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I rapporti che si sono creati grazie alla rivista fiorentina del «Frontespizio» sono continuati, negli anni, grazie al lavoro nuovamente condiviso in altre occasione e all’imprescindibile strumento della scrittura epistolare. Le lettere, infatti, hanno accompagnato con il loro susseguirsi la nascita e la maturazione di molte amicizie, come appunto quella fra Carlo Bo e Carlo Betocchi. Nel rapporto intimo creato fra i due corrispondenti, fin dal 1934, colui che scrive per primo e più assiduamente è senza dubbio Betocchi. Se il poeta, nello scambio epistolare con Bargellini, si rivela anche al lettore su un piano più semplice e immediato di fratellanza e collaborazione (vissuta fin dalle scuole superiori), con Bo, almeno all’inizio, appare ancora quasi incerto di sé, timoroso e deferente. Nel critico sestrese, però, egli ha fin da subito identificato «una occasione di fraternità»114, una «cara, grande e cara figura di necessario

indimenticabile amico»115. Nonostante Bo con la sua saggezza, già in giovane età,

gli incuta anche una certa soggezione, il poeta non si tratterrà mai dallo scrivergli e considerarlo uno dei suoi interlocutori ideali.

Già dalla seconda lettera che manda a Bo, Betocchi gli esprime fiducioso le sue intenzioni, scrivendogli: «Conto più qua di scriverti qualche lettera per mio assottigliamento e d’intrattenere con te una corrispondenza utilissima. Ho bisogno di patire e di gualcirmi. È necessario frequentarti»116. L’amico, nonché

maestro, è troppo prezioso per interrompere una corrispondenza epistolare capace, per entrambi, di chiarificare le ragioni del lavoro letterario e quelle dell’anima. Quasi fosse frutto di un imperativo categorico kantiano, Betocchi afferma più volte, lungo tutto l’arco cronologico della corrispondenza, la

113 Betocchi, 16 gennaio 1955 [145]. 114 Betocchi, 16 gennaio 1955 [145]. 115 Betocchi, 27 dicembre 1978 [418]. 116 Betocchi, 8 novembre 1934 [3].

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necessità di frequentare e dialogare con Bo: essi hanno bisogno di approfondire «l’intimità culturale e spirituale»117 delle proprie ragioni e Betocchi, soprattutto,

non potrà più non rivolgersi alla «ricca indimenticabile anima di Carlo Bo, la sua freschezza e commozione originale e il controllo così necessario delle sue ragioni, così valide e vere anche oggi»118.

Come gli scrive infatti Betocchi nella lettera del 18 dicembre 1938, la sua riconosciuta umiltà di uomo e di poeta sembra essere «indegna» di una tale grazia, che consiste non solo nella conoscenza affettuosa ma anche nell’attenzione critica dell’amico.

Vedi dunque tu da quale scarso uomo ti viene un ringraziamento indegno della fatica e dell’intelligenza dell’opera che mi hai regalata119: adagio adagio

vorrei piegarmi a riconoscermi per primo così. Perché temo proprio che fino ad ora la mia umiltà non fosse altro che una virtù, invece di un sacrificio che bisogna riconoscere sul luogo quant’è duro, quant’è privo di consolazioni120.

Nel rapportarsi con l’acutezza del suo destinatario e «quella intricata selva di motivi che si agita nel tuo spirito, da me ammiratissima»121, Betocchi si rivela

dunque come ogni mittente «troppo grande e al tempo stesso troppo debole per la scrittura»122. Egli confessa nelle lettere a Bo il profondo desiderio di essere

«soltanto un poeta»123 e al contempo, come direbbe Roland Barthes, afferma la

potenza capricciosa di una scrittura che invece gli sfugge e gli fa chiedere con dolore, a Bo e insieme a se stesso, «da quando in qua si fa il poeta per volontà di farlo»?124 Le lettere, comunque, riescono con la loro pratica quotidiana a

infondergli sicurezza e Bo, con i suoi numerosi scritti, è dunque l’amico da

117 Lettera di Betocchi a Raffaele Crovi del 6 marzo 1979, allegata a quella per Bo del 6 marzo

1979 [421] (cfr. Appendice n. 22).

118 Lettera di Betocchi indirizzata a Piero Bargellini, Carlo Bo, Leone Piccioni ed Enrico Vallecchi

del 1° febbraio 1952, allegata a quella per Bo del 31 gennaio 1952 [121] (cfr. Appendice n. 1).

119 Probabilmente Bo ha inviato all’amico, in regalo, una copia della sua monografia Delle immagini

giovanili di Sainte-Beuve (Parenti, Firenze, 1938): quest’opera, ulteriore frutto di una grande intelligenza, ha suscitato in Betocchi un’accorata riflessione sulla sua figura di poeta e sull’umiltà, assediata dalle continue seduzioni dell’anima.

120 Betocchi, 18 dicembre 1938 [67]. 121 Betocchi, 27 febbraio 1935 [16]. 122 Barthes, Frammenti, cit., p. 184. 123 Betocchi, 8 novembre 1934 [3].

124 Lettera di Carlo Betocchi a Piero Bargellini del 27 agosto 1936 [63], in Bargellini, Betocchi,

69 ringraziare sempre, perché, come gli scrive il 22 gennaio 1937, «Mio carissimo Carlo, che piacere le tue parole: e soprattutto sapere che mi sei vicino e mi sogni. Sai che non c’è dono più grande – per me – dell’attenzione intelligente»125.

Quanto più Betocchi si sente umile e povero di fronte al mondo e al difficile dono della poesia, tanto più egli riconosce ed ama in Bo quella fermezza di pensiero e quella maturità che lo contraddistinsero fin da giovane nelle «lotte a cui siamo dedicati»126. Betocchi sa bene che «tutto è difficile a questo mondo,

per noi che siamo troppo soggetti al mondo; […]. Restano sul limite delle cose possibili le cose amate; meglio sarebbe che decampassero verso le impossibili»127.

Di fronte a questa difficoltà, dunque, egli sente e confessa sinceramente all’amico «il desiderio di continuare con te una corrispondenza che non ho mai tenuta con alcuno e che credo potrebbe essermi utilissima»128.

La vita e la letteratura, temi principali del loro dialogo, non possono dunque mai essere considerate semplici, perché «implicano l’intelligenza delle cose»129 e un continuo scandaglio di se stessi. La poesia e la critica letteraria, per

due corrispondenti che non le praticano, ma le vivono, sono dunque all’insegna del dubbio cartesiano e vivono del «dualismo perenne del cristiano»130. Come già

rilevato nell’affrontare l’esperienza del «Frontespizio», nella letteratura che Bo indica come l’unica «degna di questo nome»131, «la realtà non è il realismo, ma la

coscienza intera dello scrittore»132. L’uso del linguaggio e gli strumenti critici che

si riversano nelle proprie opere, o si affinano nell’interpretazione delle opere altrui, mettono in crisi le proprie conoscenze ma, soltanto così facendo, riescono ad alimentare un’insaziabile voglia di capire il mondo e la sua complessità. Per spiegare questo rapporto di approfondimento, dovuto alla lettura e alla

125 Betocchi, 22 gennaio 1937 [34]. 126 Bo, 21 novembre 1934 [5]. 127 Betocchi, 5 giugno 1938 [54]. 128 Betocchi, 27 febbraio 1935 [16].

129 A. Spadaro, Abitare nella possibilità. L’esperienza della letteratura, Jaca Book, Milano, 2008, p. 19. 130 Il Frontespizio, cit., p. 15: per dualismo del cristiano si vuole intendere, con gli inevitabili risvolti

positivi e negativi, la sua connaturata umanità. L’uomo infatti, creato da Dio, guarda continuamente verso l’alto per tornare a Lui, ma allo stesso tempo il suo essere è “bloccato” sulla terra fino alla morte: solo da qui egli può cercare di rendere onore al dono della vita che gli è stato fatto, pur nella sua limitatezza.

131 C. Bo, Non fu tutto inutile il lavoro di un ventennio, «L’Europeo», 19 maggio 1966. 132 Il Frontespizio, cit., p. 15.

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maturazione della parola nell’anima dello scrittore, o del critico, e del poeta, Betocchi usa l’immagine della frutta che matura e, anche se marcisce, «poi germina»133. Vivere la vita con serietà, scrive spesso Betocchi sia a Bargellini che

a Bo, è il nostro primo dovere di uomini: se la letteratura, in quanto «evento umano», non «coinvolge l’uomo e il suo essere a questo mondo fin dalle midolla»134, non ha senso che venga scritta e ancor meno che venga letta.

Antonio Spadaro, nella sua introduzione al volume Abitare nella possibilità. L’esperienza della letteratura, dichiara infatti che

ogni poesia, ogni racconto, ogni romanzo, dunque, è un atto critico nei confronti della vita. Chi scrive prende posto nell’universo e, a partire da questa posizione, in modo realistico, fantastico, utopico o satirico, elabora il proprio mondo, reinterpretando, amando o contestando quello nel quale «siede» […], cogliendo il suo potenziale di energia e di significato135.

Tutta l’esperienza critica di Bo, infatti, è stata il suo tentativo di prendere posto nel mondo, come scrive Spadaro, e attraverso la lettura svelare come dietro ad ogni cosa «c’era un uomo, c’era una certa dignità di uomo»136 alla quale non si

doveva venire mai meno o, almeno, cercare di farlo. Anche la sua scrittura epistolare, nonostante Barthes affermi che la lettera è sempre un’umana «testimonianza d’insincerità»137, prende posto nel cuore dell’altro e, come le

opere letterarie, riesce a spiegarne dei lati a volte nascosti dall’esperienza. In questi anni caratterizzati dalle tragedie della storia, e in seguito dai cambiamenti della modernità, si deve a uomini dalle grandi qualità morali ed al «massimo sforzo possibile per i tempi», compiuto da Bo, ma anche da Betocchi, «se la letteratura finì di essere un gusto o un ozio o una polemica o un gesto e diventò immagine di vita, azione letteraria, ricerca e possesso della verità che ci supera, e mentre la politica le imponeva la sua eloquenza e la sua prassi»138.

133 «Certo io voglio leggere piuttosto poeti e poesie, come ho fatto in certi miei ultimi giorni di

malattia; e ne sono tuttora guasto; al modo di quelle certe frutte maltite che poi germinano»: con queste parole, nella lettera a Bo del 4 gennaio 1935 [13], Betocchi indicava la volontà di lasciarsi germinare dalla parola poetica, nonostante la difficoltà e il lavorio sotteso a questo processo.

134 Spadaro, Abitare nella possibilità, cit., p. 21. 135 Ivi, p. 20.

136 C. Bo, Dagli atti del convegno in memoria di Leone Traverso, in Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo

dell’ermetismo, cit., p. 203.

137 Betocchi, 26 novembre 1937 [44]. 138 Il Frontespizio, cit., p. 18.

71 Attraverso le missive e gli anni che passano, vediamo dunque delinearsi il profilo simile negli intenti ma ben distinto, nel lavoro materiale, di due personalità complementari: il poeta, nato agli «esercizi di poesia per le vie dell’allegrezza»139, e il critico saggista, a cui «la letteratura non più come un argine

artificiale di bellezza ma come nozione di verità» dava l’enorme «speranza di raggiungere un limite eterno di resistenza e d’interpretazione»140. Nella prima

lettera del 1938, anno che funge da crocevia della loro amicizia, Betocchi si rende ormai pienamente conto di questa loro diversa identità: «beate le soluzioni dettate dalla volontà e dall’ordinamento intellettuale, ma io amavo le felicità donate ed ero nato per scrivere quelle, l’essere naturale nella sua spontanea felicità»141. Qualche anno prima, in una lettera a Bargellini, lo stesso Betocchi

aveva scritto ancora più chiaramente che «la critica […] la faccio e la farò sempre a malincuore e non bene, anzi male»142, anche se essa procede di pari passo col

lavoro poetico e obbedisce ai suoi bisogni. A differenza di Bo, un critico letterario e un maestro, nel proporre la sua idea, Betocchi è stato soprattutto un poeta: è vero che si è impegnato nella maniera più seria nelle redazioni delle riviste, nella scelta e nella cura dei contributi critici, nella scrittura personale di alcuni saggi, ma la sua più profonda ispirazione è sempre rimasta quella poetica, una certa maniera di guardare alle cose e cercare, in esse, «i fatti della poesia»143.

Nella prefazione a Confessioni minori, di Betocchi, il curatore Sauro Albisani scrive, infatti, che «la saggistica di un poeta non è mai separabile dai suoi versi e dalla sua poetica»144. L’autore di tanti e mirati articoli, col «suo solitario e

139 C. Betocchi, Diario della poesia e della rima, in Confessioni minori, a cura di S. Albisani, Sansoni,

Firenze, 1985, p. 408.

140 Bo, Diario aperto e chiuso, cit., p. 18. 141 Betocchi, 5 giugno 1938 [54].

142 Lettera di Carlo Betocchi a Piero Bargellini del 7 agosto 1935 [50], in Bargellini, Betocchi,

Lettere, cit., p. 91.

143 Betocchi, ricordando le origini del «Frontespizio», ricorda come la poesia sia sempre frutto

della carità e come in essa il poeta debba scoprire «qualche termine, qualche moto di relazione con l’altro diverso da te, con l’universo, tale che ti faccia capire che tu l’hai compreso, hai compreso qualcosa di originale e hai fatto la carità a costui». Questi sono per lui i «fatti della poesia»: immedesimarsi, in sé e in tutte le cose (cfr. intervista di Carlo Betocchi del 13 settembre 1981, riportata in Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo, cit., p. 67).

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rabdomantico fiuto critico»145, resta pur sempre un poeta, nonostante si sia

dedicato alla prosa con coscienza e con una solida formazione culturale. La prima vocazione di Betocchi è la poesia, quella musa così inafferrabile, capricciosa e difficile da domare che gli fa scrivere a Bargellini, al fondo di uno dei suoi tanti testi poetici non ancora ritenuti perfetti: «ma, purtroppo, è noto che cosa fatta capo ha; io non sono mai riuscito a correggere una poesia»146, come

a dire, ognuno capisca ciò che è e lo accetti.

L’anno successivo a questa lettera, nel 1937, Bargellini scrive a Bo una sorta di raccomandazione e, con un meraviglioso commiato, lo consegna dalle pagine del «Frontespizio» al suo futuro di critico. Egli rassicura il giovane di essere pronto per il futuro e gli rivela tutta la sua profonda stima: Bo, con la sua «irruzione nella critica letteraria, ne spostava [finalmente] l’asse dal regime politico al dialogo, dalle tinte della mente ai colori dell’anima»147. Egli si era

dunque già rivelato a tutti «ormai critico affermato»148 e Bargellini, come aveva

fatto con la prima raccolta poetica di Betocchi, non poteva mancare di testimoniargli tutto il suo orgoglio:

sono contento di te. Mi accorgo che non ti perdi, che ti affermi nell’anima, che ti arricchisci, che ti affini. Non è questione di letteratura, ma di qualcosa di più profondo. A volte, vedendoti invaghito di qualche autore che non amo, ho temuto di te, ma poi ho visto che non ti lasci invischiare. Ti sai tirar fuori pulito e netto come un cristallo. Ti voglio sempre più bene e penso a te come al migliore di noi tutti; non solo migliore come scrittore e critico, ma come uomo, come cristiano149.

Dopo un intenso percorso fiorentino, Bo è diventato a sua volta un maestro, un punto di riferimento per altrettanti giovani. Bargellini, con la sua consueta attenzione e intelligenza, gli scrive quindi nell’ultima lettera del loro carteggio:

tutto quello che di buono c’è in questo nostro essere tu lo esprimi in modo mirabile. Ecco perché io ho sempre creduto nella bontà della tua critica. Noi siamo sempre portati a giudicare e a distinguere, a rifiutare e ad accettare.

145 Ivi, quarta di copertina.

146 Lettera di Carlo Betocchi a Piero Bargellini del 13 maggio 1936 [56], in Bargellini, Betocchi,

Lettere, cit., p. 97.

147 Bedeschi, Il tempo de «Il Frontespizio», cit., p. 82. 148 Ivi, p. 78.

149 Lettera di Piero Bargellini a Carlo Bo del 14 luglio 1937 [104], in Bedeschi, Il tempo de «Il

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Tu invece entri dentro e dici: è così. La tua non è abilità critica o sensibilità d’occhio. È capacità d’anima. […] E che cosa può esser mai il cattolicesimo se non questa capacità di vivere in comunione d’anima150?

Le lettere di Bo e Betocchi, insieme alle numerose testimonianze epistolari di Bargellini, dimostrano come la loro comunione d’anime s’inneschi non solo su quella con gli autori letti, ma sui rapporti ‘tentacolari’ fra i cosiddetti «fratelli d’arte»151. Citando Goethe, e volendo sottolineare la dimensione corale

dei loro scritti, e della loro progressiva maturazione, Carlo Bo scrive a Betocchi queste sentite parole: «Stiamo tutti creando: e siamo tutti debitori e creditori a vicenda»152. L’amicizia, e la condivisione del lavoro, permettono dunque ai due

amici, collaboratori e corrispondenti di vivere in un «mondo puro»153, le cui

parole scritte testimoniano, ancora oggi, quanto in ognuno di loro sia debitore all’incontro con l’altro.

Come già notato nell’introduzione al presente lavoro, la scrittura epistolare può rappresentare un’estensione del saggio di Eliot sul rapporto fra tradizione e talento individuale. Alla luce della citazione di Goethe, riportata da Bo sul retro del suo Letteratura come vita, inviato a Betocchi, emerge chiaramente che

nessun poeta, nessun artista di nessun’arte, preso per sé solo, ha un significato compiuto. La sua importanza, il giudizio che si dà di lui, è il giudizio di lui in rapporto ai poeti e agli artisti del passato. Non è possibile valutarlo da solo; bisogna collocarlo, per procedere a confronti e contrapposizioni, tra i poeti del passato154

e, ovviamente, anche tra gli uomini del presente in cui vive.

150 Lettera di Piero Bargellini a Carlo Bo del 10 ottobre 1943 [146], in Bedeschi, Il tempo de «Il

Frontespizio», cit., p. 262.

151 P. Bargellini, Fratelli d’arte, «La Festa», 24 gennaio 1943.

152 Bo, agosto 1938 [58], poi pubblicata come C. Bo, Letteratura come vita, «Il Frontespizio», a. X,

n. 8 (1938), pp. 476-477. Il critico, dopo averla mandata a Bargellini, spedisce a Betocchi la risposta al suo Della letteratura e della vita e il testo, dattiloscritto, è corredato da un breve messaggio manoscritto: «Caro Carlo, ecco la risposta che ho spedito a Bargellini. Qui ti ringrazio ancora delle buone troppo buone parole per me. Stiamo tutti creando: e siamo tutti debitori e creditori a vicenda. Ti abbraccio. Tuo aff. Carlo».

153 Betocchi, 16 maggio 1940 [71]. 154 Eliot, Tradizione, cit., pp. 69-70.

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