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Il primo incontro fra Bo e Betocchi avvenne intorno agli anni ’30, a Firenze. La città, che come afferma lo stesso Bo «era una città ancora domestica, familiare»45, viveva all’epoca un diffuso fervore culturale ed era divenuta «dimora

vitale per eccellenza»46 di molti giovani intellettuali ed artisti. Nonostante la

Grande Guerra e il fascismo avessero distrutto e continuassero a distruggere molte delle possibilità migliori per i giovani, compresa quella di imparare apertamente dal passato e dalla tradizione dei migliore maestri, Firenze era la ‘città giusta’ in Italia per continuare a fare progetti in grande e dedicarsi a solidi rapporti d’amicizia. Come più volte ripetuto da Carlo Bo, in un periodo caratterizzato dai divieti e dalle chiusure imposte dal Regime, la poesia rappresentava l’unica possibilità di un vero apprendimento e di profondità spirituale con i compagni, «l’unica attività pura e degna di essere vissuta»47. A

Firenze, dunque, si poteva respirare un clima particolarmente vivace dal punto di vista culturale e gli uomini, impegnati a capire i propri interessi e a farlo soprattutto attraverso la letteratura, si riunivano coi compagni in moderni cenacoli, gruppi di sodali nati all’interno delle università, delle librerie, delle riviste letterarie e, anche, dei numerosi caffè della città48. Condividendo così la

45 Intervista a Carlo Bo del 22 ottobre 1983, riportata in Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo,

cit., p. 190.

46 «… La pagina illustrata…». Prose e lettere fiorentine di Carlo Betocchi, a cura di M. Baldini, Società

Editrice Fiorentina, Firenze, 2004, p. 8.

47 Nell’intervista di Carlo Bo del 26 febbraio 1979, da cui è presa questa citazione, il critico

continua spiegando a Giorgio Tabanelli: «Che cosa voleva dire questa esaltazione della poesia? Voleva dire rifiuto della realtà, del mondo così come il fascismo ce l’aveva fatto, ce l’aveva presentato. Era la negazione di ogni forma di retorica, di tutto quello che del dannunzianesimo era passato nel fascismo, vale a dire l’esaltazione della romanità, della patria con la maiuscola, delle virtù civili e militari, dello spirito guerriero» (in Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo, cit., p. 24).

48 Ricordando il periodo giovanile fiorentino, gli amici, le riviste, e l’importanza della lettura, Bo

definisce la loro «una vita che si svolgeva o in biblioteca o nelle librerie e gran parte del tempo era apparentemente perduto nel caffè, vale a dire sembravano periodi di ozio mentre invece si avevano contatti. […] Le discussioni al caffè avvenivano sugli avvenimenti letterari […] non c’era questa rapidità, questa velocità che caratterizza il nuovo mondo e anche i libri non soggiacevano completamente a quella che è la regola della industrializzazione; e perciò erano dei punti di riferimento» (intervista del 22 ottobre 1983, in Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo, cit., p.190). Per un approfondimento sul ruolo dei caffè letterari, in Italia e in Europa, che dalle esperienze del XIX secolo ha condotto fino al novecentesco caffè fiorentino delle Giubbe Rosse, cfr. E. Livorni, The Giubbe Rosse Café in Florence. A literary and political alcove from Futurism to Anti-

53 vita e gli interessi intellettuali, le questioni private e quelle lavorative, le idee e i risultati delle fatiche e delle letture compiute in solitudine diventavano patrimonio comune di conoscenza attraverso le discussioni orali e quelle sulle pagine delle riviste. Come disse molti anni dopo lo stesso Bo in un’intervista del 26 febbraio 1979, ripensando a quegli anni così intensi,

sono tutti movimenti intrecciati e sempre in corrispondenza gli uni con gli altri. […] Per ricordare che non soltanto la nostra cultura era una cultura diretta attraverso gli organi dell’informazione, ma era anche una cultura di gruppo nel senso che eravamo in molti, eravamo giovani. Molti erano entusiasti e diventavano dei consiglieri, dei piccoli maestri. […] Era quindi un clima molto vivo al contrario di quello che succede oggi49.

Decisi a non cedere alle imposizioni che venivano dall’alto e a una politica che si sforzava di irreggimentare ogni aspetto delle loro esistenze, dalla vita pubblica a quella intima50, i giovani cercavano nella letteratura, in poesia e

nelle arti contemporanee «l’oggetto privilegiato» del loro discorso51. Essi,

insieme, tentavano di vivere seguendo soprattutto le proprie convinzioni e gli insegnamenti che si davano fra loro. «In un’epoca di grandi incubazioni», in cui sogni e speranze plasmavano un mondo «di vaste polivalenze»52, questo clima

diretto allo scambio era stato favorito soprattutto grazie alla realtà multiforme delle riviste letterarie.

Fascist Resistance, «Italica», a. LXXXV, n. 4 (2009), pp. 602-622, in cui Livorni scrive fin da subito: «The literary cafés in Italy and indeed all over Europe have made the history of culture and ideas of that country and that continent, at least, since the eighteenth century. The importance of cafés had noticeably increased throughout the nineteenth and the first half of the twentieth centuries, but it slowly diminished in the second half. […] One of the most influential cafés of the twentieth century in Italy from a literary and cultural viewpoint is the Caffé Letterario Giubbe Rosse in Florence […] [which] marked the first phase of the cultural history of the Kingdom of Italy until World War I. However, its ingluence continued even after the Great War in the period marked by the Fascist regime in Italy […]» (ivi, p. 602).

49 Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo, cit., pp. 21-28.

50 Giorgio Luti, nell’affrontare la letteratura, e quindi soprattutto le riviste, del ventennio fascista,

non può non sottolineare come il confronto col Regime fascista sia stato spesso indirizzato verso una forma di collusione, più o mena aperta, una forma di «compiacente ospitalità» della cultura nella politica, o, in seguito, di una «rivoluzione bianca» (cfr. G. Luti, La letteratura nel ventennio fascista. Cronache letterarie tra le due guerre: 1920-1940, La Nuova Italia, Firenze, 1972).

51 G. Innamorati, Tra critici e riviste del Novecento, Nuovedizioni Enrico Vallecchi, Firenze, 1973,

p.59.

52 L. Bedeschi, Il tempo de «Il Frontespizio». Carteggio Bargellini-Bo, 1930-1943, Camunia, Milano,

54

Se i primi decenni del Novecento erano stati caratterizzati da quelli che Giorgio Luti definisce, nell’ordine, «il clima contraddittorio della cultura vociana» e il suo «neoromanticismo», le «irruenze lacerbiane», «le avventurose ed incerte formulazioni del futurismo marinettiano» e, di contro, il programma inizialmente «antimarinettiano» della «Ronda»53, negli anni Trenta erano

numerose le riviste nuovamente fiorite a Firenze e in altre regioni italiane. Esse, come rileva Luti, si trovarono a dover scegliere se «accettare una civiltà antiumana che chiuda l’uomo di cultura in un misero cerchio nazionalistico o il ritorno a quella “civiltà intellettuale”, postulata come unico sbocco positivo di una moderna cultura»54. Percorrendo dunque la seconda strada, divennero lo

strumento ideale per la maturazione di numerosi sodalizi umani ed intellettuali, consolidando l’idea di una letteratura «intesa come aggancio reale alla vita»55.

Alternativamente, infatti, ci si è riferiti a questo periodo del Novecento, soprattutto alla sua prima metà, come alla stagione delle lettere, per la quantità delle scritture epistolari, ma anche alla «ventura delle riviste», secondo il titolo della monografia di Augusto Hermet56. Per questi uomini, giovani e meno

giovani, dallo spirito affine, le numerose riviste e i fogli nati in questi anni rappresentavano la possibilità concreta di operare senza remore come «maestri di e tra loro stessi»57. Inoltre, nonostante la censura fascista e le leggi sempre più

stringenti del fascismo, si assistette a quella che nella maggior parte dei casi fu una generale libertà delle pagine culturali. Spesso, infatti, nacquero numerose polemiche, all’interno del dibattito letterario: definendole «battaglie furiose che ricordano le zuffe tra i polli di Renzo», Luigi Baldacci le ricollega ad una strategia precisa del regime fascista, che «trae buon gioco da quelle battaglie per lasciar credere che esista ancora un simulacro di libertà di stampa e di pensiero»58. Esse,

comunque, permettono di seguire le tracce del dibattito culturale italiano e di far conoscere ai lettori dell’epoca situazioni ed esperienze altrimenti sconosciute.

53 Luti, La letteratura nel ventennio fascista, cit., pp. 1, 17-18. 54 Ivi, p. 106.

55 Ivi, p. 124.

56 A. Hermet, La ventura delle riviste (1903-1940), Vallecchi, Firenze, 1941. 57 Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo, cit., p. 81.

58 L. Baldacci, Movimenti letterari del Novecento italiano, in E. Ronconi (a cura di), Dizionario della

55 Basti pensare, guardando da vicino l’esperienza ermetica, a cosa rappresentò nel 1936 la guerra civile spagnola e come essa, grazie alle riviste, riuscì a infondere una nuova consapevolezza. Ciò, infine, nel periodo che viene giustamente ricordato anche per la quantità delle traduzioni svolte e di una generale apertura della cultura italiana all’Europa.

Proprio una delle riviste fiorentine, «Il Frontespizio», è stata dunque protagonista sia di questa ‘libertà’ culturale di letture, traduzioni, dibattiti e discussioni, sia del fertile incontro tra Bo e Betocchi. Come verrà poi analizzato nei capitoli successivi, molta, se non «tutta l’animazione»59 dell’amicizia fra i due

corrispondenti è infatti legata a questo importante ‘catalizzatore’ che è stato «IlFrontespizio». La rivista, fondata all’indomani del concordato tra Stato fascista e Santa Sede, come ricorda Giorgio Luti, ha riproposto ‘praticamente’ ai cattolici «l’inserimento attivo nella vita sociale e culturale del paese»60. Se dunque

«la coincidenza fra situazione politica e cattolicesimo appare in piena luce», la rivista è capace fin da subito di incontrare «il favore della media borghesia»61.

Tutti coloro che la fondarono o vi collaborarono, inoltre, da Bargellini a Betocchi, da Lisi a Bo, da Luzi a Fallacara, concordano nel dire che «IlFrontespizio» è stato più una famiglia, un gruppo legato da amicizia e fedeltà reciproca, che una rivista o una redazione. La pubblicazione venne fondata a Firenze, nel 1929, da Papini e Bargellini, sulla scia di un precedente tentativo durato soltanto un anno, il «Calendario dei pensieri e delle pratiche solari», risalente al 1923 e sempre voluto da Bargellini, Betocchi e Lisi62. Maturati rispetto

alla precedente esperienza, i giovani avevano quindi superato la dimensione del «Calendario» e, pur conservando una parte importante alla tradizione toscana, avevano fondato, grazie all’appoggio di Papini, un Bollettino Bibliografico della Libreria Editrice Fiorentina.

59 Betocchi, 21 giugno 1941 [78].

60 Luti, La letteratura nel ventennio fascista, cit., p. 176. 61 Ivi, p. 177.

62 Cfr. P. Bargellini, C. Betocchi, N. Lisi, Il calendario dei pensieri e delle pratiche solari (1923), testo

56

L’azione della rivista, fin dall’inizio, mostra una certa vivacità culturale e un’«azione più complessa e ambiziosa»63 del semplice bollettino bibliografico:

«IlFrontespizio», dunque, vede presto aumentare il numero delle pagine, quello dei collaboratori, il tipo di contenuti culturali affrontati e, infine, il cambio di periodicità che lo renderà un mensile. Tutti i compilatori, perciò, iniziarono ad incontrarsi con scadenza settimanale nel “bozzo” (la tana, il buco) di piazza de’ Giuochi a Firenze, per discutere dei saggi che poi avrebbero preso forma nell’edizione cartacea. Questi significativi incontri, che si svolgevano in uno spazio ristrettissimo e a volte nei caffè letterari, ma anche in piazza, o a casa di qualche redattore, sprigionavano allegria, ironia e una cordialità calda e senza limiti, un senso di reale fratellanza che non è stata più dimenticata da nessuno. I protagonisti di questa esperienza, infatti, divennero poi non soltanto attenti ed esperti collaboratori, ma intimi e fraterni amici. Per questa sua dimensione intima l’ambiente del «Frontespizio», ricco di collaboratori intelligenti e appassionati, ma prima di tutto amici, ha avuto un riferimento centrale nel «grande amico» di Alain- Fournier64, cioè quel romanzo Le Grande Meaulnes che era uno dei testi

preferiti dai frontespiziai. L’autore, nella prima lettera del carteggio fra Bo e Betocchi, viene affettuosamente citato come «il nostro Fournier»65: tanto nel

paese d’ispirazione quasi favolistica del romanzo, quanto nella società fiorentina degli anni Trenta, non erano importanti l’età o la provenienza, le idee politiche o le diverse attitudini dei collaboratori, bensì la riconosciuta bontà ed onestà di ragazzi e uomini che lavoravano insieme.

Tra questi ‘grandi amici’ e frequentatori abituali del “bozzo” c’era, in primis, Bargellini, che dirigeva la rivista con l’indole innata e sentita del maestro, quasi un moderno Chirone che riusciva a coordinare il lavoro, e i numerosi collaboratori, grazie all’intelligenza e al «suo principio organizzativo utile allo

63 Luti, La letteratura nel ventennio fascista, cit., p. 183.

64 Bedeschi, Il tempo de «Il Frontespizio», cit., p. 79. il «grande amico» cui ci si riferisce qui è il

protagonista del romanzo di Alain-Fournier, Il grande Meaulnes [1913], a cura di Y. Melaouah, Feltrinelli, Milano, 2013.

57 splendore dell’espressione»66. I più affermati, Giuliotti e Papini, costituivano per

tutti un modello di confronto sempre aperto; Lisi, il prosatore «celeste»67 il cui

mestiere «era quello di favoleggiare»68, trovava ispirazione negli antichi testi

religiosi e nelle sacre rappresentazioni per costruire una favola che, come ha scritto Bo nel 1935, «allora parve quasi sempre perfetta, né oggi si è dovuto modificare la nostra opinione»69; Betocchi, e tutta una «specie della buona

gioventù»70 dell’epoca, gravitavano nell’orbita del «Frontespizio» affascinati da

questa realtà composita e familiare. Se il «molto semplice e disinteressato» Betocchi, «poeta d’istinto ma di professione agrimensore»71, aveva già condiviso

con Lisi e Bargellini l’esperienza del «Calendario» e partecipava ora alla rivista, anche arrivando in fretta alle riunioni, simile a una folata di vento, e ripartendone dopo, quasi subito, il giovane Carlo Bo, venuto a Firenze per studiare Lettere all’Università, era stato attirato dalla complessa figura di Papini. Proprio per fare la conoscenza di questo «primo autore italiano che mi abbia aperto le strade della nuova letteratura»72, dirà lo stesso Bo, egli aveva iniziato a partecipare a questi

incontri già dal 1929. Grazie ad un professore universitario, che glielo aveva fatto conoscere, egli ricorderà dunque il «Frontespizio» non solo come

la prima rivista che mi abbia aperto le sue porte, ma un gruppo di persone che non erano soltanto dei letterati, dei poeti, dei narratori, dei saggisti ma erano qualcosa di diverso, che si distinguevano soprattutto per il grande senso di umanità e amicizia che avevano. […] Non erano quindi dei letterati

66 La citazione viene usata da Betocchi, riferendosi all’intelligenza organizzativa di Bargellini, in

una lettera del 31 gennaio 1952 indirizzata allo stesso Bargellini, Bo, Piccioni ed Enrico Vallecchi (cfr. Appendice n.1).

67 Bo, nella lettera a Betocchi del 15 maggio 1946 [95], si riferisce al «Frontespizio» e alle opere

di Nicola Lisi, di quegli stessi anni, definendole il «clima celeste lisiano»: come scrive lo stesso Lisi, dedicando a Bo il Paese dell’anima (Il Frontespizio, Firenze, 1934), «I nostri corpi ciondolanti, caro Bo, sono per le lastre delle città, ma le anime per silenziosi e incantati paesi. Eccone uno. Vorrei che ora fosse più tuo che mio. Nicola Lisi Firenze 9 Novembre 1934 (XIII)» (la dedica è riportata nella copia di Paese dell’anima conservata presso la Biblioteca della Fondazione Carlo e Marise Bo di Urbino, coll. LL 06.03.03K LISIn(a)009).

68 Betocchi, ricordando le prime prose pubblicate da Lisi sul «Calendario», dichiara: «Sono tutti

componimenti in cui Lisi favoleggia, il mestiere di Lisi era quello di favoleggiare. Era un sognatore, sì, ma nutrito da una profonda fede religiosa e da una cultura ricca di letture di autori dei grandi secoli toscani, del Trecento e del Quattrocento» (intervista a Giorgio Tabanelli del 13 settembre 1981, in Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo, cit., p. 59).

69 C. Bo, L’eterno paese, «Il Frontespizio», n. 1, a. VII (1935), p. 27. 70 Bargellini, Betocchi, Lettere, cit., p. 83.

71 Bedeschi, Il tempo de «Il Frontespizio», cit., p. 34.

72 M. G. Rabiolo, Leggere il Novecento con Carlo Bo, Radiotelevisione svizzera di lingua italiana,

58

puri, erano prima di tutto degli uomini, degli uomini credenti, degli uomini di fede e delle persone molto oneste73.

I collaboratori della rivista, infatti, erano accomunati dalle passioni letterarie ma, prima di tutto, dall’importanza tributata all’uomo, nella sua totalità, e dalla fede cristiana. Molti, come Betocchi, partito dall’Istituto Tecnico, soldato nella Prima Guerra Mondiale e volontario in Libia, agrimensore in giro per l’Italia, non erano infatti dei ‘letterati puri’, ma uomini che lavoravano e si dedicavano con passione a tutto ciò che li interessava, scambiandosi poi commenti ed esperienze. Per il poeta, ma anche per i suoi compagni dell’epoca, la fatica del lavoro e l’umiltà erano dunque al centro dello spirito e diventavano sostanza principale della letteratura, ciò che essi cercavano dalla lettura e dall’incontro con altri uomini e altre opere. Forti di questa loro vicinanza spirituale, a prescindere dall’argomento e dagli specifici campi d’interesse, i frontespiziai vivevano dunque in un clima che non era mai chiuso o soffocante. Anche ai giovani era sempre garantito un ampio spazio di partecipazione e di parola, all’interno di un gruppo in cui tutte e tre le generazioni individuate da Augusto Hermet, «magni, medi e giovani»74, potevano collaborare alla miglior

riuscita del progetto comune.

Come scrive lo stesso Hermet, «chi legge la rivista non si immagina quanto costi quella sua compatta coerenza, quanto fermento di vita sia sotto le belle pagine nitide e ariose. Non s’immagina che quell’aria spregiudicata e quella sicurezza siano il risultato di una ricerca e di un impegno serissimo»75, del

confronto si potrebbe dire accanito fra diversi gusti e criteri d’interpretazione. Gli incontri liberi e spesso spontanei dei redattori e la loro organizzazione interna, altrettanto libera da vincoli se non quelli delle competenze e degli interessi personali, sono stati la forza della rivista e la profonda novità che essa ha portato nel panorama culturale di quegli anni.

73 Intervista di Carlo Bo del 12 agosto 1981, contenuta in Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo,

cit., pp. 45-46.

74 A. Hermet, Lunedì al «Frontespizio», «La Festa», 28 aprile 1938. 75 Ibidem.

59 Tutte le riviste, coi loro programmi più o meno definiti, diventavano gli organi di trasmissione attraverso i quali le discussioni non erano più semplici chiacchiere da caffè all’aperto, ma venivano tramutate in articoli divulgativi. Spesso questi testi rappresentavano per i lettori italiani la prima occasione di conoscere o approfondire diverse questioni e in questo modo, a differenza di quanto auspicato da Mussolini, la cultura italiana si stava aprendo verso una dimensione europea. Dalle pagine dei giornali si cercava di far conoscere la stessa verità in altre letterature e così sanare, anche in Italia, «la segreta dialettica fra tradizione e innovazione», approfittando di questa possibilità per «riprendere il discorso dove era stato interrotto dalle avanguardie tenendone il massimo conto»76. Gli argomenti trattati riguardavano l’arte, la poesia, la letteratura, la

lingua e la cultura dell’epoca, ma soprattutto grazie alla «Nouvelle Revue Française», «la vivandiera di quegli anni di tutte le letterature»77, la Francia (e Bo

come mediatore di essa) acquistava sempre maggior importanza, agendo da filtro per rendere la realtà della letteratura italiana più aderente all’uomo, più esistenzialista ed essenziale nei temi affrontati. La fede cattolica e la coscienza dei collaboratori del «Frontespizio» divenivano, quindi, metro di giudizio su autori ed opere destinati ad avere un certo impatto nel panorama letterario dell’epoca, testimoniando che era finito il tempo di Marinetti o D’Annunzio. Grazie a uomini come Bo e Betocchi si apriva una stagione letteraria centrata sulla ricerca di quella che lo stesso Betocchi definirà poi la «radice del cuore umano che trascende e che supera ogni limite, anche della stessa dottrina»78: la

riflessione di Bo su Letteratura come vita, infatti, è nata da una risposta «non narrativo-descrittiva della vita come letteratura ma viceversa come responsabilità della letteratura verso la vita, come totale responsabilità della letteratura verso la vita»79. Come scrive poi anche Fallacara, nell’introdurre l’antologia delle pagine

scelte del «Frontespizio»,

Così si può dire, non c’è romanzo, non libro di racconti pubblicati in quegli anni che non venissero passati a questo vaglio che metteva in evidenza

76 Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo, cit., p. 84. 77 Bedeschi, Il tempo de «Il Frontespizio», cit., p. 86. 78 Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo, cit., p. 163. 79 Ivi, p. 164.

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l’anelito alla spiritualità e smascherava ogni finzione, ogni maniera, ogni compiaciuto sfogo di sensualità, come ogni falso spiritualismo, ogni tendenza pseudo-mistica o estetizzante80.

La direzione spirituale cercata e intrapresa dalla rivista fiorentina, in ogni ambito culturale, era un modo trasgressivo ed anticonformista di rifiutare la retorica imposta dal fascismo, riconoscendosi in una dichiarata e fondante vena cattolica seppur, inevitabilmente, «intrisa di inquietudini agostiniane e pascaliane»81.

Nonostante i diversi modi di vivere e intendere la religione, tutti, compresi Papini, Bo, Betocchi, Bargellini e Lisi, erano convinti che non si potesse mai