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Il riconoscimento dei titoli di studio: un percorso ad ostacoli?

3.5. Riconoscimento dei titoli di studio per l’esercizio di una professione

In Italia esistono due categorie professionali: quelle regolate dalla legge e quelle non regolate. Le professioni non regolate dalla legge possono essere svolte senza specifici titoli o licenze, non richiedono pre-requisita d’accesso, e non è quindi necessario farsi riconoscere il titolo estero per poterle svolgere. Alcuni esempi sono le figure professionali in ambito pubblicitario, nella comunicazione, nel marketing, nell’arte e nella musica. In questi casi potrebbe essere sufficiente presentare il proprio curriculum e dimostrare le proprie competenze, ma è comunque consigliabile allegare al titolo la Dichiarazione di Valore, o altri documenti ufficiali come la traduzione legale, che ne possano descrivere le principali caratteristiche, rendendole meglio comprensibili al datore di lavoro.

trattamento in materia di occupazione tra i lavoratori migranti e i lavoratori nazionali imposto dalla legge di ratifica della Convenzione OIL 143/1975. In seguito si sono pronunciati in senso favorevole ai ricorsi anche il Tribunale di Genova, il Tribunale di Pistoia, la Corte d’Appello di Firenze, il Tribunale di Firenze, il Tribunale di Bologna, ecc. (Ferrero, 2011)

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Un altro discorso, più complesso, è quello relativo alle professioni regolate dalla legge che ne ammette l’esercizio solo dopo l’abilitazione e l’iscrizione ai rispettivi Ordini e Collegi, e per le quali il diploma di scuola superiore o universitario è un pre-requisito necessario.

Gli Ordini e i Collegi professionali sono enti sottoposti alla vigilanza dei relativi Ministeri e nascono con l’obiettivo di vigilare e garantire sulla professionalità degli iscritti. Hanno un albo specifico, un codice deontologico, l’obbligo di legge alla formazione continua, precisi requisiti di accesso e una quota annuale di iscrizione. Le varie professioni sono suddivise per categorie e regolamentate dagli ordini territoriali competenti a loro volta organizzati nel rispettivo Ordine Nazionale.

Nei fatti la logica corporativa che ha da sempre caratterizzato gli ordini professionali fa sì che le barriere d’accesso alla pratica professionale siano molte e difficili da superare. Ottenere l’iscrizione ad un ordine può infatti richiedere un livello minimo di istruzione, un periodo di praticantato e il superamento dell’esame di Stato.

Il periodo di praticantato varia sensibilmente a seconda delle professioni: dal tirocinio di tre anni per diventare commercialisti, si passa ai sei mesi per farmacisti e architetti fino ad arrivare ai medici che si accontentano di soli tre mesi. La maggior parte degli Ordini non stabilisce alcun obbligo di retribuzione per il praticante e passare un lungo periodo di tempo senza reddito o con entrate molto esigue è già di per sé un forte deterrente all’accesso ad una professione.

Dopo il periodo di praticantato gli aspiranti professionisti devono superare l’esame di Stato per poter ottenere l’iscrizione all’albo. I tempi di correzione sono spesso molto lunghi e obbligano i candidati ad aspettare parecchi mesi per avere i risultati della prova scritta, poi di quella orale, e può servire infine più di un anno per completare l’intera procedura. La composizione della commissione varia sensibilmente tra le varie professioni, così come l’influenza che esercita sugli esiti delle prove, determinando un’evidente frammentazione e disomogeneità tra le sedi concorsuali nelle possibilità di superamento dell’esame. (Pellizzari e Orsini, 2012)

82 “These regulations, put into place to guarantee the quality of certain professional sectors, often have the collateral effect of inhibiting the utilization of human capital acquired abroad by qualified professionals. Certain sectors appear to be even more inaccessible to third country nationals in those context where, beyond nationals regulations, professional orders play the role of gatekeepers by adopting very strict, often exclusionary membership criteria” (Lodigiani, 2017, p. 7)

Lunghi praticantati non retribuiti, esami di Stato dagli esiti incerti e a volte pilotati e quote associative, sono alcune delle barriere che gli Ordini professionali pongono per l’accesso alla professione e che spesso, lungi dal rappresentare garanzie di qualità, si trasformano in ostacoli alla piena conversione delle competenze in reali opportunità lavorative.

Il principio di base vigente nell’Unione Europea è che se si è qualificati nel Paese di provenienza per esercitare una certa professione, la stessa qualifica è valida anche per esercitare la professione in un altro Paese membro. Insegnanti, avvocati, psicologi, che desiderano esercitare la propria professione in un diverso Paese appartenente all’Unione devono ottenere il riconoscimento del proprio titolo di studio presentando richiesta alle autorità competenti del Paese di residenza.

I cittadini comunitari e non comunitari che hanno ottenuto l’abilitazione professionale nel Paese di provenienza, e che desiderano esercitare la professione in Italia, possono presentare domanda di riconoscimento al Ministero competente per il titolo professionale in oggetto, che deve pronunciarsi entro quattro mesi, esprimendo un giudizio che può essere di: riconoscimento, non riconoscimento, riconoscimento subordinato al superamento di misure compensative quali esami integrativi o periodi di tirocinio.

Il Ministero della Giustizia, per esempio, è competente per titoli professionali che vanno dall’agronomo al giornalista, dal geologo all’assistente sociale; il Ministero della Salute è competente per i titoli dei farmacisti, dei medici, dei tecnici e di una lunga lista di professioni sanitarie.

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Una volta ottenuto il riconoscimento del titolo professionale è necessario rivolgersi all’Ordine o Collegio professionale per chiedere l’iscrizione all’Albo e poter così esercitare regolarmente la professione, spesso dopo aver svolto un ulteriore periodo di tirocinio o praticantato, mal retribuito quando non totalmente gratuito.

L’iscrizione agli Ordini e Collegi professionali è subordinata per legge, sia per i cittadini non comunitari in possesso di Permesso di Soggiorno sia per quelli residenti all’estero che intendono utilizzare il riconoscimento del titolo professionale al fine di ottenere il visto di ingresso in Italia per lavoro autonomo, al rispetto delle quote stabilite annualmente con il decreto flussi che regolamenta l’ingresso di lavoratori stranieri in Italia. La stessa condizione è posta da alcuni Ministeri per ottenere il riconoscimento del titolo. Esistono delle graduatorie in cui vengono privilegiati, in genere, gli stranieri con permesso di soggiorno per motivi di lavoro o di famiglia, mentre nessuna limitazione dovrebbe essere prevista per coloro che hanno conseguito, anche in forma abbreviata, il titolo in Italia. Si profila così l’ipotesi che possano rimanere esclusi dal riconoscimento un certo numero di aventi diritto, nel caso venissero superati i numeri previsti dalle quote.

Il problema della difficoltà, burocratica e amministrativa, di farsi riconoscere il proprio titolo di studio estero, si somma in questo caso agli ostacoli dati da una politica migratoria sempre più restrittiva. Se il ‘decreto flussi’ del 2001 prevedeva 83.000 quote per i lavoratori immigrati, nel 2010 ne erano previste 98.080, mentre nel 2017 solo 30.850. Come è evidente la quota è stata drasticamente decurtata, ridotta addirittura di due terzi negli ultimi sette anni, segno di un innegabile giro di vite cha ha interessato la gestione governativa della politica migratoria. Delle 30.850 quote previste per il 2017, 17.000 sono riservate ai lavoratori stagionali nel settore agricolo o turistico- alberghiero, 2.400 ai lavoratori autonomi, 500 ai lavoratori subordinati non stagionali che abbiano compiuto programmi di istruzione e formazione nel Paese d’origine. Quattromila quote sono poi riservate alle conversioni di permessi per lavoro subordinato, e 500 per la conversione di permessi per lavoro autonomo, in permessi per studio, tirocinio e formazione.

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L’ammissione della persona immigrata per lavoro è sentita come legittima soltanto in posizione subalterna rispetto a quella dei cittadini, a cui è comunque assicurata la priorità sul mercato del lavoro.

“La principale dimensione in base alla quale di solito le società ospitanti valutano l’immigrato straniero appare di fatto quella del lavoro. [...] In emigrazione appare dunque prioritario l’aspetto del lavoro tanto che lo straniero è socialmente accettato dai cittadini soprattutto se svolge una regolare occupazione lavorativa. Tuttavia allo straniero, considerato, secondo uno stereotipo comune, come l’‘ospite’, come l’‘ultimo arrivato’, è riservata nel mondo del lavoro una collocazione generalmente marginale e sussidiaria. Tale posizione subalterna trova piena conferma nell’ordinamento giuridico.” (Bonetti, 1993, p.225)

Anche in questo caso si ripropone l’assioma per cui ai lavoratori immigrati vengono

riservati dei posti solo nei settori più bassi della piramide sociale, nelle mansioni più faticose e rischiose, come quelle del lavoro stagionale in agricoltura. La quota prevista per il lavoro stagionale supera la metà del totale delle quote previste nel ‘decreto flussi’, portando con sé conseguenze negative che vanno dalla dequalificazione deliberata dei lavoratori immigrati, al prevedibile inasprimento dei pregiudizi xenofobi secondo cui gli immigrati non hanno le capacità naturali di accedere a posizioni più qualificate. Nella definizione delle quote si legge una risposta politica alle esigenze economiche di un mercato affamato di braccia giovani da sfruttare nei lavori stagionali, per poi disfarsene quando non sono più necessarie. Un numero drasticamente inferiore di quote viene riservato alla conversione dei permessi di lavoro in permessi studio, ancora meno sono quelle destinate ai lavoratori subordinati che abbiano conseguito programmi d’istruzione nei Paesi d’origine. Ad oggi la possibilità di valorizzare le competenze e le conoscenze di una popolazione immigrata sempre più istruita viene ancora posticipata, dimostrando una crescente miopia rispetto alle possibilità di attirare immigrazione qualificata e valorizzare quella già presente sul territorio.

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