CAPITOLO 8 L’impegno politico per sradicare la pratica delle MGF
8.1 Esistono dei diritti umani universalmente riconosciuti?
Norberto Bobbio ha definito il ‘900 l’età dei diritti, il secolo in cui il linguaggio dei diritti umani ha conosciuto un’espansione senza pari, trovando una sanzione ufficiale a partire dalla Dichiarazione Universale del 194884.
Si definiscono “diritti umani” quei diritti inalienabili che spettano a tutti gli esseri umani e dunque non dipendono dalle leggi dei singoli Stati ma dalla stessa appartenenza al genere umano. Il genere umano tuttavia è composto da uomini e donne uguali nei diritti, pertanto sarebbe preferibile parlare non di “diritti dell’uomo”, ma di “diritti della persona”.
Eppure solo a metà degli anni ’90, con la Conferenza di Vienna del ’93 e la Conferenza di Pechino del ’95, si è arrivati a dichiarare ufficialmente che i diritti delle donne e delle bambine sono parte integrante e indivisibile dei diritti umani. Ci è voluto insomma quasi mezzo secolo per affermare un punto di vista di genere nel dibattito sui diritti umani, che oggi ci spinge a domandarci se le mutilazioni genitali femminili costituiscano o meno una violazione dei diritti fondamentali delle donne e delle bambine85.
Dal momento che la formulazione della teoria dei diritti umani è avvenuta in Occidente (nel ’48 l’intera Africa e gran parte dell’Asia erano rappresentate in sede ONU dalle potenze coloniali), la concezione della persona umana che vi soggiace non può che rispecchiare le assunzioni politico-filosofiche dell’individualismo occidentale.
La compatibilità dei valori espressi negli strumenti di diritto internazionale con i contesti culturali extra-europei risulta dunque alquanto problematica. Bisogna infatti considerare che esistono una serie di valori profondamente radicati nelle società africane ed asiatiche che non trovano spazio nei documenti ufficiali delle organizzazioni internazionali che si occupano di diritti umani.
E’ necessario domandarsi se certe assunzioni intorno alla persona umana siano comprensibili all’interno di tradizioni culturali diverse da quella occidentale e sulla possibilità che i valori enunciati dalla teoria dei diritti umani siano riconosciuti come tali anche al di fuori dell’Occidente.
Solo se si accetta l’idea che le culture extra-occidentali si servano del diritto appropriandosene in maniera creativa, tale strumento potrà operare come un potente vettore di dialogo interculturale. La legittimità e la coerenza di qualunque apparato normativo infatti, non può essere valutata prescindendo dal contesto culturale e sociale in cui esso è immerso.
84 Leonardo Marche, “L’antropologia dei diritti umani”.
85 Tratto dal Sito Web Aidos (www.dirittiumani.donne.aidos.it).
Il vero problema è l’incapacità di molti americani ed europei di guardare alla propria cultura come ad una tra le altre; sbaglia tra loro chi ritiene che gli altri popoli debbano abbandonare il proprio sistema di valori tradizionale per abbracciare i “principi universali della modernità”.
Quello dell’universalizzazione dei diritti è un problema di comunicazione interculturale, ovvero delle modalità con le quali è possibile arrivare ad una comprensione di concetti e valori estranei al proprio sistema culturale. Ciò di cui si ha bisogno insomma, è un approccio antropologico che consenta di aprirsi all’alterità e di trovare nel proprio linguaggio le risorse per capire i fenomeni legati alle diverse culture senza imporre su di essi i propri pregiudizi. Chiunque voglia approcciarsi al tema delle mutilazioni genitali femminili non può non tenere conto di queste considerazioni.
8.2 Gli strumenti legali internazionali86 e il ruolo delle ONG
Il diritto internazionale a partire dal secondo dopoguerra si è a più riprese occupato, direttamente o indirettamente, delle mutilazioni genitali femminili. 87
Seguendo un percorso cronologico, non si può non partire dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, la quale contiene ben cinque articoli che potrebbero costituire una valida base per condannare la pratica delle MGF:
• Art. 2, sulla discriminazione.
• Art. 3, sul diritto alla sicurezza della persona.
• Art. 5, sui trattamenti crudeli, inumani e degradanti.
• Art. 12, sul diritto alla privacy.
• Art. 25, sul diritto ad un minimo standard di vita e alla protezione della maternità e dell’infanzia.
Dopo un lungo silenzio, il tema delle MGF si impone nell’agenda della politica internazionale nel 1979, anno che vede la firma della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW).88
Passi avanti sono stati compiuti in occasione del seminario organizzato dall’Organizzazione Mondiale della sanità a Khartoum (Sudan) nello stesso anno, e della già citata Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle Donne tenutasi a Copenaghen.
86 D’Angelo Gabriella, op. cit.
87 A titolo d’esempio si può citare l’articolo 4 della Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1993: “States should not invoke any custom, tradition or religious consideration to avoid their obligation to eliminate violence against women”.
88 Gli Stati si impegnano a “prendere ogni misura adeguata al fine di modificare gli schemi e i modelli di
comportamento socio-culturale degli uomini e delle donne e giungere all’eliminazione dei pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie basate sulla convinzione dell’inferiorità o della superiorità dell’uno o dell’altro sesso o sull’idea di ruoli stereotipati degli uomini e delle donne”.
Un ulteriore contributo è arrivato dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia del 1989, che all’articolo 24 afferma: “Gli stati parte devono prendere tutte le misure efficaci ed appropriate per abolire le pratiche tradizionali che possono risultare pregiudizievoli alla salute dei minori”.
Nel 1994 Il Cairo ospita la Conferenza internazionale sulla popolazione e lo sviluppo, la cui dichiarazione finale ha sollecitamente invitato i governi a proibire le MGF attraverso dei provvedimenti legislativi.
L’anno seguente una nuova Conferenza ONU sulle donne si tenne a Pechino e in questa occasione si è chiaramente affermato il primato del rispetto per l’integrità fisica del corpo umano, equiparando in modo inequivocabile le mutilazioni genitali alle altre forme di violenza sessuale89.
Nel 1997 infine, l’OMS, l’UNICEF e il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (UNFPA) hanno prodotto una dichiarazione congiunta, con la quale hanno condannato le MGF come una
“violazione di diritti umani fondamentali”.90
I progressi compiuti a livello internazionale sul tema delle MGF sono in gran parte dovuti all’attivismo di Organizzazioni Non Governative (ONG) che a lungo si sono battute per portare al centro dell’attenzione questa tematica, facendola uscire dall’oblio in cui è stata per anni relegata.
Un gran numero di paesi africani dove la pratica delle MGF è in uso è rappresentato presso il Comitato Inter-Africano sulle pratiche tradizionali che danneggiano la salute di donne e bambini (IAC), costituitosi nel 1984 a Dakar per coordinare le attività delle ONG nazionali africane.
Nel settembre 1997 l’IAC ha tenuto un incontro presso il quartier generale dell’Organizzazione per l’Unità Africana (OAU) ad Addis Abeba (Etiopia), nel quale si è avanzata la richiesta ai governi africani di adottare misure concrete per sradicare o ridurre drasticamente entro il 2005 il seguito dell’infibulazione e delle diverse pratiche mutilatorie – rinnovata due anni dopo nella Dichiarazione di Ougadougou.
Tra le ONG internazionali che si battono contro queste pratiche, si ricordano Minority Rights Group, Research Action Information Network for Bodily integrity Of Women (RAINBO), Equality Now, Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo (AIDOS), Amnesty International, ecc…91
89 Tratto dall’articolo “C’è chi dice no” di Alessandra Garusi, disponibile sul Sito Web Nigrizia.it (www.nigrizia.it).
90 Hanno inoltre sostenuto che “…è inaccettabile che la comunità internazionale resti passiva in nome di una visione distorta del multiculturalismo”.
91 Queste ed altre organizzazioni hanno fornito contributi enormi nel campo della ricerca, hanno fornito supporto logistico e finanziario alle iniziative compiute sul territorio, hanno esercitato pressioni a livello governativo e intergovernativo ed hanno organizzato una mobilitazione internazionale sul tema. Tutte hanno collocato la questione delle MGF in un contesto di discriminazione e violenza contro donne e bambine e di negazione dei loro diritti fondamentali sociali, economici, civili e politici.
L’obiettivo di queste ONG è quello di contribuire al lavoro già avviato dai movimenti delle donne africane, dando loro la possibilità di farsi sentire al di fuori dei contesti nazionali, nella speranza che questo possa aiutarli a trovare i sostegni materiali, sociali, politici e culturali necessari per sviluppare i loro progetti .
8.3 La campagna “STOP FGM!”92
“STOP Female Genital Mutilations!” è una campagna internazionale che ha l’obiettivo di contribuire alla costruzione e al consolidamento della partnership tra le organizzazioni africane ed internazionali che lottano per l’eradicazione delle MGF, spingendo inoltre l’opinione pubblica africana ed araba a guardare con favore all’abbandono di tale pratica.
Questa campagna è stata concepita ed è condotta da due organizzazioni non governative: l’AIDOS (Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo) e Non c’è Pace Senza Giustizia (NPWJ), un’associazione affiliata al Partito Radicale Transnazionale, con la collaborazione di otto ONG africane.
La campagna “STOP FGM!” è stata lanciata simbolicamente il 10 dicembre 2002, anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, durante una Conferenza internazionale presso il Parlamento Europeo a Bruxelles aperta da Emma Bonino, ex commissario europeo, ora europarlamentare radicale, e Daniela Colombo, presidente dell’AIDOS. In questa occasione è stato lanciato alla comunità internazionale l’appello “STOP FGM!” per l’abolizione delle MGF, sottoscritto successivamente da numerose personalità di rilievo internazionale, oltre che da migliaia di cittadine e cittadini di tutto il mondo. Protagoniste sono state, e sono, soprattutto le militanti anti-mutilazione arabe ed africane, in prima persona toccate da questo fenomeno.
Una delle tappe fondamentali della campagna è stata la Conferenza de Il Cairo del giugno 2003 sugli strumenti legali nazionali ed internazionali atti a combattere tradizioni come quella dell’infibulazione, che ha visto autorevoli partecipazioni, tra cui quella della First Lady Suzanne Mubarak, che ha aperto i lavori, e delle massime autorità religiose egiziane.93
A tre settimane di distanza, l’11 luglio 2003, 53 capi di stato dell’Unione Africana hanno approvato a Maputo (Mozambico) un protocollo alla Carta Africana dei Diritti Umani, che conferisce un ampio raggio di diritti alle donne africane.94
Si è aperta così una seconda fase della campagna “STOP FGM!” nel periodo 2004-2006 volta a raggiungere, attraverso la costruzione di un ambiente sociale e culturale favorevole all’abbandono della pratica che preveda anche il coinvolgimento dei media, le 15 ratifiche necessarie all’entrata in vigore del Protocollo di Maputo.
92 Tratto dai Siti Web: Stop FGM! (www.stop-fgm.org); No Peace Without Justice (www.npwj.org); Emma Bonino (www.emmabonino.it/campagne/stopfgm).
93 La conferenza ha portato ad una dichiarazione finale in cui le MGF vengono condannate e in cui si chiede ai governi, ai rappresentanti delle organizzazioni internazionali e nazionali, ai rappresentanti della società civile e ai leaders religiosi un maggiore impegno nel promuovere gli strumenti legislativi per la prevenzione di questa pratica, insieme ad un’opera di sensibilizzazione circa il suo impatto negativo sulla salute delle donne.
94 All’articolo 5, si specifica che le pratiche tradizionali gravemente lesive per le donne e le bambine, come le MGF, costituiscono una violazione del diritto all’integrità fisica della persona e, per questo, devono essere proibite e condannate.
Proprio al fine di promuovere la ratifica del suddetto Protocollo, Non c’è Pace Senza Giustizia e AIDOS, coordinate da Emma Bonino, hanno organizzato due Conferenze: la prima a Nairobi (Kenya), dal 16 al 18 settembre 2004, e la seconda a Gibuti, nel Corno d’Africa, il 2 e 3 febbraio 2005. In occasione di quest’ultima, si è verificato un fatto singolare: un primo documento presentato dagli esponenti islamici, che lasciava margini per un’interpretazione permissiva del testo coranico, è stato ritirato in seguito alla ribellione avvenuta in plenaria che ha visto protagoniste molte delle donne presenti. Ciò ha reso possibile l’adozione di una dichiarazione finale che non solo ribadisce l’infondatezza di qualsiasi legame tra il Corano e queste pratiche tradizionali, ma afferma con forza che nessun tipo di mutilazione deve in alcun modo essere praticata perché contraria agli stessi principi religiosi. E’ evidente come questo sia il segno di un cambiamento in corso nella società africana su un tema che per lungo tempo è stato un tabù.
Recentemente, nel mese di ottobre, il Protocollo di Maputo ha raggiunto la soglia delle 15 ratifiche ed è oggi a tutti gli effetti operativo.
8.4 Gli strumenti adottati a livello nazionale95
Burkina Faso, Eritrea, Egitto, Kenya, Sudan sono alcuni degli stati africani che hanno adottato misure legislative per affrontare il problema delle MGF, eppure, nei paesi dove tali tradizioni sono largamente diffuse, i cambiamenti di mentalità e di costume stentano a decollare e l’applicazione delle leggi, spesso rigide e repressive, risulta assai problematica. Nessuno stato africano appoggia ufficialmente l’infibulazione o l’escissione, ma molti la tollerano o comunque non riescono a contrastarla con efficacia. Inoltre, laddove si è riusciti a ridurre il seguito delle pratiche mutilatorie, ciò non è parso come il risultato di un’azione legislativa, ma piuttosto del mutato contesto socio-culturale.
Singolare è il percorso intrapreso dalle donne eritree che, fra il 1970 e il 1991, hanno partecipato attivamente alla lotta per l’indipendenza, riuscendo a conseguire un’emancipazione sociale senza precedenti, fino a rompere con quelle tradizioni ancestrali che le relegavano in una condizione di inferiorità, tra cui le MGF. Si è trattato insomma di donne che hanno preferito l’arruolamento al matrimonio forzato e al “coltello”. Per comprendere l’eccezionalità del caso, bisogna considerare che il Fronte popolare di liberazione dell’Eritrea era costituito per il 30% da donne.
Nonostante ciò, fino a poco tempo fa mancava una legge che proibisse le diverse forme di circoncisione femminile. La sanzione legislativa è arrivata solo di recente, con le riforme apportate al codice civile.
95 Tratto dall’articolo “C’è chi dice no” di Alessandra Garusi, disponibile sul Sito Web Nigrizia.it (www.nigrizia.it).
Conclusioni
Per affrontare le incomprensioni e i conflitti che inevitabilmente sorgono all’interno di una dinamica interculturale, come la questione delle MGF, bisogna cercare di andare oltre due atteggiamenti opposti ma ugualmente limitanti: va infatti evitato tanto un atteggiamento etnocentrico quanto un banalizzante relativismo culturale. Il primo è funzionale alla protezione della nostra identità, ma il fatto di escludere “l’altro” da “sé” in un meccanismo di “purificazione identitaria” degenera ben presto nel razzismo. Inoltre, individuando nelle tradizioni altrui (e quindi nelle MGF) arretratezza e barbarie, l’etnocentrismo rivela un evoluzionismo di fondo e finisce per generare una chiusura e un’ostilità ancora maggiore nei nostri confronti da parte degli “altri”: di fronte all’arroganza degli occidentali “neocolonialisti”, tutti coloro che si identificano nelle identità minoritarie finiscono per applicare dei meccanismi di resistenza, esasperando quegli stessi rituali che noi pretenderemmo di abolire.
D’altra parte, va evitata anche una superficiale accettazione di tutti i costumi altrui in nome di un relativismo culturale “esasperato quanto banale”.96
Quello che bisogna evitare è che il rapporto tra “noi” e gli “altri” si trasformi in una sorta di
“braccio di ferro” tra due identità, una più forte e una più debole (che inevitabilmente corre il rischio di essere schiacciata e che, per tentare di salvaguardarsi, si radicalizza, diventando ancora più ostile). La dinamica interculturale non deve configurarsi quindi come un rapporto di forza: al contrario, basandosi sull’incontro, (un incontro, comunque, spesso difficile da gestire), deve necessariamente proporre degli stili di interazione nuovi e non basati sugli stereotipi e pregiudizi spesso generati dal concetto di “identità”.
Per questa ragione potrebbe essere utile accantonare, in una prospettiva interculturale, un concetto rigido come quello di “altro” per recuperarne uno nuovo, quello di “prossimo”. Mentre la categoria di “altro”, infatti, si definisce soltanto in opposizione alla nostra identità (per cui rappresenta un
“oggetto” statico), quella di “prossimo” può essere utilizzata per descrivere qualcuno con cui noi ci relazioniamo, in un’ottica dinamica.
La psicologa Margalit Cohen-Émérique, fondatrice del cosiddetto “metodo degli incidenti critici”
individua la principale evoluzione della pedagogia interculturale proprio nel superamento di una semplice apertura alla conoscenza di altre culture (atteggiamento che, tra l’altro, rischia di sfociare in un pericoloso culturalismo). L’approccio che propone è basato invece sull’interazione, su una
96 La definizione è di BENEDUCE, Frontiere dell’identità e della memoria. Etnopsichiatria e migrazioni in un mondo creolo, Milano 1998, p. 74.
comunicazione all’interno della quale i due attori siano in presenza.97 Questo nuovo modello di pedagogia interculturale non fa che confermare quanto già affermato in precedenza a proposito dell’urgenza di una “ridefinizione identitaria”: ridurre chi ci sta di fronte alla sua sola “identità” (in opposizione alla nostra) significa rafforzare qualsiasi stereotipo e pregiudizio nei suoi confronti, e rapportarci con una sola “dimensione” della persona che abbiamo di fronte rende la relazione ancora più difficile e conflittuale. Ciò avviene perché vedere la dinamica nei termini di “identità in opposizione” non può fare altro che radicalizzare tanto il nostro atteggiamento verso, in questo caso, i popoli che praticano le MGF, quanto il loro verso di noi.
In ogni caso, la relazione interculturale, è tutt’altro che semplice: è pressoché inevitabile che, anche cercando di superare pregiudizi e stereotipi, si generino situazioni di malinteso e incomprensioni o addirittura situazioni di vero e proprio rifiuto tra i due “attori” del rapporto.98
Nel mondo contemporaneo, ormai tutto viene incessantemente messo in discussione: la dinamica interculturale consiste proprio in una ridefinizione identitaria che presupponga un adattamento reciproco degli attori in gioco.99 In questo senso noi occidentali dobbiamo essere pienamente consapevoli che anche il nostro sistema di valori è soggetto ad un inarrestabile mutamento da cui non possiamo proteggere la nostra identità precostituita.
“Anche coloro che nascono, vivono e moriranno nel medesimo luogo, partecipano ad un movimento di dislocazione collettiva attraverso i mass media e le nuove tecnologie comunicative”.100
Uno strumento efficace per mettere in atto un’interazione con “l’altro” consiste nel
“decentramento”, ossia un meccanismo in cui l’antropologo prende coscienza dei propri valori di riferimento, delle proprie usanze, dei propri comportamenti allo scopo di paragonarli ai valori, ai costumi, alle regole che definiscono l’identità altrui. Questa “rigorosa ricerca etnografica del sé”101, elaborata a partire dalla fine degli anni ’30, è fondamentale per indurci a guardare noi stessi
“dall’esterno”: il decentramento ci spinge a riflettere su quello che siamo e sui valori su cui tendiamo a fondare la nostra identità, prendendo coscienza della relatività del nostro punto di vista e superando di conseguenza gli stereotipi e i pregiudizi verso il prossimo. Sia gli shock culturali
97 COHEN-ÉMÉRIQUE, Margalit, Le choc culturel, méthod de formation et outil de recherche, in J. Demorgon E.M.
Lipiansky (a cura di), Guide de l’interculturel en formation,Paris, 1999, pp. 301-315 (pp. 302-04) e Le choc culturel, in
“Antipodes”, 130 (settembre 1995), pp. 8-36 (pp. 5-7).
98 BENEDUCE, Frontiere dell’identità, op. cit. pp. 10 ss.
99 BENEDUCE, ibidem.
100 CALLARI GALLI, Matilde, Antropologia per insegnare. Teorie e pratiche dell’analisi culturale, Torino-Milano, 2000, pp. 2 ss.
101 CALLARI GALLI, ibidem.
(dovuti a incomunicabilità o a semplice incomprensione) che le situazioni di vero e proprio conflitto, come ad esempio, appunto, il rifiuto da parte occidentale di una prassi per noi intollerabile, ma per altre comunità assolutamente fondante, come quella delle mutilazioni, si generano laddove sono coinvolte “zone sensibili”, vale a dire i rispettivi valori di base e le differenti rappresentazioni della realtà che identificano ognuno di noi.
Un metodo che, a partire dal decentramento, consente di risolvere le situazioni caratterizzate dall’incomprensione e dall’incomunicabilità prende il nome di “metodo degli shock culturali”. Tale metodo, consentendoci di far emergere le nostre “immagini guida”, ovvero le rappresentazioni, i sistemi di valore e le prassi interne alla nostra formazione, ci facilita indubbiamente la distinzione delle rispettive “zone di incomprensione”: tali zone riguardano tutte quelle rappresentazioni che noi diamo per scontate ma che in realtà variano a seconda dei valori culturali di riferimento, come i ruoli dell’uomo e della donna, l’educazione dei figli, la concezione del tempo e dello spazio, i valori riguardanti la persona.102 Quando nella dinamica interculturale ci si trova ad affrontare uno di questi temi, il rapporto è dunque particolarmente a rischio. Sia i semplici fraintendimenti, che i conflitti, anche quelli più gravi, necessitano di un meccanismo che proponga agli attori in gioco (in questo caso, l’Occidente e le comunità in cui si praticano le MGF) dei nuovi modi per interagire; se non si è disposti a “negoziare”, l’altro esisterà sempre come un “non-io”, con cui inevitabilmente il rapporto sarà ingestibile.
102 COHEN-ÉMÉRIQUE, Margalit, L’approche interculturelle dans le processus d’aide, in “Santé mentale au Québec”, 13 (1993).
Bibliografia
• AA.VV. Universalità e differenza: cosmopolitismo e relativismo nelle relazioni tra identità sociali e culture, Milano, Franco Angeli, 1996.
• BENEDICE, Roberto. Frontiere dell’identità e della memoria – Etnopsichiatria e migrazioni in un mondo creolo, Milano, 1998.
• BILOTTI, Edvige. La pratica della mutilazione genitale femminile, in “Un mare di donne”,
• BILOTTI, Edvige. La pratica della mutilazione genitale femminile, in “Un mare di donne”,