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Una «corrispondenza utilissima» alla prova del tempo

Nel voler rendere testimonianza del confronto fra due vite tanto affascinanti, quanto complesse, il carteggio racconta un percorso di vita e di scrittura che va dal 1934 e arriva al 1985, pochi mesi prima della morte di Betocchi. Le tappe principali di questo lungo dialogo sono scandite dal lavoro intellettuale dei due corrispondenti e, nei primi anni, soprattutto dalla collaborazione al «Frontespizio», una breve stagione talmente splendente da illuminare con la sua luce riflessa tutti gli anni successivi. Se gli anni dal 1934 al 1938, come già ricordato, rappresentano l’epoca favolosa in cui «reale giovinezza e reale poesia erano una cosa sola»155, il 1938 ha rappresentato il culmine

dell’attività della rivista fiorentina e il punto di svolta sia per Bo che per molti degli ermetici. Come il 1936, l’anno della guerra civile spagnola, ha rappresentato il sorgere e l’acquisizione di una nuova coscienza critica, da parte dei giovani, il 1938 ha segnato un prima e un dopo nell’attività della rivista frontespiziana e nella vita di Carlo Bo. Sotto la guida di Bargellini affiancato da Papini e Soffici, con redattore Barna Occhini, quella stessa rivista che finora era stata «una specie di lettera circolare che si mandava agli amici […] e che trovava poi […] una rispondenza, una risonanza»156, assunse invece «la coloritura del più integrale

conformismo fascista»157. Essa dovette inoltre affrontare la defezione di molti

dei collaboratori ormai storici e i due anni successivi, 1939 e 1940, hanno rappresentato per la rivista «un’inutile sopravvivenza»158. Così, infatti, si è

espresso il direttore, Bargellini, ma simile al suo è stato il parere di altri critici ed ex-collaboratori che, appunto, «davano per esaurito il ciclo storico della rivista»159

e ormai persa la sua compattezza interna. Bo e Betocchi stessi, che larga parte del loro carteggio, negli anni precedenti, avevano destinato a discuterne la sorte,

155 Betocchi, 12 dicembre 1937 [50].

156 Così si espresse Carlo Bo istituendo il paragone delle riviste letterarie con le lettere, così

diffuse in quel periodo (cfr. l’intervista di Bo del 22 ottobre 1983, in Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo, cit., p. 191).

157 Baldacci, Movimenti letterari del Novecento italiano, cit., p. 31. 158 Il Frontespizio, cit., p. 18.

75 mettono ora da parte il destino del «Frontespizio» e si concentrano sulle proprie opere, gli Otto studi e Altre poesie160. Come ricorda Lorenzo Bedeschi, nel volume

Il tempo de «Il Frontespizio», dopo la pubblicazione di Letteratura come vita «ogni frontespiziaio quasi istintivamente cercava la propria strada, lontano da via dei Mille»161. Inseguendo la vita «nella stretta misura della letteratura»162, come

aveva scritto Carlo Bo nel suo manifesto (nonostante l’avversione per questo termine163), si affermavano i cosiddetti ermetici e tutta una generazione di

giovani, nutrita dal «Frontespizio», abbandonava l’area d’influenza della rivista che ne aveva ospitato gli esordi. Le riviste, però, continuavano164 e molti ermetici

diedero vita o nuovamente ripresero a collaborare all’esperienza di «Campo di Marte». Nonostante un solo anno di vita, a cavallo fra 1938 e 1939, la rivista cercò di riprendere «il discorso europeo lasciato interrotto da “Solaria” e cominciato già prima da “900”»165, diventando un altro dei simboli

dell’ermetismo stesso. Accanto ad essa, però, si annoverarono anche i tentativi diversi di «Prospettive», creata da quel «franco tiratore» di Curzio Malaparte, come lo definì Carlo Bo166, di «Corrente di vita giovanile», di «Primato» e infine

quello iniziato nel 1937 dalla «bonsantiana Letteratura»167. Quest’ultima, definita

da Luti «il battesimo del fuoco della nuova generazione letteraria»168, sarà l’unica

a continuare negli anni: riprendendo la dimensione europea che ha caratterizzato gli anni centrali dell’attività solariana, «Letteratura» vedrà passare attraverso le sue pagine «il mondo attivo delle lettere italiane dal ’30 al ’40», preludendo a soluzioni e sviluppi futuri169.

160 Si tratta del volume di saggi di Bo, Otto studi,e della seconda raccolta poetica di Betocchi, Altre

poesie, entrambi pubblicati dalla casa editrice fiorentina Vallecchi nel 1939.

161 Bedeschi, Il tempo de «Il Frontespizio», cit., p. 69.

162 Bo, Letteratura come vita, in Letteratura come vita. Antologia critica, cit., p. 6.

163 «Non vorrei che queste parole fossero intese nella suggestione di un manifesto. Niente sarebbe

più contrario al nostro spirito e al bisogno di discorso: ai movimenti vitali della coscienza» (ivi, p. 16).

164 Cfr. Carlo Bo, intervista del 22 ottobre 1983, in Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo, cit.,

p. 197: «Sì, le riviste continuavano, come ho già detto continuava “Letteratura” […]».

165 Baldacci, Movimenti letterari del Novecento italiano, cit., p. 32. 166 Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo, cit., p. 197. 167 Luti, La letteratura nel ventennio fascista, cit., p. 140. 168 Ivi, p. 188.

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Grazie al dibattito suscitato dal suo intervento su Letteratura come vita, iniziato sulle pagine del «Frontespizio» come risposta all’articolo di Carlo Betocchi, ma poi presentato anche al convegno degli scrittori cattolici di San miniato, Carlo Bo era già considerato «uno dei maggiori indagatori delle tensioni della letteratura»170 contemporanea. Egli si trova quindi al centro dell’accesa

quaestio fra letteratura e vita e per di più in un’età che Mario Luzi, nel ricordare gli stessi anni, definisce «l’età propizia delle interrogazioni profonde che riguardavano l’identità, l’avvenire»171. Il futuro del critico, infatti, prende

ugualmente le mosse dal novembre 1938, quando Bo inizia la sua brillante carriera accademica presso l’Università degli Studi di Urbino. In questo periodo comincia per lui quel lungo periodo del pendolarismo, tra Firenze e Urbino172,

che, nonostante le difficoltà dei viaggi e dei cambiamenti in atto nell’università italiana, del secondo dopoguerra, lo portò a dichiarare «con Urbino ho preso coscienza di un altro mondo»173. In meno di dieci anni il giovane professore di

letteratura e lingua francese della Facoltà di Magistero diventerà poi Magnifico Rettore dell’Università a lui oggi intitolata, mantenendo l’incarico dal 1947 al 2000. In questi anni, nonostante qualche inevitabile difficoltà, come ad esempio il periodo della contestazione giovanile del Sessantotto, Bo cercherà di rendere Urbino una vera e propria «città dell’anima»174, una città universitaria che sappia

coniugare la sua anima ideale, il passato glorioso legato al Rinascimento e a Federico da Montefeltro, con la cultura attuale e l’impegno per costruire il futuro degli studenti.

In occasione del discorso per il conferimento della cittadinanza onoraria, nel 1959, Bo ha infatti ricordato quanto Urbino lo abbia saputo toccare «in modo particolare», grazie a una «lunga, lunghissima consuetudine del cuore»175. L’anno

170 Spadaro, Abitare nella possibilità, cit., p. 55.

171 M. Luzi, La formazione, le figure familiari, gli amici, il fascismo: «Il tempo dell’ermetismo» (1914-1945),

in Luzi, Tabanelli, Il lungo viaggio nel Novecento. Storia, politica, poesia, cit., p. 26.

172 Intervista di Bo del 22 ottobre 1983, in Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo, cit., p. 191. 173 Ibidem.

174 Per l’importanza di Urbino, e delle Marche, della città, dell’Università e della cultura passata

e novecentesca che tanta parte ebbero nella vita di Carlo Bo, si veda il volume curato da Ursula Vogt, Città dell’anima. Scritti sulle Marche e i marchigiani 1937-2000, con un saggio di M. Luzi, intr. di L. Sichirollo, Banca delle Marche, Il lavoro editoriale, Ancona, 2000.

77 successivo Betocchi, ringraziandolo per la sua ospitalità nella città marchigiana, ricorderà nella sua lettera come Urbino sia sempre «la città d’arte e di studi in cui ti rivediamo per quel che sei e conti»176. Tornando al suo arrivo nella terra di

Raffaello e del Duca Federico, Bo ha infatti dichiarato:

Quando sono arrivato […] portavo con me soltanto il piccolo bagaglio della mia cultura, ero soprattutto un letterato di avanguardia che aveva costruito – un po’ per ragioni di natura, un po’ perché spinto dalle ragioni del tempo che allora non erano fatte per consolare – tutto il suo edificio al di fuori della realtà. La cultura era una operazione chiusa da svolgersi lontano dal contatto con altri uomini. Fu allora che cominciai a godere qualcosa, a guadagnare dall’Università: quella cultura si era rivelata inutile, bisognava adattarla alla misura degli studenti, a chi chiedeva una forma di dialogo più umile e più concreto177.

Anche se la cultura da cui proveniva Bo, quella fiorentina degli anni Trenta, era stata tutt’altro che «una operazione chiusa», fuori dal contatto con altri uomini, è interessante sottolineare le parole di Bo perché mostrano chiaramente come il 1938 abbia rappresentato, nel piano pratico dell’impegno, un cambiamento di prospettiva. Il giovane critico, già maestro dei suoi compagni fiorentini, si trova ora ad avere un ruolo centrale come professore e come Rettore di un’università, ruoli che svolgerà con la consueta serietà ma ancora più conscio della dimensione umana della cultura, di quella «forma di attiva collaborazione» che, negli anni, si assumerà anche la responsabilità pratica per il futuro dei giovani.

Alla fine degli anni Trenta Betocchi, da parte sua, continuerà a comporre versi e a ritagliarsi uno spazio per la letteratura pur portando avanti il suo amato lavoro di agrimensore. Nonostante i numerosi spostamenti, in Italia e anche oltralpe, per costruire strade e lavorare ‘un sasso’, nel 1939 uscirà la nuova raccolta di versi Altre poesie: più della prima Realtà vince il sogno, la seconda silloge aprirà a Betocchi la strada verso un canto sempre più oggettivo e vicino al cuore della realtà178. Per entrambi i corrispondenti, dunque, il 1938 segna la fine della

176 Betocchi, 6 maggio 1960 [221].

177 Bo, Città dell’anima. Scritti sulle Marche e i marchigiani, cit., p. 185.

178 Si veda, ad es., l’articolo di Carlo Bo che riassume l’opera di Betocchi definendolo «il poeta

delle cose semplici» e in cui il critico spiega che la differenza di Betocchi, nel panorama novecentesco, «prima di tutto dipendeva dal fatto che Betocchi era per natura esente da scorie retoriche di letteratura, più semplicemente perché era il poeta più naturalmente poeta che fosse

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giovinezza e l’acquisizione di una nuova consapevolezza di sé e del rapporto con gli altri. Betocchi, nel ripensare molti anni più tardi alla nascita dell’amicizia con Bo, dichiara infatti che «fondamentale è la carità: il dimenticare se stessi, il preporre sempre l’altrui a noi stessi»179. Nei suoi rapporti umani, quanto in

poesia, egli ha seguito il percorso indicatogli dalla carità: in maniera simile a quanto affermato da Bo, circa la sua lunga stagione urbinate, il poeta ha più volte sottolineato l’importanza del lavoro pratico e della fatica quotidiana, in un’ottica di servizio e di comunione con la realtà.

Ricordo negli anni in cui facevo il geometra di aver sofferto perché in una cava dove si doveva far saltare una roccia, un macigno si sarebbe staccato ed era una necessità ovvia del lavoro che si stava facendo. Ma sentivo pietà per il macigno come ho sempre provato un sentimento di pietà per un sasso nella strada. Perché non vedo differenza tra un uomo e un sasso, non vedo differenza di sorta tra me stesso e quella qualsiasi altra cosa che risiede nell’universo perché siamo debitori a tutto e di tutto e non dobbiamo fare altro che essere al servizio e alla protezione di tutto quanto ci circonda180.

Nonostante le somiglianze di un nuovo percorso di approfondimento critico e spirituale, alla luce però di queste numerose novità, il rapporto epistolare tra i due corrispondenti subisce un significativo stallo. Le lettere degli anni successivi al 1938, pur tenendo giustamente presenti le difficoltà dovute alla guerra, non saranno più né così numerose, né così affettuose, almeno apparentemente, come all’inizio. Sia Bo che Betocchi, intrapresa la propria carriera, continueranno spesso a ricordare l’età d’oro trascorsa insieme a Firenze e i rispettivi meriti intellettuali. Il periodo fra le due guerre, caratterizzato da una reale comunione degli spiriti nel nome della poesia, sarà purtroppo destinato a non ripetersi, per lasciare definitivamente il posto alla tragedia della seconda guerra mondiale e alla successiva, diversa, vita moderna. È stato, comunque, e rimarrà nel ricordo, il tempo dei grandi progetti dell’anima: i due amici,

apparso nei cieli ben regolati del tempo. Una poesia che rispecchiava puntualmente l’uomo» (C.Bo, Betocchi, il poeta delle cose semplici, «Gente», 1° novembre 1985, pp.124, 127).

179 La citazione è tratta dall’intervista di Betocchi, del 21 maggio 1983, contenuta in Tabanelli,

Carlo Bo, Il tempo dell’ermetismo, cit., p. 162.

79 riconoscendo «il privilegio di essere insieme»181, si sono infatti goduti «un’età

miracolosa»182, in cui «reale giovinezza e reale poesia erano una cosa sola»183.

L’amicizia fra Bo e Betocchi, approfondita dal carteggio, si è sempre basata soprattutto sull’intelligenza, sull’affetto e sull’attenzione critica che ognuno poteva e sapeva dedicare al lavoro dell’altro. Questo processo di arricchimento culturale, pur tanto intimo, non può dunque dare come frutto dell’«oziosissima letteratura»184, ma si concentra negli anni sulla descrizione «al

vivo e cioè con potenza poetica» degli stati reali dei due uomini185. Quando Bo e

Betocchi iniziano a scriversi, e soprattutto negli anni successivi del carteggio, il poeta ripete spesso all’amico e in diverse forme «Ma perché ti scrivo»? La risposta, che Betocchi stesso si dà, sottolinea «il piacere che ho a vedere che lavori: è il più gran piacere che mi puoi dare; perché io confido tantissimo in te»186. Bo, assegnando la stessa importanza alle loro lettere e a un processo di

continua ‘macerazione’, simile a quello delle «frutte maltite»187, gli replicherà nel

1937: «sai che non c’è dono più grande – per me – dell’attenzione intelligente»188.

«Nei limiti del dono della parola», infatti, le lettere hanno il compito di mettere per iscritto quella che Betocchi stesso definisce un’«opera approfondita di comprensione e di spiegazione che valga a distrarne le sofferenze e a fargliele considerare in un’altra luce»189.

Io ti scrivo le mie lettere dal margine di quegli stati d’animo entrando dentro ai quali troverai pane o poesia: fame o poesia. Io ho bisogno di questo, per scrivere a te; è sempre il minuscolo lago di me stesso che io costeggio, dal centro l’onde circolari vengono sotto ai miei passi fermando il perimetro della mia passeggiata190.

181 Betocchi, 3 aprile 1942 [84]. 182 Bo, 29 dicembre 1941 [83]. 183 Betocchi, 12 dicembre 1937 [50]. 184 Betocchi, 16 agosto 1937 [40]. 185 Betocchi, 4 agosto 1940 [74]. 186 Betocchi, 19 gennaio 1937 [33].

187 Betocchi, 4 gennaio 1935 [13]: «Tu mi dovresti rispondere con mille altri argomenti (bellissimi)

tuoi, che mi facessero guarire della mia confusione attuale; magari suffragandoli con l’invio di altri libri probativi di quelle tue opinioni che fossero in discordis con le mie. Certo io voglio leggere piuttosto poeti e poesie, come ho fatto in certi miei ultimi giorni di malattia; e ne sono tuttora guasto; al modo di quelle certe frutte maltite che poi germinano».

188 Bo, 22 gennaio 1937 [34].

189 Lettera di Betocchi indirizzata a Bargellini, Bo, Piccioni e Vallecchi allegata a quella per Bo

del 31 gennaio 1952 [121] (in Appendice n. 1).

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In una continua lotta alla ricerca della parola e contro l’assenza della verità, scrivere al «caro Bo» permette a Betocchi, e al suo corrispondente, di entrare dentro i propri stati d’animo e le ragioni del proprio cuore, di progredire nella conoscenza di sé e della propria poesia.

Paul Éluard, il poeta francese tanto amato da Bo, nel testo iniziale de Il lavoro del poeta, scrive:

I bei modi di essere con sé Davanti al foglio bianco Minacciati d’impotenza Fra due tempi e due spazi Fra noia e mania di vivere191.

La poesia di Éluard, che secondo Bo rappresenta «un momento assoluto di verità»192, coglie subito la «minaccia d’impotenza» nascosta nella pagina bianca: i

due tempi e due spazi sono sì quelli del poeta, alle prese con se stesso e con la scrittura, ma anche quelli del critico e della dimensione epistolare, che unisce i due corrispondenti sul limite fra la propria coscienza e quella dell’altro. I tempi e gli spazi che si confrontano sono quelli diversi legati alla vita dei due corrispondenti, ma anche alle opere e agli autori che essi spesso leggono e analizzano. Sia la poesia che la scrittura epistolare, dunque, servono a Bo e Betocchi per riconoscersi, come scrive ancora Éluard, «frutti simili di un albero/ ch’è più grande del vero e di tutte le prove»193 o, con le parole di Betocchi

dedicate all’amico Leone Traverso,

gli amici, e in generale gli uomini che mi diventano preziosi, son sempre creature che mi appaiono davanti come sbocciate da un incantesimo, e che restano libere da me come ne resto sempre libero io: che ho sempre, difatti, solo affetti ed amori, mai idolatrie»194.

191 P. Éluard, Poesia ininterrotta [1946], intr. e trad. di F. Fortini, Einaudi, Torino, 1976, pp. 56-57. 192 C. Bo, Di Éluard, della poesia, «Letteratura», a. IV, n. 1 (1940), p. 119.

193 Éluard, Poesia ininterrotta, cit., pp. 66-67.

194 C. Betocchi, Mentre passano i giorni, in Confessioni minori, cit., p. 350. L’articolo, citato anche nella

prefazione al volume, alle pp. VI-VII, è apparso anche in «Studi Urbinati», a. XLV, n. 1-2 (1971), pp. 450-453.

81 Il carteggio, infatti, rende soprattutto testimonianza di un’amicizia che si basa sul reciproco approfondimento spirituale e, grazie all’affetto e alla stima, vive in una dimensione di estrema libertà intellettuale e di un altrettanto «vero trasporto di sentimenti»195. In un’intervista del settembre 1981, parlando di Bo,

Betocchi afferma che per lui «è un uomo straordinario, un uomo impagabile, assolutamente impagabile. Per me è il miglior uomo che io abbia mai incontrato, è il miglior tipo di cultura che abbia mai conosciuto»196. Eppure, il rapporto non

sfocia mai nell’idolatria ed entrambi sono capaci di riconoscere sia i meriti dell’altro, più volte sottolineati, sia eventuali imprecisioni o inesattezze, sviste. Nell’intreccio indissolubile di umanità e cultura, il carteggio fra Bo e Betocchi dimostra che letteratura come vita non è stato soltanto il tema di una conferenza, ma una riflessione che ha caratterizzato ogni scrittura, da quella poetica a quella critica ed epistolare, dei due uomini.

Se non si può parlare di idolatria, bisogna comunque riconoscere che il carteggio è caratterizzato da un fitto scambio d’idee che, soprattutto nei primi anni, si concentra su poeti e autori francesi dei quali Bo, per la qualità e vastità delle letture fatte, è già considerato un profondo conoscitore e divulgatore. Per Betocchi, infatti, egli è «l’amico che conosce una verità nascosta, e non so se la più pura, ma certo la più delicata e irremovibile (anche di me stesso)»197. Il poeta

ama profondamente quella sincera «voce e solitudine pura di lavoro»198, che con

l’intelligenza ordinata delle sue ragioni sa chiamarlo fuori «da una pratica quotidiana magari di ordine superiore per consegnare viva (e insisto sull’aggettivo) una parte intima»199.

Le prime lettere del carteggio, fino al febbraio 1935, sono incentrate sulla scelta di una traduzione dal francese per Betocchi: egli, anche tenendo conto dell’ostilità di Bargellini per questi scrittori, si rivolge subito a Bo e alla sua immensa sapienza200. Dai nomi citati e dalle opere prese in esame risulta

195 Betocchi, 4 agosto 1940 [74]. 196 Tabanelli, Carlo Bo, cit., p. 68. 197 Ibidem.

198 Betocchi, 16 maggio 1940 [71]. 199 Bo, 10 gennaio 1935 [14]. 200 Betocchi, 8 novembre 1934 [3].

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delineato un significativo quadro della letteratura francese negli anni ’30, incentrata su questioni di natura spirituale. Che si parli di Mauriac, Green o autori minori, quali Psichari o Cazin, i protagonisti del carteggio si confrontano per cercare la soluzione migliore. Bo, che fa della letteratura d’oltralpe «l’indeclinabile suo referente non solo letterario ma anche spirituale»201, propone

diversi titoli già vagliati attentamente: nello scegliere fra questi, tutti comunque interessanti, Betocchi vorrebbe però «tradurre una cosa linda, distesa, e che fosse spirito senza tante mescolanze, una cosa buona anche dottrinalmente, che nel buono è il meglio»202. «Tradurre per sé dei bei libri m’è sempre parsa la massima

raffinatezza letteraria»203, ammette Bo, ma purtroppo la pubblicazione è destinata

ad una precisa collana editoriale: si tratta dunque di seguire «le disposizioni della maggior parte dei lettori, il loro gusto»204, ma anche le direttive editoriali de “Il

Grappolo”, dell’Istituto di Propaganda Libraria, per il «noioso Casnati»205.

Betocchi, preoccupato per lo stato delle sue finanze, è spesso obbligato a farsi i conti in tasca, e le ragioni letterarie devono quindi incontrare quelle economiche ed editoriali. Fra dicembre ’34 e gennaio ’35, comunque, Bo e Betocchi analizzano le opere degli autori in lizza per la traduzione e si interrogano intorno all’esistenza di un romanzo cattolico, finendo per concordare che «è il genere che non vuole» aggettivi206 e bisogna riconoscere al vero romanziere di fare come

sente, perché egli «in fondo parla della vita, e ora sai come la vita rifiuti anch’essa