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Il riconoscimento dei titoli di studio: un percorso ad ostacoli?

3.4. Equivalenza per fini concorsual

In Italia l’equipollenza a soli fini concorsuali è riservata ai soli cittadini comunitari il cui titolo di studio deve essere riconosciuto ufficialmente come sancito dall’art. 38 del decreto legislativo 165/2001:

“I cittadini degli Stati membri dell’Unione europea e i loro familiari non aventi la

cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale”

L’obiettivo è quello di permettere ai cittadini europei di partecipare ai concorsi pubblici nei quali è richiesto il possesso di un determinato titolo di studio come pre- requisito senza che sia necessario intraprendere un lungo percorso di equipollenza. In questo caso, l’autorità competente per la valutazione è la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Si tratta di una forma di riconoscimento ‘ridotta’, valida solo ed esclusivamente per la partecipazione al concorso oggetto di richiesta.

3.4.1. La sfida della cittadinanza e del pubblico impiego

La piena integrazione della popolazione immigrata non passa solo attraverso la riforma delle norme sulla cittadinanza ma altrettanto importante è l’equo accesso alle opportunità lavorative nel Paese di residenza che, in questo caso, è legato alle possibilità di accesso al pubblico impiego. L’eliminazione delle barriere protezionistiche che limitano l’accesso ai concorsi pubblici per i lavoratori immigrati andrebbe a diretto vantaggio dell’intera popolazione che godrebbe della possibilità di usufruire di servizi pubblici migliori perché aperti alla selezione di un maggior numero di candidati. Inoltre la possibilità di un impatto crescente di insegnanti, impiegati comunali o medici ospedalieri stranieri contribuirebbe a ridurre l’alta percentuale di immigrati relegata ai lavori più bassi della piramide sociale e permetterebbe di attrarre e trattenere in Italia un maggior numero di immigrati altamente qualificati e di valorizzare quelli già

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presenti sul territorio, riducendo contemporaneamente i pregiudizi xenofobi sulle competenze degli immigrati.

Fino a qualche anno fa la possibilità che gli stranieri potessero accedere al pubblico impiego era categoricamente esclusa, sia facendo perno sull’articolo 51 della Costituzione che stabilisce che “tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono

accedere agli uffici pubblici”, sia sull’articolo 2 del decreto del Presidente della

Repubblica 487/1994 che include la cittadinanza italiana tra i requisiti generali per l’accesso agli impieghi civili delle pubbliche amministrazioni. Questo perché si suppone che nel cittadino la tutela del fine pubblico sia più strettamente legata all’interesse personale. Nel tempo l’Italia ha dovuto però adeguarsi alla normativa comunitaria, includendo tra gli aventi diritto all’accesso al pubblico impiego anche i cittadini dell’Unione ma solo nelle posizioni che non implichino esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri e non attengano alla tutela dell’interesse nazionale. Da quel momento in poi la normativa si è ancora ampliata, in attuazione di direttive comunitarie, incorporando diverse categorie di stranieri la cui posizione viene parificata con quella dei cittadini dell’Unione europea: familiari di cittadini comunitari, rifugiati e loro familiari, titolari di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, titolari di Carta Blu UE. E’ evidente che la tesi di un pubblico impiego riservato al cittadino italiano è diventata nel tempo insostenibile e anacronistica, inoltre la lista delle ipotesi di eccezione non fa che aumentare i dubbi rispetto alle motivazioni per cui un rifugiato o un suo familiare dovrebbe offrire particolari garanzie di fedeltà alla Repubblica che mancano ad un immigrato con permesso di soggiorno per motivi di studio o lavoro. Eppure agli stranieri che non rientrano nelle eccezioni elencate non resta altra soluzione che impugnare il bando di concorso davanti al giudice, chiedendo che ne venga riconosciuto il carattere discriminatorio. La prassi ormai da anni vede i ricorrenti

vincitori e l’amministrazione costretta a modificare il bando di concorso4, ma si tratta

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Sull’accesso degli stranieri al pubblico impiego, il primo provvedimento favorevole è stato emanato dal TAR della Liguria nel 2001, a favore di un cittadino non comunitario il quale, pur essendo titolare del diploma di infermiere professionale conseguito in Italia e di tutti gli ulteriori requisiti richiesti dal bando, è stato escluso dall’assegnazione di un posto da infermiere professionale a Genova. Il Tribunale di Biella, invece, nel 2010 ha accolto il ricorso presentato da un’infermiera albanese ritenendo discriminatoria l’esclusione da parte dell’Azienda Sanitaria Locale in quanto in contrasto con il principio di parità di

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sempre di azioni giudiziarie a titolo individuale, che non stanno compromettendo la prassi discriminatoria dei bandi di concorso limitati ai soli cittadini. A sostegno dell’eliminazione del pre-requisito di cittadinanza i giudici impugnano la convenzione OIL 143/1975, ratificata dall’Italia nel 1981, che sancisce il principio di parità di opportunità e trattamento in materia di occupazione e di professione tra i lavoratori stranieri legalmente soggiornanti e i lavoratori nazionali. Gli Stati che hanno ratificato la convenzione, quindi Italia compresa, non possono imporre ai lavoratori stranieri restrizioni all’accesso all’occupazione, salvo che questo si renda necessario nell’interesse dello Stato, e sono obbligati ad abrogare qualsiasi disposizione legislativa e a modificare qualsiasi disposizione o prassi amministrativa incompatibili con questo principio. Attualmente la legge continua a tacere sul problema, lasciando alla giurisprudenza il compito di rispondere in giudizio alle richieste di un Paese che cambia (Briguglio, 2013).