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Motivazioni estetiche

Nel documento Le Mutilazioni Genitali Femminili (pagine 27-0)

CAPITOLO 4 Motivazioni “altrui” e questioni del “noi”

4.6 Motivazioni estetiche

Alcune giustificazioni delle MGF sono basate su fattori estetici. Ma di quale estetica si tratta?

Noi sappiamo che il concetto di bellezza e dell’immagine del corpo varia da cultura a cultura.

“Tutte le culture possiedono una propria nozione su come il corpo dovrebbe essere modellato, sulle sue dimensioni e sul suo ornamento. Le immagini di come dovrebbe essere un “bel” corpo sono incredibilmente varie; l’apparenza formale del corpo in un gruppo potrebbe sembrare non del tutto umana ad un rappresentante dell’altro gruppo”.59

Il tipo di estetica con cui è necessario misurarsi per comprendere le ragioni della mutilazione è il concetto di bellezza intesa come ordine, proporzione, misura. L’obiettivo delle MGF è l’eliminazione dell’imperfezione fisica, il raggiungimento dell’armonia e delle forme. La mutilazione risponde ad una estetica intesa come purezza, forza, coraggio, basata sulla netta demarcazione dei ruoli sessuali ed ottenuta attraverso l’eliminazione degli elementi “ambigui” nel corpo.

Si tratta dunque di una bellezza insieme estetica, scientifica e morale.60

In particolare, presso alcune culture esiste una teoria prevalente secondo la quale i genitali femminili possano crescere durante lo sviluppo, come accade per i genitali maschili. Da ciò potrebbe risultare una situazione imbarazzante in cui la clitoride giunga a pendere fra le gambe come il pene maschile.

In realtà, secondo una prospettiva medica, sappiamo che la configurazione, la struttura e le funzioni della maggior parte degli organi del corpo, sono determinati da influenze genetiche ed ormonali. Gli ormoni del sesso nel corpo determinano le caratteristiche chiaramente distinguibili dei due sessi. Se quindi la clitoride di una donna si sviluppasse troppo si tratterebbe di una manifestazione di un disordine interno che necessiterebbe di un’immediata attenzione specifica.61

59 FISCHER, 1986, pp. 123 ss.

60 BILOTTI, Edvige, op. cit.

61 A. EL DAREER, Woman, why do you weep?, London, Zed Press, 1982.

CAPITOLO 5 Il pluralismo culturale

5.1 E se fosse un diritto inalienabile?

C’è anche chi difende la validità delle mutilazioni genitali femminili. Si tratta soprattutto di etnologi e antropologi francesi.

Tobie Nathan, già citato nelle pagine precedenti, un etnopsichiatra che insegna all’Università Paris VIII, afferma:

“Altro che tortura, questa pratica si inserisce in una teoria più vasta, comune a tutta l’Africa, riguardante il concepimento e la nascita degli esseri umani. In questo continente si considera che il neonato provenga da un altro mondo e che sia stato modellato da una divinità in maniera un po’ imperfetta: l’educazione e l’iniziazione servono appunto per perfezionarlo”.

Nathan, che incarna una delle posizioni più radicali, arriva a riabilitare, come già visto, le mutilazioni genitali femminili:

“l’escissione è un meccanismo di prevenzione, uno straordinario beneficio sociale […] Senza il rituale dell’escissione la donna è incompleta, errante, in una sorta di turbinio di elementi. Cerca dunque altri tipi di iniziazione, più metropolitani”.

Secondo lo psichiatra, le donne escisse sono molto più equilibrate e l’incidenza della malattia mentale tra loro è quasi nulla e sostiene inoltre che i riti iniziatici (come appunto le mutilazioni) possono essere modificati soltanto se è un popolo intero a farlo.

A dare man forte a Nathan, troviamo l’antropologo Claude Lévi-Strauss che, in anni recenti, ha affermato che c’è “poesia e bellezza” nelle mutilazioni, che costituiscono un attentato all’integrità del corpo infantile “solo secondo una morale occidentale”.62

A questo si aggiunge il fatto che nella maggior parte dei popoli primitivi è molto difficile ottenere una giustificazione morale, o una giustificazione razionale di un’usanza o di un’istituzione: anche quando si hanno delle risposte, esse hanno sempre il carattere di razionalizzazione. Le ragioni

62 Citazioni tratte dal Sito Web Nigrizia.it (www.nigrizia.it).

inconsce per cui si pratica un’usanza o si condivide una credenza, sono in genere assai lontane da quelle con cui il soggetto cerca di giustificarle.63

5.2 Oltre i diritti umani, tra relativismo e universalismo

Un lavoro sulla mutilazione genitale femminile ci espone al rischio di essere considerati etnocentrici. Emerge un contrasto tra relativismo e universalismo, piuttosto comune, del resto, quando si trattano argomenti che coinvolgono il pensiero e i costumi tradizionali. I relativisti sottolineano il diritto di ciascuno a conservare intatto il proprio sistema di valori e un corrispondente “diritto di essere lasciati soli” nelle decisioni attinenti alla propria sfera personale.

Di contro, gli universalisti, che attualmente sembrano dominare il dibattito, si oppongono alla pratica delle MGF sulla base dei comprovati effetti sulla sessualità femminile, oltre che dei rischi per la salute che l’intervento può causare nel breve e nel lungo periodo. Sempre secondo gli universalisti, il relativismo culturale e il rispetto per le diverse tradizioni possono essere facilmente utilizzati come cortina di fumo dietro cui celare l’inerzia.64

Gli occidentali, basandosi spesso su presupposti “astorici” e su atteggiamenti figli dell’

“evoluzionismo culturale”, tendono a vedere la pratica delle mutilazioni semplicemente come un atto di violenza contro le donne che pertanto deve essere abolito e le MGF sono quindi interpretate come una forma di tortura e di violazione dei diritti umani fondamentali.

Fran Hosken65 giudica le MGF come una forma di violenza da parte degli uomini sulle donne. Le paragona allo stupro, alle percosse, alla prostituzione forzata, alla segregazione. Nei suoi scritti le donne sono rappresentate come vittime della violenza maschile e sono ridotte ad una unità universale sulla nozione riduttiva della loro oppressione.

La specificità culturale e il processo storico della pratica sono ignorati. Oltre la “sorellanza”, ci sono complesse condizioni culturali e specificità storiche da capire e rispettare. La rappresentazione di tutte le donne del cosiddetto “Terzo Mondo” come una categoria universale costituita da persone generalmente deboli e sottomesse (come erano deboli e sottomesse le donne occidentali durante il secolo scorso) è semplicista, pregiudiziale e presuppone un atteggiamento evoluzionista.66

Ciò non significa che, in nome di superficiale relativismo culturale, dobbiamo accettare in modo asettico tutte le prassi che derivano dalle “altre” culture, calpestando i nostri valori basilari: tuttavia non c’è nulla di più controproducente del voler imporre determinati comportamenti a persone che

63 FUSASCHI, Michela, op. cit.

64 FAVALI, Lydia, Le mutilazioni del corpo: tra relativismo e universalismo. Oltre i diritti fondamentali?

65 Fran HOSKEN, The Hosken Report, op. cit.

66 BILOTTI, Edvige, op. cit.

spesso scelgono di avvalersi di questi meccanismi rituali (e di radicalizzarli) proprio per cercare di tenere in vita la loro identità, opponendola al “neocolonialismo” arrogante dell’imperialismo occidentale. Il problema quindi non è tanto schierarsi a favore o contro questa prassi, quanto piuttosto quello di “storicizzarla”, senza pregiudizi o generalizzazioni di sorta.

Inoltre, la razionalità occidentale non dovrebbe costituire l’osservatorio privilegiato per valutare (e giudicare) le altre culture.

Svolgendo la ricerca ci siamo resi conto di come gli studi più recenti manchino della “dimensione etnologica”, anzi, talvolta, ricollocare queste operazioni nella loro dimensione etnografica e sociale sembra quasi essere divenuto per alcuni un ostacolo, mentre altri lo ritengono quasi un

“attardamento relativista”, una inutile, se non dannosa, perdita di tempo. Secondo questa valutazione non ci sarebbe bisogno di “giustificare” culturalmente quello che viene ritenuto inaccettabile moralmente, come se non si trattasse di un fenomeno culturale, ma di una mera espressione di crudeltà e di potere. Tale impostazione si traduce allora in una vera e propria condanna aprioristica, secondo cui tutti gli antropologi sarebbero comunque e per principio relativisti e complici di una certa “congiura del silenzio”.

CAPITOLO 6

Tra il rispetto dei diritti umani e il rispetto delle diverse identità culturali

6.1 L’evoluzione dell’approccio al tema delle mutilazioni genitali femminili

Le mutilazioni genitali femminili (MGF) sono sempre state circondate da un silenzio che ha contribuito per lungo tempo a farne un argomento tabù per le popolazioni che le praticano, con la tacita complicità dell’Occidente, il quale con il colonialismo prima e con le politiche di cooperazione allo sviluppo poi, ha preferito ignorare tale pratica, trincerandosi dietro ad un’inusuale forma di rispetto delle tradizioni locali.

Infatti, fatta eccezione per le testimonianze, già citate, che compaiono a partire dalla fine del XII secolo in alcuni documenti etnografici, frutto delle relazioni dei viaggi colonialistici, poche sono le ricerche compiute sulle MGF e quelle poche risultano incomplete, probabilmente perché, per molto tempo, ad andare sul campo sono stati in prevalenza gli uomini, che avevano difficoltà di accesso, oltre che uno scarso interesse, al mondo femminile.

Indubbiamente poi, per molto tempo l’atteggiamento dell’antropologo nei confronti di molte pratiche di gestione del corpo è stato improntato al laissez faire, ad un’attenzione meramente descrittiva67.

Oggi tuttavia, il muro di omertà e di indifferenza che per secoli ha relegato le MGF fuori dalla storia ha cominciato ad incrinarsi e quest’ultime paiono esser diventate, dopo anni di campagne di sensibilizzazione promosse da organizzazioni non governative - internazionali ed africane - e dalle varie agenzie delle Nazioni Unite, una nuova questione sociale legata al rispetto dei diritti umani e alla salvaguardia della salute di donne e bambine. Da molte nazioni infatti si stanno alzando voci di donne che, pur restando strettamente legate alla propria identità ed eredità culturale, sono pronte a metterla in discussione quando pratiche tradizionali compromettono la loro vita e la loro salute, e per questo si battono contro le mutilazioni, evitando di distruggere i fili che sostengono costruttivamente il loro tessuto culturale68.

Si è innescato insomma un lento mutamento culturale che ha coinvolto l’intera opinione pubblica mondiale, sotto la spinta delle organizzazioni femminili che hanno sollecitato in più occasioni il dibattito su un tema tanto delicato che ci pone davanti ad interrogativi di non facile soluzione: può il

67 FUSASCHI, Michela, op. cit.

68 Rapporto del Minority Rights Group, op. cit.

sesso femminile determinare il destino di una donna? Può una tradizione locale giustificare quella che a molti pare una violazione della sua dignità ed integrità personale?69

In Occidente la pratica delle mutilazioni genitali femminili ha suscitato grande sdegno, orrore e condanna. Se questo ha aiutato a rompere il silenzio sull’argomento, è anche vero che inizialmente, senza il riconoscimento della complessità e delicatezza del problema, nonché senza un’adeguata conoscenza del contesto sociale e culturale in cui la pratica delle MGF si situa, ha aumentato la distanza tra coloro che in Occidente combattono una tradizione considerata barbarica e le popolazioni del Terzo Mondo che la vivono sulla propria pelle.

Come ha dimostrato la Conferenza di Copenaghen del 1980, cui si farà riferimento successivamente, molte donne africane hanno respinto l’indignazione occidentale come imperialistica, ignorante e aggressiva, rivendicando il diritto alle differenze culturali e alla difesa dei valori tradizionali. Presentando le donne soggette alle mutilazioni genitali come vittime di società patriarcali e culture tradizionali maschiliste infatti, si è incautamente negato ogni contributo di queste stesse donne alla formazione del sistema di valori proprio del contesto in cui vivono, ignorando per giunta la specificità culturale ed il processo storico della pratica che si intendeva combattere70.

Pertanto, la condanna tout court in assenza di strumenti di conoscenza adeguati non fa che riproporre uno schema miope ed etnocentrico che non rispetta i soggetti concreti71.

Se, ad esempio, fa parte della cultura occidentale odierna l’idea che il corpo costituisca un bene proprio della persona, considerato inalienabile e inalterabile, bisogna considerare che in altre culture il corpo è più un dominio della collettività che della singola persona. In altre parole, in queste culture il corpo sociale ha una sorta di primato, perciò si parla di “corpo comunitario”, mentre il concetto di singolarità dell’individuo è del tutto estraneo.

Eppure, se guardiamo al passato, nello stesso Occidente, - ed in particolare in Europa - che oggi si erge a difensore dei diritti umani, durante il periodo medioevale (ma si potrebbero anche citare esempi meno lontani nel tempo) erano in uso abitudini come quella di imporre la cintura di castità alle donne il cui retaggio culturale non si discostava molto dai significati sociali che sono alla base della pratica delle MGF.

Forte delle conquiste del liberalismo e di una tradizione che negli ultimi tre secoli ha vissuto le esperienze dell’Illuminismo, della Rivoluzione Francese e delle rivoluzioni democratiche del ‘900, l’Occidente oggi si chiede se possa il rispetto della cultura dell’altro spingersi fino all’assunzione di

69 Documento di lavoro sulle mutilazioni genitali femminili a cura di Gabriella D’Angelo, tratto dal Sito Web del Partito Radicale Transnazionale (www.radicalparty.org/fgm).

70 BILOTTI, op. cit.

71FUSASCHI, Michela, op. cit.

un ruolo di spettatore passivo di fronte a quella che viene comunemente percepita come una violazione del diritto della donna a disporre del proprio corpo.

6.2 Il contributo dell’antropologia culturale

In un contesto di impegno per abolire le mutilazioni genitali femminili, gli studi antropologici compiuti negli ultimi anni hanno messo in luce come72:

1) Ai fini di una più efficace organizzazione della campagna abolizionista, è necessario abbandonare gli atteggiamenti etnocentrici e adottare invece un approccio multidisciplinare che consenta di comprendere il contesto socio-culturale, economico e di relazioni di genere in cui la pratica delle MGF avviene, evitando inoltre di cadere nell’errore di considerare che convinzioni culturali interiorizzate fin dall’infanzia siano facili da eliminare.

Una donna che ha subito una mutilazione genitale conosce sulla sua pelle il dolore che si prova, ma sa anche che quello è ciò che la sua cultura, la sua comunità, la sua famiglia le chiedono e probabilmente continueranno a chiedere alle donne future.

2) Nessun cambiamento è possibile senza la partecipazione delle donne africane. Infatti qualunque campagna di sensibilizzazione che non coinvolga le dirette interessate verrebbe percepita dalle popolazioni cui si indirizza il proprio messaggio come un’indebita ingerenza da parte degli occidentali interessati a colpire l’identità culturale altrui per affermare la propria.

3) Per riuscire almeno a ridurre il seguito di tali pratiche, c’è bisogno di una strategia fondata sull’educazione, il dialogo e la crescita comune, che non si limiti ad interventi di natura legislativa, che di per sé non portano ad un gran risultato se non a quello di accrescere l’ostilità reciproca e, conseguentemente, inasprire la difesa della propria identità da parte delle comunità in cui la pratica delle MGF è in uso. Alla Conferenza sulle mutilazioni genitali femminili tenutasi a Il Cairo nel 2003 diverse leaders politiche africane, tra cui la first lady egiziana Suzanne Mubarak, hanno ribadito che proibire, senza una campagna di sensibilizzazione e di educazione, non basta. In molti paesi africani esistono già norme penali e civili che puniscono chi pratica le mutilazioni ma, sebbene necessarie, spesso da sole sono inutili dal momento che tutto continua ad avvenire in clandestinità. Infatti,

72 BILOTTI, Edvige, op. cit.

specialmente lontano dalle grandi città, le leggi dello Stato non riescono a reggere il confronto con le pressioni esercitate dai genitori, dai capi del villaggio e dai dignitari religiosi. Se poi si considerano i tentativi di abolire le MFG attraverso la legge in periodo coloniale, si vedrà che essi vennero interpretati come un’intromissione di ordine imperialistico, portando tale pratica a divenire simbolo di resistenza all’influenza straniera.

La condanna di operazioni lesive dell’integrità psicofisica della donna è ormai diffusamente riconosciuta come un’esigenza morale primaria e indiscutibile, ma gli appelli in tal senso e ancor più i divieti risultano sterili se non si comprendono le logiche e le implicazioni socio-culturali di queste pratiche, così come le idee e le rappresentazioni che le accompagnano.

Il contributo che l’antropologia può fornire è proprio quello di aiutare a capire il punto di vista dell’altro per mettere in atto interventi pensati in una prospettiva interculturale, fondati sul dialogo piuttosto che su un’acculturazione forzata attraverso l’imposizione di propri codici di comportamento73.

E’ dunque necessario elaborare una strategia d’azione più complessa che consenta di avviare un processo di trasformazione sociale. Nel tentativo di delinearla, sono di seguito indicate alcune tappe imprescindibili74:

• Compiere ricerche preliminari a carattere psicologico e socio-antropologico per contestualizzare la pratica delle MGF.

• Informare le comunità locali dei danni psicologici, sociali e fisici causati da tale pratica, attraverso i consultori familiari, le scuole, le unità sanitarie e mediche, ecc…

• Organizzare campagne nazionali di sensibilizzazione facendo ricorso ai mass media e coinvolgendo i leaders religiosi, nel rispetto delle diverse sensibilità culturali.

• Predisporre programmi formativi sul tema delle MGF rivolti agli operatori in campo sociale e sanitario che hanno quotidianamente a che fare con potenziali soggetti a rischio.

• Implementare il sistema educativo, diffondendo l’istruzione femminile come mezzo alternativo per raggiungere l’autoidentità e includendo nei programmi scolastici l’illustrazione dei danni provocati dagli interventi di mutilazione.

• Offrire possibilità d’impiego alternative a quelle donne di età avanzata che praticano gli interventi di escissione come loro unica fonte di reddito.

73 FUSASCHI, Michela, op. cit.

74 Rapporto del Minority Rights Group, op. cit.

• Sostenere le associazioni e le ONG da tempo impegnate su questo tema, favorendo un loro coordinamento e prestando particolare attenzione al ruolo che possono ricoprire le organizzazioni femminili locali.

• Estendere al tema delle MGF le informazioni fornite nei programmi di assistenza sanitaria alle donne incinte e a coloro che sono già madri.

Bisogna poi considerare che una campagna volta a sradicare il fenomeno delle MGF deve rivolgersi soprattutto alle donne: sono infatti loro le depositarie di questa tradizione; coloro che, in quanto custodi della moralità delle proprie figlie, hanno un particolare interesse a preservare l’onestà e la

“purezza” di quest’ultime.

Solo in tale contesto una legislazione che vieti le mutilazioni genitali femminili può sortire gli effetti desiderati, minando il consenso su cui si basa la legittimazione di qualsivoglia tradizione, rito o pratica culturale. La cultura infatti non è una realtà immutabile, ma un flusso in costante movimento, perciò le persone possono modificare i propri comportamenti quando si rendono conto della loro dannosità e comprendono che è possibile abbandonare pratiche tradizionali violente senza intaccare gli aspetti significativi della loro cultura75.

75 Rapporto del Minority Rights Group, op. cit.

CAPITOLO 7

La posizione delle donne e le pressioni sociali

E’ il 1980 quando a Copenaghen, durante i lavori della prima Conferenza ONU sulla Donna, un gruppo di donne africane taccia le femministe occidentali di imposizione culturale in riferimento alla campagna da loro intrapresa contro le mutilazioni genitali femminili.

Cinque anni dopo, a Nairobi, la terza Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sulla Donna non riuscì, ancora una volta, a prendere alcuna decisione sul tema delle MGF, per il fatto che molte donne islamiche dichiararono la superiorità della propria identità religiosa ed etnica sulla loro salute fisica.

Sono passati una ventina d’anni da allora e le posizioni in seno alla società africana hanno subito notevoli trasformazioni. Eppure la circoncisione femminile e l’infibulazione continuano ad essere diffuse e l’opposizione alle mutilazioni genitali femminili è relativamente forte solo nella Repubblica Centrale Africana e in Eritrea.

La motivazione più frequente nell’interpretare il protrarsi di tali pratiche è che così è sempre stato e così inevitabilmente sempre sarà: molte donne non hanno nemmeno mai preso in considerazione l’ipotesi che questa tradizione di lunga data possa cessare di tramandarsi di generazione in generazione. Ovviamente non si può pensare che una madre sia capace di imporre una sofferenza così grande alla propria figlia per puro piacere o per pura vendetta, avendola a suo tempo subita; è più plausibile che ciò avvenga in buona fede, nel convincimento che sia per il bene della figlia, perché possa trovare un buon marito ed essere rispettata dalla propria comunità76. La volontà di salvaguardare l’accettazione da parte della comunità fa sì che, anche tra coloro che si oppongono alle mutilazioni genitali femminili, vi siano donne che decidono di far circoncidere le proprie figlie, in seguito alle forti pressioni sociali o all’influenza dei membri più anziani della famiglia. Si registrano addirittura casi di bambine i cui genitori si rifiutano di sottoporle all’asportazione di parte del loro apparato genitale e, ciononostante, subiscono tale intervento per opera delle loro nonne, che

La motivazione più frequente nell’interpretare il protrarsi di tali pratiche è che così è sempre stato e così inevitabilmente sempre sarà: molte donne non hanno nemmeno mai preso in considerazione l’ipotesi che questa tradizione di lunga data possa cessare di tramandarsi di generazione in generazione. Ovviamente non si può pensare che una madre sia capace di imporre una sofferenza così grande alla propria figlia per puro piacere o per pura vendetta, avendola a suo tempo subita; è più plausibile che ciò avvenga in buona fede, nel convincimento che sia per il bene della figlia, perché possa trovare un buon marito ed essere rispettata dalla propria comunità76. La volontà di salvaguardare l’accettazione da parte della comunità fa sì che, anche tra coloro che si oppongono alle mutilazioni genitali femminili, vi siano donne che decidono di far circoncidere le proprie figlie, in seguito alle forti pressioni sociali o all’influenza dei membri più anziani della famiglia. Si registrano addirittura casi di bambine i cui genitori si rifiutano di sottoporle all’asportazione di parte del loro apparato genitale e, ciononostante, subiscono tale intervento per opera delle loro nonne, che

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