Constatato quale equipaggiamento dovette essere più diffuso tra i soldati di Padova tra IV e I secolo a.C., ed operato un raffronto con le informazioni di ordine socio-culturale relative all’organizzazione della comunità patavina offerte dalle varie fonti, è forse possibile avanzare una ricostruzione delle linee generali che caratterizzano la composizione dell’esercito della città in tali secoli, e di conseguenza il suo modo di combattere.
Una valida proposta ricostruttiva emerge nel confrontare le evidenze patavine con una ‘tassonomia’, formulata da Cherici, relativa alle componenti mediante le quali fossero poste le basi per l’arruolamento di un esercito del mondo antico: “1) con il ricorso a mercenari: truppe allotrie pagate per combattere, che non reclamano quindi capienza politica nelle realtà in cui servono in armi; 2) con il ricorso a corvée imposte a gruppi sottomessi (gli Iloti a Sparta); 3) con il ricorso a clientes o sodales da parte di una gens o di un individuo egemone (i Fabi al Cremera; il Poplios
Valesios del Lapis Satricanus758); 4) con il ricorso straordinario ai liberi altrimenti esclusi per
nascita e/o censo dal servizio in armi, ricorso disciplinato da un istituto giuridico che ne neutralizza la valenza politica (come il tumultus a Roma, probabilmente documentatoci anche a Volsinii in risposta all’incursione di Fabio Rulliano759); 5) con l’allargamento della possibilità di accesso alla
milizia, di solito con l’identificazione di soglie censitarie corrispondenti a diverse modalità di armamento, conferenti quindi diversi “pesi” politici (a Roma, il sistema c.d. serviano)”760. Nel caso
dell’Etruria padana Cherici individua le modalità 1) e 5) come le più valide. Ciò in quanto date modalità si rivelano coerenti con le coeve attestazioni di panoplie venete, illiriche ed hallstattiane (relative ai possibili mercenari assoldati dalla città) e con il repertorio iconografico delle situle Certosa, Providence ed Arnoaldi (Figg. 63-64) (ove l’accostamento di fanti leggeri, ‘lanceri’ di vario genere, opliti clipeati e cavalieri paleserebbe l’esistenza di un esercito di tipo censitario)761.
Secondo l’autore Felsina, insediamento ‘ibrido’ tra l’Etruria tradizionale ed i popoli della valle
758 Cfr. SAGE 2008, pp. 10-14. Sui soldati al seguito dei Fabi nella disfatta del Cremera (477 a.C.) Liv. 2, 48, 6-50,
11. Il Lapis Satricanus, che attesta la dedica a Marte di un monumento da parte dei sodales di Poplios Valesius (fine V-inizi IV secolo a.C.), è edito in CIL 1, 2832a (vd. STIBBE 1980). Affine attestazione di un esercito clientelare è quella descritta in Dion. Hal. Ant. Rom. 5, 40, 3-5 relativa agli uomini portati dal sabino Tito Claudio a Roma.
759 Liv. 9, 36, 12, su cui CHERICI 1999, pp. 205 e sgg. 760 CHERICI 2008, pp. 198-199.
160
padana, fu in grado di “evolvere e coagulare uno schieramento che non solo costituisce una parziale adozione e insieme un superamento della tattica affidata alla sola fanteria pesante – ben poco efficace in una terra di frontiera quale l’Etruria padana – ma testimonia anche, nella varietà dei gruppi di armati, la probabile avvenuta elaborazione politica di un articolato sistema di accesso alle armi”762.
Si è dunque ritenuto lecito ricercare in quali modi l’applicazione di tale tassonomia possa combinarsi con i dati raccolti riguardo la città antenorea. Tanto più che l’analisi di Cherici risulta particolarmente valida per una città, Felsina, culturalmente e geograficamente contigua con i grandi centri veneti preromani. Nello specifico si è qui tentato di trarre eventuali informazioni riguardo la possibile esistenza, a Padova, di eserciti a struttura gentilizia, censitaria o mista, alla loro evoluzione nel tempo e alle implicazioni che le eventuali strutture ebbero sulle tattiche adottate.
Il ruolo militare degli ‘aristocratici’
La raccolta delle evidenze porta a riconoscere come elemento potenzialmente caratteristico dell’esercito patavino il ruolo preminente della cavalleria. Le stele patavine con raffigurazioni di nobili guerrieri a cavallo (o su carro)763 e le offerte di bronzetti attestano un rapporto diretto tra
utilizzo del cavallo ed ambiente militare almeno fino agli inizi del II secolo a.C. E’ interessante notare come unicamente a Padova il numero di offerte di bronzetti di cavalieri sia di gran lunga superiore rispetto a quanto osservabile negli altri centri ove siano emersi reperti simili764. Entrambe
le tipologie di evidenze iconografiche, pur frutto di rinvenimenti aleatori, fanno riflettere sulle parole di Strabone riguardo i cinquecento equites di età romana e sul peso, anche sul piano demografico, che dovettero avere i Patavini in grado di disporre di un cavallo in battaglia. Armi da cavaliere e bardature emergono inoltre tra le rarissime attestazioni archeologiche venete di attrezzatura militare risalenti pressappoco al medesimo periodo765. Per quanto eccessivamente rare
per consentire di avanzare delle stime concrete, le attestazioni archeologiche testimoniano la
762 CHERICI 2008, p. 200. 763 Vd. supra.
764 A Padova si osserva un rapporto di due cavalieri per ogni fante, quando ad Altino si conta meno di un cavaliere
ogni cinque bronzetti di fante e a Lagole è stato rinvenuto un unico cavaliere contro gli oltre trenta esemplari appiedati – vd. supra.
161
diffusione, almeno dal IV secolo a.C., di armi che avrebbero garantito l’efficacia delle truppe montate. L’utilizzo della spada da cavalleria latèniana, dello scutum (probabilmente portato anche agganciato al collo mediante una cinghia come nella stele Checchi) e della lancia latèniana con tallone metallico, garantivano vantaggi che non possedettero tutte le cavallerie della penisola766.
Sembra tutt’altro che improbabile dunque che nella città dei ‘Signori dei cavalli’ la cavalleria abbia acquisito un ruolo di rilievo (per prestigio sociale e per peso tattico in battaglia) tale da riscontrarsi difficilmente tra gli altri popoli della penisola767. Benché, ad esempio, nella Grande Etruria si
assista ad una consimile esaltazione della virtù militare del ceto equestre almeno fino al IV secolo a.C.768, essa non si appoggia su una fortissima tradizione nell’allevamento e nell’addestramento di
cavalli di razza, tanto ideologicamente carichi di significato simbolico da entrare a buon diritto nel repertorio di miti e riti caratteristici della civiltà veneta769. Nel contempo il valore militare dei
contingenti di cavalleria nel coevo esercito di Este è chiaramente palesato dall’abbondante produzione di lamine e bronzetti con guerrieri a cavallo770. Riguardo la specifica familiarità col
cavallo del popolo veneto Mazzarino sottolinea come “sembra difficile pensare che a questa […] non corrispondesse una classe di veri e propri cavalieri: infatti, le terre che forniscono buoni cavalli sollecitano (si pensi – se pur in diversissime condizioni e con ben diversi sviluppi – ai cavalli nisei)
766 L’assenza di tallone, la poca efficacia della cuspide e dello scudo in cuoio usato inizialmente dalla cavalleria
romana sono i motivi che secondo Polyb. 6, 25, 3-11 spinsero i Romani ad adottare equipaggiamenti di provenienza greca durante la seconda guerra punica (cfr. SAGE 2008, pp. 94-95).
767 Sulla manifestazione mediante lamine, bronzetti e stele del ruolo militare mantenuto dalla cavalleria veneta anche
MALNATI 2008, pp. 164-166. L’autore rimarca come ciò avvenga in contrasto con gli eserciti etrusco-italici nei quali e sempre più esclusiva la prevalenza di fanti armati di lancia e clipeus. Interessanti le osservazioni di ADAM 1995 pp. 94-95 secondo le quali lo sviluppo del tema del cavaliere eroizzato è molto più diffuso in Italia che in Grecia, proprio a causa un ruolo militare della cavalleria centrale presso gli eserciti indigeni della penisola che si manifesterebbe anche nel culto del cosiddetto ‘Diomede italico’ come dio della guerra a cavallo.
768 Anche in Etruria, fino al IV secolo, è valido il nesso tra aristocrazia equestre e contingenti di cavalleria. JANNOT
1995 pp. 20-23 individua tre distinti tipi di cavalleria etrusca tra V-inizi IV secolo a.C. formata da membri dei ceti elementi di ceto elevato: “une cavalerie légère de harcèlement qui combat à distancei”, dotata di arco o giavellotto, poco attestata per ragioni di ‘canone’ iconografico (secondo Jannot si trattava principalmente di giovani); “une
cavalerie mixte, apte à combattre à pied: infanterie montée, cavalerie démontée”, armata di corazza, elmo, scudo
oplitico, lancia e spada corta, dal ruolo di ‘Berittenen Hopliten’, ossia del cavaliere che usa il cavallo principalmente per spostarsi più rapidamente ma poi affronta il combattimento a piedi come una fanteria d’élite (vd. Polyb., 3, 115); “Une cavalerie pratiquant le combat rapproché” armata di lancia da stocco e μάχαιρα, rappresentati mentre combattono a cavallo, soprattutto contro altri cavalieri, ma in alcuni casi anche contro fanti non in formazione.Su tale varietà, a partire dalle testimonianze iconografiche di VI secolo a.C., anche ADAM 1995, pp. 72-73. Cfr. MALNATI 2008, p. 163 riguardo al ruolo militare degli ‘equites’ di Felsina (pur ridimensionato col tempo). Le fonti etrusche sulla città cispadana sono innanzitutto iconografiche poiché, come era usanza a Padova, i locali non prevedevano la deposizione di armi nei corredi, che vengono dunque a costituire una fonte insufficiente.
769 Inevitabile il richiamo al ‘mito’ delle cavalle lupifere, ai sacrifici di cavalli, alle offerte di cavallini bronzei o lamine
con cavalli da Lagole.
162
la formazione (nelle aree che possono servirsene) di una tradizione cavalleresca”771.
L’osservazione di una classe di aristocratici che, anche dopo il V secolo a.C., mantiene la lotta a cavallo come simbolo del proprio reale prestigio sociale contrasta con ciò che accade contemporaneamente nella contigua Grande Etruria. Appare infatti chiaro che a Felsina, così come nelle città dell’Etruria propria, il vero e proprio modello aristocratico sia incarnato dall’immagine dell’oplita, appiedato o montato, almeno fino alla fine del IV secolo a.C.772 Esiste la possibilità
che, similmente a quanto osservabile nelle città etrusche, i cavalieri patavini, alla maniera dei cosiddetti ‘Beritten Hopliten’, non si servissero del cavallo per lo scontro ma esclusivamente come mezzo per guadagnare mobilità sul campo di battaglia, spostandosi rapidamente per poi combattere una volta scesi. Va tuttavia constatato che, se da un lato è difficile riconoscere attestazioni di ‘opliti montati’ in Venetia, in quanto non esistono attestazioni certe di opliti veneti in generale773,
dall’altro l’equipaggiamento latènizzato che prende piede a partire dal IV secolo a.C., unitamente alle doti nell’addestramento di cavalli, rendono del tutto verosimile un utilizzo in senso proprio delle truppe di cavalleria. Come ricordato da Mazzarino, inoltre, proprio la familiarità patavina con l’uso del cavallo in battaglia potrebbe essere uno dei tratti comuni che Polibio e la sua generazione riscontrarono tra Veneti e Celti, a loro volta ben noti per l’efficacia delle truppe montate774, nel corso del II secolo a.C.
Sorge da tali supposizioni un interrogativo cui più avanti si tenterà di rispondere: in che modo la cavalleria patavina (e veneta) può aver rivestito un ruolo nello sviluppo delle vicende belliche che coinvolsero la Venetia negli anni dalla calata dei Celti in Cisalpina alla romanizzazione della regione?
La possibilità concreta che i nobili cavalieri patavini rivestissero un ruolo di particolare rilevanza in battaglia apre uno scorcio su quella che dovette essere la loro posizione nei confronti della
771 MAZZARINO 1980, p. 240.
772 Su cui ADAM 1995, pp. 74 e sgg. con bibliografia di riferimento. Momigliano giudicava similmente la situazione
nella Roma alto-repubblicana, asserendo che“the Roman aristocracy was not an aristocracy of hippeis or chariots- riders. It was originally an aristocracy of infantry leaders supported by their ‘clientes’. This of course does not exclude the employment of young members of the aristocracy in a cavalry paid by state” (MOMIGLIANO 1966, p. 23).
773 Vd. infra.
774 MAZZARINO 1980, p. 242. Quanto ai cavalieri Galli basti citare i casi del reparto montato che combatté affianco
a P. Licinio Crasso a Carre (Plut. Crass. 25, 7-11), dei Galli di Eporedia (Plin. Nat. 3, 21) e del passo cesariano, tratto da Posidonio, secondo cui in Gallia le uniche due classi di uomini ad essere considerate furono druidi e cavalieri (Caes.
Gall. 6, 13, 1), i quali, secondo LEJARS 2011, p. 133, “se définissent avant tout comme des guerriers. Cela se traduit
dans l’organisation sociale et par l’adhésion à une idéologie guerrière commune”. Sull’utilizzo di cavalleria presso i Celti di età latèniana cfr. infra.
163
comunità. A fronte della loro preminenza sociale e militare dovettero essere tenuti in prima persona alla tutela degli interessi e della sicurezza di Patavium. Una considerazione valida sia all’interno di un sistema militare principalmente gentilizio che in uno a struttura censitaria. Similmente agli
equites di epoca serviana775, i ‘Signori dei cavalli’, in grado di disporre non solo di cavalli ma
anche, in quanto Veneti, delle migliori tecniche per addestrarli, dovettero essere chiamati a contribuire alla composizione di una parte centrale delle truppe montate necessarie alla città. Ciò implicherebbe l’esistenza di una sorta di responsabilità ‘civica’ da parte di tale componente della società patavina776. Il forte legame ideologico dei notabili patavini nei confronti della propria città
appare del resto coerente con altre due informazioni desumibili dalle fonti attualmente in possesso degli studiosi. Da un lato concorda con l’immagine, delineatasi a partire dalle evidenze archeologiche, di una Padova in costante ricerca di contatto con le proprie radici tradizionali e conservatrice del ‘mos maiorum’777. Dall’altro si rispecchia in una classe dirigente che dovette
tenere a nobilitare la propria comunità nel costante richiamo al mito antenoreo, all’origine troiana e al parallelismo con la più nobile delle città della penisola778. Accostando tale legame delle élite
patavine con la città ad un’evidente ricerca di ostentazione della propria familiarità col mondo della guerra (noto dalle evidenze di tipo iconografico non esclusivamente patavine), è facile immaginare che i ‘Signori dei cavalli’ abbiano accolto una struttura militare che richiedesse a costoro il dovuto sforzo militare nella tutela della città779. Se si può avanzare la critica che i più
agiati della società avrebbero avuto tutto l’interesse a non partecipare ai fatti bellici, va considerato che, almeno fino all’inserimento della Venetia nei fatti bellici che coinvolgono l’Urbe da fine III
775 Tra le poche affermazioni che si possano fare riguardo al ceto contraddistinto dal termine ekupetaris vi è quella
che la loro condizione sociale fosse piuttosto analoga a quella degli equites municipali nei quali potrebbero essere confluiti (tanto numerosi a Patavium secondo il censimento di tarda età augustea - Strab. 5, 1, 7; cfr. 3, 5, 3; vd. BANDELLI c.s.). Sul legame tra i due gruppi di notabili anche MAZZARINO 2003, p. 240 per cui “Ekupetaris potrebbe essere, insomma, indicazione della dignità costitutiva della suprema classe dirigente venetica: e come a Roma imperiale il clarissimato (dignità costitutiva della suprema classe dirigente, quella senatoria) era esteso alle mogli e figlie dei senatori (le clarissimae feminae delle nostre epigrafi), pure nel mondo venetico (praticamente, in questo caso, Padova; ma anche Belluno) quel titolo avrebbe potuto estendersi anche alle donne”. Appare assai probabile che gli equites augustei fossero in gran parte discendenti dell’élite locale – vd. supra. Cfr. le osservazioni di SARTORI 1981, pp. 129-130 su come si era possibile divenire equites romani al tempo della romanizzazione della Venetia – cfr.
infra.
776 Si confronti il caso, differente per contesto ma affine per funzionamento, della riforma serviana a Roma in BRIZZI
2008, pp. 32 e sgg. che “vincola la struttura militare di Roma al principio secondo cui sono gli abbienti, in proporzione al patrimonio terriero che possiedono, a dover provvedere alla difesa della res publica; e la ancora all’ordinamento sociale centuriato, innescando un completamente nuovo senso di cittadinanza all’interno delle classi alte”.
777 Vd. supra. 778 Vd. supra. 779 Cfr. infra.
164
secolo a.C. le ‘guerre’ alle quali i notabili di Padova furono chiamati a partecipare dovettero essere state combattute in scontri di entità piuttosto piccola e a poca distanza da casa780. Da tenersi
presente inoltre che il coinvolgimento della classe equestre patavina dovette variare col tempo, specie quando, a causa delle mutate condizioni geo-politiche a partire dal debellamento dei Galli di Cisalpina, non fu più necessario difendere in prima persona la città. Difficilmente coloro che confluirono negli equites di I secolo a.C. ebbero la stessa familiarità con la guerra degli individui ritratti in armi nelle stele patavine col termine ekupetaris, i quali, nel 302 a.C., era costretti dai Galli vicini ad essere sempre in armi781.
Le fanterie
Appurata la centralità delle truppe montate (che pure non si esaurivano nel singolo ceto di ‘Signori dei cavalli’782), l’esercito controllato da Padova dovette essere in buona parte costituito da fanteria
come la maggior parte degli eserciti del Mediterraneo antico783. I rinvenimenti di ambito cultuale
mostrano come una grossa porzione dei guerrieri esplicitasse il proprio statuto nella figura del fante con scudo e lancia. Un fante che non è più il guerriero clipeato delle lamine di Altino, della lamina del Bacchiglione e della produzione su lamina bronzea atestina (per schema del tutto simili a agli opliti aristocratici etruschi784). Si tratta di guerrieri raramente connotati come aristocratici,
che si manifestano in quantità notevolmente maggiore nelle offerte di bronzetti di Padova, Altino e Lagole, ma anche negli stampi in serie delle lamine vicentine. Le evidenze iconografiche, combinate con le tipologie di armi attestate archeologicamente nel territorio, mostrano come la parte meglio equipaggiata della fanteria patavina (costituente il nerbo della formazione) fosse dotata di armamento completo. Esso era composto da scutum, lancia da impatto, giavellotto, elmi di tipo ‘aperto’ celto-italici785 e, più di rado, di ulteriori protezioni quali corazze e schinieri. Tale
fanteria era in grado di combattere in formazione grazie alla protezione offerta dal lungo scudo combinata con l’utilizzo della lancia da impatto tenuta al di sopra della spalla, portando i colpi in
780 Vd. infra. La massima portata attestata per un’azione diretta dei Veneti, se non si considerano gli eventuali
contingenti di patavini a Canne e Nola, sarebbe l’aggressione nel territorio dei Senoni nelle attuali Marche.
781 Vd. infra riguardo l’evoluzione del tipo di auxilia richiesti da Roma nel tempo. 782 Vd. infra.
783 Per quanto riguarda I Veneti cfr. MALNATI 2008, p.165. 784 Vd. infra.
165
maniera affine a quella delle fanterie oplitiche mediterranee. L’elmo aperto (che garantiva una visuale piuttosto ampia) e l’impugnatura a ‘manopola’ dello scutum (che con un giusto allenamento rendeva la protezione facilmente manovrabile) permettevano nel contempo di combattere agevolmente anche negli scontri individuali al di fuori dalle linee dei commilitoni. Per il combattimento ravvicinato tale categoria di fanti poteva inoltre contare sia sull’arma secondaria, in alcuni casi addirittura una spada lunga, sia sulla lancia stessa che, nel caso delle lance a lunga cuspide foliata, una volta spezzata poteva essere efficacemente impiegata anche di taglio come spada corta. L’utilizzo da parte della fanteria patavina del giavellotto (in una tradizione ben nota al mondo italico e celtico786) aumentava ulteriormente la sua versatilità sul campo.
L’attestazione di diversi gradi nell’utilizzo di specifiche protezioni e armi offensive da parte dei soldati potrebbe fare ipotizzare una distinzione tra fante ‘medio’, dotato di scudo, lancia ed elmo, ed uno di ‘élite’ che poteva contare anche su corazza (anatomica in metallo o ad anelli con spallacci secondo i tipi attestati nella regione) e spada lunga latèniana. A queste due categorie si dovevano accostare soldati appiedati provvisti di armamento leggero (dotati solo di elmo o di scudi più leggeri in materiali deperibili) col ruolo di supporto per il centro della formazione, o di ostacolo alle azioni del nemico mediante manovre di schermaglia incentrate sull’utilizzo di armi da getto quali giavellotti e frombole787. Come sopra considerato, non stupisce che non sia emersa traccia
archeologica o figurativa di reparti di armati leggeri in quanto, benché certo parte integrante dell’esercito, non solo costituivano gli individui meno abbienti del corpo civico militarmente impiegato, ma incarnavano anche un tipo di guerra lungi dagli ideali dello status di guerriero nella società patavina788.
L’equipaggiamento diffuso nel territorio tra IV e I secolo a.C. non vincolava dunque al combattimento in formazione serrata come negli eserciti mediterranei di falangi oplitiche o macedoni789. Come sopra menzionato, l’elmo Latèniano permetteva una visuale ben più ampia
rispetto a gli elmi ellenistici derivati dal modello chiuso, parte della panoplia distintiva dell’oplita classico790. Nel contempo l’utilizzo dello scutum, impugnato nel centro direttamente con la mano
786 Vd. supra.
787 Riguardo all’utilizzo di arcieri, tendenza comune alla maggior parte degli eserciti dell’epoca, non esiste alcuna
attestazione di sorta in Venetia.
788 Vd. supra.
789Sulle implicazioni del combattimento serrato interessante l’analisi oplologica in CASCARINO 2007, pp. 63-70. 790 Sugli elmi di derivazione greca BOTTINI et ALII 1988, pp. 11-211. Sugli svantaggi apportati dagli elmi oplitici
166
e non imbracciato come l’ὅπλον791, garantiva una difesa più dinamica, non limitata al fianco
sinistro e che non esigeva l’affiancamento da parte di un commilitone. Il guerriero con scutum ed elmo celto-italico poteva quindi agevolmente affrontare scontri singoli al di fuori dalla propria formazione. Formazione che a sua volta poteva adattarsi più facilmente a quegli ostacoli del terreno che rendevano assai difficoltoso l’operato della falange. Lo scontro doveva prevedere un