C. Betocchi, Un uomo fratello. Carteggio (1937-1982), a cura di B. Bianchi, Mimesis, Milano, Udine, 2018.

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non hanno mai smesso di accompagnare l’evolversi dell’opera poetica, e redazionale, di Betocchi.

Con una sorta di manifesto programmatico degli intenti, nel novembre del 1934, l’anno iniziale della loro corrispondenza, Betocchi scrive a Bo: «Conto più qua di scriverti qualche lettera per mio assottigliamento e d’intrattenere con te una corrispondenza utilissima. Ho bisogno di patire e di gualcirmi. È necessario frequentarti»136. E ancora, il 27 febbraio 1935, descrive così la sua vita

creativa:

E tu, che cosa credi che faccia il tuo amico che ti scrive, se non ondeggiare continuamente tra uno stato quale tu mi descrivi, inattivo, ed un altro, attivo, che s’impossessa di me sempre più di rado? […]. Io ti scrivo mentre l’alba è già alta ed il cielo tersissimo. È l’ora che ci chiama al lavoro. […] Attenderemo che la notte ritorni, e seguiteremo, caro Carlo, a comunicare.

Per tutta la sua vita Betocchi continuerà a rivolgersi a Bo, considerandolo non solo uno degli amici più fidati e fedeli, ma un critico e un intellettuale unico nel panorama italiano. Sebbene sia conscio delle difficoltà legate alla scrittura epistolare, come di ogni scrittura che cerchi di arrivare alla verità dello spirito, il poeta cerca attraverso la comunicazione epistolare un ristoro al proprio dolore e agli inevitabili momenti di sconforto. Bo, dal canto suo, non può restare indifferente alla sincerità dell’amico e quindi ringrazia Betocchi per la sua presenza che, gli scrive il 19 febbraio 1935, riesce a raggiungerlo anche laddove non arrivano i libri.

Entrambi i corrispondenti, a volte, sono insoddisfatti di quello che scrivono, sentono di essere troppo stanchi e limitati dalla pagina che hanno davanti, eppure Betocchi non può non proclamare a Bo, e a se stesso, il 12 dicembre 1937: «io non tradirò mai la verità intangibile: essa siede nel mio cuore; bensì potrà darsi che io le rifiuti le parole, cioè a dire che ella me le rifiuti», ma, come si propone il 22 dicembre dello stesso anno, «Io non vorrei far più conto dei giorni e delle notti, ma solo della mia anima».

Le insidie della scrittura epistolare, come rilevato anche da Anna Dolfi, nascono dal suo vivere «tra detto e nascosto, tra assenza e presenza, così come,

41 ovviamente, tra qualcuno che parla e qualcun altro che tace»137. Patrizia Violi, nel

saggio L’intimità dell’assenza. Forme della struttura epistolare, mette in evidenza come i due soggetti del rapporto epistolare non siano mai compresenti: «la presenza reale dell’uno non potendosi che accompagnare alla ricostruzione immaginaria dell’altro, in un tempo e luogo separato, mai condiviso»138. A essere condivisa,

però, è la vita vissuta da Bo e Betocchi nell’amicizia e nel lavoro intellettuale, insostituibile momento interazionale esterno al testo ma, nelle lettere, incessantemente ricordato e riversato da Betocchi «nelle modalità specifiche di organizzazione della sua struttura discorsiva»139 inviata a Bo. Il discorso

epistolare «non fa che nominarsi incessantemente»140 e, nella reiterazione delle

domande di Betocchi e delle assenze-presenze di Bo, cercare di avvicinarsi alla «verità che giace al fondo»141, la stessa «verità» amata da Umberto Saba e al centro

sia della poetica di Betocchi che dell’idea di critica di Bo.

Il 7 agosto 1938, nel pieno del dibattito su Letteratura come vita, Betocchi scrive a Bo che «la verità che ci tocca è solamente un errabondo profumo di verità; tu profumi solamente di ragione, ed anch’io non ho altro che la certezza di questo profumo […]». Il poeta infatti, fin dalle prime lettere del carteggio, appare simile all’innamorato barthesiano e quasi intimorito dall’amico, sebbene abbia bisogno della sua ragione, e della sua vicinanza, per cercare di comprendere meglio se stesso e i moti del proprio cuore. Betocchi si rivolge a Bo per quasi cinquant’anni e il carteggio testimonia come il critico sestrese sia l’«amico che conosce una verità nascosta, e non so se la più pura, ma certo la più delicata e irremovibile (anche di me stesso)», come gli scrive Betocchi il 16 maggio 1940.

Il loro lungo discorso epistolare ricorre spesso a termini provenienti dalla sfera semantica amorosa, come accadeva nell’Ottocento tra Leopardi e Giordani e «in seguito all’uso linguistico invalso all’epoca di estendere il lessico amoroso

137 Dolfi, Frammenti, cit., pp. 12-13. 138 Violi, L’intimità dell’assenza, cit., p. 91. 139 Ivi, pp. 91-92.

140 Dolfi, Frammenti cit., p. 614.

141 Il verso citato è tratto dalla celeberrima dichiarazione di poetica di Umberto Saba: si tratta dei

versi della quartina centrale di Amai, ossia «Amai la verità che giace al fondo, / quasi un sogno obliato, che il dolore / riscopre amica. Con paura il cuore / le si accosta, che più non l’abbandona» (U. Saba, Amai, in Il Canzoniere (1900-1954), intr. di N. Palmieri, Einaudi, Torino, 2004, p. 516).

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alla sfera dei rapporti più intensi quali quello esistente tra consanguinei o tra amici fraterni»142. Anche il registro linguistico utilizzato più di frequente, dunque,

testimonia come il carteggio abbia rappresentato per entrambi i corrispondenti la più viva «intimità delle anime nella lontananza, […] il privilegio che avemmo di essere insieme» riconosciuto da Betocchi già il 3 aprile 1942.

Nonostante l’ambiguità e le difficoltà sottese all’utilizzo del mezzo epistolare, il 18 giugno 1950 Betocchi ringrazia Bo con questa sua preziosa ed intima testimonianza:

Carissimo Carlo,

Grazie per l’affettuosa pazienza del tuo ricordo. Sono le cose che più mi legano a una creatura, sulla terra. Tu non ti sei dimenticato di cercare, ed hai ritrovato e mi hai spedito il vecchio articolo. Credo che la vita meriti di essere vissuta anche per questi atti. Che poi nell’articolo il tuo cuore e il tuo giudizio sempre freschi e giovani si siano ricordati di me, con tanto affetto, tutto questo resta la bellissima verità di quelle vite parallele che noi, grazie a Dio, viviamo: cercando l’uno e l’altro di illuminarci della luce sorgente sulla via della fortuna: per sentirci dire, nel nostro segreto, che son le stesse, e che viviamo dell’unità. E come sempre ti abbraccio con la più pura amicizia. Il tuo

Carlo

Grazie a quella soglia particolare e sempre duplice che rappresenta la lettera, all’«aumento di tensione e di carica espressiva»143 che sprigiona tra presenza e

assenza, immediatezza e lontananza, rigidezza formulare e ricchezza contenutistica, essa si pone sempre come l’«ambiguo punto di confine che separa l’interazione, lo scambio dialogico con l’altro, dalla solitudine autosufficiente della scrittura»144. Il carteggio fra Bo e Betocchi ha permesso a entrambi i

corrispondenti, negli anni, di continuare a comunicare attraverso la parola scritta e non lasciar mai spegnere la fiamma di quella che Betocchi definisce «la più pura amicizia». Come sottolinea infatti Georg Simmel, in Il segreto e la società segreta, nella lettera anche

il contenuto spirituale, una volta messo per iscritto, ha una forma obiettiva, un’atemporalità di principio del suo essere-presente, un’illimitatezza – sia nella successione che nella coesistenza – di riproduzioni accessibili nelle

142 Geddes da Filicaia, Fuori di Recanati, cit., p. 29. 143 Bonifazi, Le lettere infedeli, cit., p. 9.

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coscienze soggettive, senza però far dipendere la sua importanza e validità, una volta stabilite, dalla comparsa o assenza di queste realizzazioni psichiche ad opera di individui. Così lo scritto possiede un’esistenza obiettiva che rinuncia a qualsiasi garanzia di vita segreta145.

Nei momenti di inevitabile abbandono e in quelli caratterizzati da un più acuto senso di solitudine, ma soprattutto nel ricordo dell’affetto fraterno e della giovinezza, del lavoro e della vita condivisa, le lettere di Bo e Betocchi conservano ancora oggi l’«esistenza obiettiva» della testimonianza: esse rinunciano, venendo qui trascritte ed analizzate, al segreto e alla intimità generalmente intesi, ma indirizzano il lettore «nel senso voluto dal segreto governo della nostra anima»146, un’anima però necessariamente ‘aperta e chiusa’

come il diario pubblicato da Bo147. Ancora più del diario, infine, la scrittura

epistolare è capace di dimostrare come vita e letteratura siano inevitabilmente intrecciate: essa ci aiuta, pur nella sua ambiguità, a capire che «l’essere umano non è assolutamente in grado di tenere separati ciò che vede davvero, ode, sperimenta, da ciò in cui la sua interpretazione, aggiungendo, togliendo o trasformando, lo muta»148, proprio come avviene nella scrittura, e nella ricezione,

di una lettera.

145 G. Simmel, Excursus sui rapporti epistolari, in Il segreto e la società segreta [1907], a cura di A. Zhok,

SugarCo, Carnago, 1992, p. 84.

146 Betocchi, 4 agosto 1940 [74]. 147 Bo, Diario aperto e chiuso, cit.

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Capitolo secondo

L’età delle lettere. Il carteggio Bo-Betocchi

«C’è una imperatività di scrivere che la corrispondenza rende manifesta […]»1.

(Charles Grivel) «Senza le lettere rischiamo di perdere di vista la nostra storia, o quantomeno le sue sfumature»2.

(Simon Garfield)

Carlo Bo e Carlo Betocchi sono i soggetti produttori di un patrimonio epistolare quantitativamente rilevante e qualitativamente interessante. Il carteggio a cui diedero vita, negli anni dal 1934 al 1985, permette al lettore odierno di approfondire le loro figure, grazie alle procedure della scrittura privata, ma anche di analizzare attraverso le lettere una serie di «rapporti complessi che si intrecciano come fili di una tela multicolore»3. Come ha scritto

Franco D’Intino, analizzando i rapporti fra epistolarità e letteratura moderna, la lettera è in prima istanza il riflesso «di questa ragnatela di rapporti, di questa variabilità di circostanze, traccia effimera di una situazione pragmatica ed emotiva che cambia col variare dei rapporti, delle persone»4. I documenti in

esame, dunque, rivelano una vita intensa dal punto di vista umano, l’amicizia fedele di due uomini, lunga cinquant’anni, ma anche dal punto di vista letterario, che spesso coincise con l’aspetto affettivo e familiare. Nella maggioranza dei casi le lettere, sia nella forma che nei contenuti, sono improntate sulla letteratura e sul dibattito letterario e culturale dell’epoca: Bo e Betocchi scrivono in maniera letteraria, usando ognuno il proprio stile, e quasi sempre le loro lettere si occupano di poesia, letteratura e critica letteraria.

1 Grivel, La lettera che uccide, cit., p. 43.

2 Garfield, L'arte perduta di scrivere le lettere, cit., p. 429.

3 D’Intino, Pamela undressed. Epistolarità e letteratura moderna, cit., p. 138. 4 Ibidem.

45 Come ha scritto Grivel, inoltre, anche le lettere fra Bo e Betocchi testimoniano materialmente, con la fisicità dei fogli e delle loro calligrafie, quell’«imperatività di scrivere che la corrispondenza rende manifesta […]»5. Dopo

quella che è stata definita da Petrucci «una storia plurimillenaria»6, negli anni

Venti e Trenta del Novecento l’epistolarità rappresenta ancora un fenomeno capillarmente esteso, tentacolare. Non si può dimenticare che, in questo periodo, comunicare per lettera è ancora l’unico modo di comunicare a distanza: anche di fronte al timore per il regime fascista e nazista, alle guerre e ai tragici avvenimenti che, di lì a pochi anni, segneranno la storia del Novecento, in realtà il carteggio Bo-Betocchi non affronta quasi mai questioni storico-politiche. Esso, soprattutto, mette in luce i profondi legami d’amicizia e di collaborazione che, in un periodo in cui la poesia sembrava essere «l’unica attività pura e degna di essere vissuta»7, hanno unito fra loro vecchie e nuove generazioni di intellettuali

ed artisti, italiani ed europei.

Come scrivono Deleuze e Guattari, prendendo in esame la scrittura epistolare di Kafka, «le lettere sono un rizoma, una rete, una tela di ragno. C’è un vampirismo delle lettere, un vampirismo propriamente epistolare»8: si tratta

di un flusso che, attraverso le varie lettere spedite ai familiari, agli amici e alle donne amate, scorre come quello sanguigno e rinforza l’organismo, continuamente assetato. Ogni lettera, pur inclusa in quel genere epistolare che Kafka stesso, e D’Intino dopo di lui, definiscono «diabolico», deve rifornire di sangue il mittente e il destinatario. Il sangue, infine, riceve sempre nuovo ossigeno nel proseguire della corrispondenza e fornisce così, ai due corrispondenti, la forza di sostenersi l’uno con l’altro e di continuare a creare9.

5 Grivel, La lettera che uccide, cit., p. 43. 6 Petrucci, Scrivere lettere, cit.

7 Così si espresse Carlo Bo, in un’intervista del 26 febbraio 1979, parlando delle sue prime

esperienze intellettuali e della nascita dell’ermetismo, oltre che di quei rapporti di vita che egli definì «astrali» (G. Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo, Marsilio, Venezia, 2005, p. 24).

8 Deleuze, Guattari, Kafka, cit., p. 53.

9 Per la metafora del flusso sanguigno si veda di nuovo l’opera sopra citata di Deleuze e Guattari,

in cui Kafka viene ritratto come un «Kafka-Dracula» in attesa di sangue e lettere (ivi, p. 54). Nell’interpretazione dei due studiosi è ancora Kafka, attratto dalla scrittura epistolare del passato, a fare di essa «un uso perverso, diabolico» e anzi, più precisamente, «diabolico in piena innocenza» (ivi, p. 52), mentre Franco D’Intino parla della lettera come di «un genere paradossale, quasi diabolico» (D’Intino, Pamela undressed, cit., p. 134). In entrambi i casi, dunque, come analizzato nel primo capitolo del presente lavoro, la lettera viene vista come un

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II.1 La scrittura epistolare

I carteggi italiani del Novecento testimoniano con le loro caratteristiche particolari, e analizzati nell’insieme, la vitalità ancora resistente del mezzo epistolare nel XX secolo. Di essi, e della specificità della lettera scritta e spedita per posta, hanno continuato ad occuparsi sia la teoria letteraria, che si è occupata soprattutto dell’analisi del genere epistolare, sia la semiotica, che tanto spazio ha riconosciuto all’epistolarità e alla sua comunicazione in absentia negli anni Settanta e Ottanta. Anche se oggi la lettera cartacea è stata quasi completamente superata dalla comunicazione digitalizzata, essa conserva ancora un duplice fascino: da un lato, l’attrazione esercitata dall’interpretazione e dall’indiscreto, perché la lettera «è il segreto che passa»10, come scrive Grivel, dall’altro il valore

storico-documentario, utile agli studiosi per ricostruire lo stile a tutto tondo di un autore o, come nel caso di più epistolari, un fenomeno o un’epoca storica. Le lettere infatti, in quanto documenti personali ma codificati socialmente, permettono se ben interpretate di aprire nuovi prospettive ermeneutiche sulla figura degli autori. Le lettere, come rilevavano Deleuze e Guattari circa l’epistolario di Kafka, sono parte integrante dell’opera di un autore: dal loro punta di vista privilegiato, insieme personale ma anche, inevitabilmente, frutto di una tradizione e codificazione storico-culturale, esse tramettono informazioni utili per comprendere azioni ed emozioni umane prese, però, nel continuum di un determinato svolgersi storico degli eventi.

Introducendo la sua monografia critica su La lettera e il romanzo, Margherita di Fazio inserisce la lettera privata nella «fitta e complessa rete di rapporti che si viene a determinare fra i personaggi»11 di una certa narrazione.

Anche se nel nostro caso non si tratta di una narrazione letteraria, bensì di eventi storici e di uomini, intellettuali, poeti ed artisti, realmente esistiti, possiamo