• Non ci sono risultati.

In Italia segni di ulteriore cambiamento dell’arte plastica si registrarono fra la fine dagli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta. In quel periodo infatti alcuni artisti manifestarono una sorta di ‘inversione di tendenza’ dalle dilaganti esperienze di matrice concettuale e poverista, si registrò un ritorno alla figurazione. Sul corretto significato di tale ritorno, risulta illuminante la seguente riflessione di Angelo Trimarco: “il concetto di ritorno presuppone un’interruzione, una frattura, nella pratica della figurazione che in realtà non si è mai verificata, come dimostrano le numerose e differenziate esperienze catalogabili come ‘figurative’ che hanno attraversato, senza soluzione di continuità, i decenni precedenti”39.

La questione del “ritorno” va dunque chiarita nell’ambito del mercato e della critica, come sostiene Angela Vettese: “Molti critici ritengono sia stato proprio il collezionismo a decretare il successo del neoespressionismo internazionale: il nuovo flusso di denaro che penetrava nell’arte come negli altri settori produttivi chiedeva opere d’arte di più immediata comprensione; altri ritengono invece che un ritorno alla piacevolezza, alla manualità, all’eclettismo fosse dettato da uno spirito dell’epoca che proponeva valori neoconservatori” 40. E ancora: “Sul finire degli anni Settanta il termine concettuale si era talmente diffuso da designare ben poco di preciso, se non alcune caratteristiche comuni di opere sempre meno attraenti: il pubblico avvertiva una stanchezza crescente verso il loro intellettualismo, la supremazia del progetto sull’esecuzione, la dipendenza da un credo che era nato in opposizione al mercato ma poi vi si era piegato volentieri, facendo merce di ogni ritaglio di giornale o residuo di performance. L’attività di quegli artisti formatasi in quella direzione non cessò, ma piuttosto cambiò il suo modo di presentarsi al pubblico, oppure semplicemente si infossò, pronto a tornare in superficie una decina d’anni dopo” 41.

39 A. Trimarco, Il “ritorno dell’immagine”, in L’arte del XX secolo. Neoavanguardia,

postmoderno e arte globale 1969-1999, Ginevra-Milano 2008, p. 299

40 A. Vettese, Le reazioni al concettuale, in Capire l’arte contemporanea, Torino 2006, p. 276 41 Ibidem

Sembra piuttosto chiaro, a questo punto, quello che fu l’ambiente culturale entro cui certe manifestazioni artistiche si svilupparono. L’arte nata nell’ambito del Concettuale, ma così come dalle esperienze poveriste, si rivolgeva a un ristretto pubblico specialistico mentre il mercato dell’arte chiedeva opere di facile lettura e particolarmente gradevoli sotto il profilo estetico. Pertanto la soluzione invocata era quella del ritorno all’immagine.

Nel 1979 Achille Bonito Oliva teorizzò il ritorno alla figurazione nell’ambito di quella ‘corrente’ che da lui venne definita Transavanguardia. Bonito Oliva raccolse attorno a sé cinque artisti, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Sandro Chia, Mimmo Paladino e Nicola de Maria, in grado di supportare le sue teorie estetiche. I cinque artisti, sebbene di diversa formazione e provenienti da ambiti regionali differenti, furono scelti perché accomunati da una simile visione dell’arte. La caratteristica emergente era il cosiddetto ‘passo dello strabismo’, inteso come la possibilità di andare avanti guardando indietro o di lato42. “L’aria

culturale in cui opera l’arte degli anni Ottanta è quella della Transavanguardia, che considera il linguaggio come uno strumento di transizione, di passaggio da un’opera all’altra, da uno stile all’altro. Se l’avanguardia, in tutte le sue varianti del secondo dopoguerra, si sviluppano secondo l’idea del darwinismo linguistico, che trova i suoi antenati fissi nelle avanguardie storiche, la Transavanguardia invece opera al di fuori da queste coordinate, seguendo un atteggiamento nomade di reversibilità di tutti i linguaggi del passato” così affermò Bonito Oliva nel 198243.

La Transavanguardia si presentò per la prima volta alla Biennale di Venezia del 1980, nello stesso anno in cui Renato Barilli presentò alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna il gruppo dei Nuovi-Nuovi e Maurizio Calvesi presentò gli Anacronisti alla Galleria La Tartaruga di Roma, come ricorda Trimarco44. Ma le scintille di questo rinnovato interesse per l’immagine vanno però rintracciate nella produzione di Salvo (Salvatore Mangione) e di Luigi Ontani, degli inizi degli anni Settanta, caratterizzata dal recupero delle tecniche e della figurazione dopo una iniziale produzione concettuale del primo e poverista del secondo, come sostiene

42 Ivi, p. 280

43 Ibidem

Renato Barilli45, ma anche dal rimando alla classicità espressa sottoforma di citazione presente in alcune opere “povere” di Kounellis, di Paolini e di Pistoletto. Nell’ambito della Transavanguardia furono prodotte opere plastiche sia da Sandro Chia che da Mimmo Paladino. Le figure di Chia apparivano estremamente consistenti anche se ritratte in atteggiamenti melanconici che contrastavano con la loro accesa cromia. Le sculture, in bronzo, in legno e in calcare, di Paladino si ispirarono all’arte primitiva e tribale, raffigurando enigmatiche figure totemiche d’intonazione arcaica, accentuata dall’uso di simboli greco-romani, etruschi e paleocristiani.

È interessante notare che quel rinnovato interesse per la figurazione che si manifestò negli anni Ottanta in Germania, è da mettere in relazione con l’affermazione della Transavanguardia, come sostiene la Vettese: “a stretto giro di mesi dalla comparsa del gruppo italiano salirono alla ribalta artisti nati negli anni trenta, a lungo oscurati dalla fama dei concettuali, che per decenni avevano tenuto fede a uno stile pittorico che era stato spezzato in Germania dalla persecuzione nazista e che dunque, aveva assunto i caratteri di una resistenza culturale per l’autonomia e per la libertà dell’arte tedesca” 46.

Sotto il nome di Nuovi selvaggi (Neuen Wilden) – movimento in cui confluirono artisti diversi per generazione e provenienza geografica, fra cui ricordiamo Georg Baselitz, Marküs Lupertz, Jörg Immendorff, Anselm Kiefer e Sigmar Polke – si accomunavano maestri dalla manualità impetuosa e selvaggia nell’utilizzo della materia cromatica dai colori violenti al fine di ottenere una figurazione incalzante e provocante. Non è difficile scorgere nei lavori di molti di questi artisti un disaggio esistenziale, un’inquietudine del vivere, quale riflesso di una delicata situazione politica che vedeva la Germania tragicamente divisa in due parti. Il mancato interesse da parte della critica italiana verso la Transavanguardia, alla metà degli anni Ottanta, portò allo scioglimento del gruppo. Sia la critica che gli artisti, in quegli anni, colsero con interesse i nuovi stimoli provenienti sia dall’ambiente anglosassone, di cui ricordiamo il fenomeno della Young British Artists, che dell’ambiente artistico newyorkese. Proprio in quegli anni grande successo riscuotevano le opere di Jeff Koons, di Haim Steinbach e Peter Halley;

45 R. Barilli, Entrano in scena Salvo e Ontani, in Prima e dopo il 2000. la ricerca artistica 1970-

2005, Milano 2006, pp. 29-36

tre artisti provenienti dalla scuderia di Ileana Sonnabend, e per i quali la critica coniò i termini di ‘neo pop’ e di ‘neo geo’.

Le opere di Steinbach si presentavano sotto forma di sculture oggettuali, realizzate secondo il principio duchampiano del ready made modificato. Sulle mensole venivano poggiati diversi oggetti del vivere quotidiano, come utensili da cucina, prodotti da supermercato e oggetti di origine tecnologica, quali simbolo di una società dei consumi e degli sprechi.

L’idolatria del prodotto di massa era espressa anche da Jeff Koons attraverso la realizzazione di lavori in diversi materiali, in grandi dimensioni, che riproducevano statuine kitsch e giocattoli per bambini. Ma di Koons vanno ricordati anche quei lavori composti da teche che contenevano aspirapolvere o palloni da basket; il “feticcio” sospeso al centro della teca veniva presentato come un vero e proprio oggetto di culto per diverse categorie di persone.

I dipinti di Halley invece si caratterizzavano per linee, quadrati e barre dai colori fluorescenti. L’artista affermò, in alcuni suoi scritti, che questi lavori nacquero dalle suggestioni dei sistemi di collegamento per il trasporto di acqua, elettricità, gas e dei cavi telefonici nei sotterranei urbani. I suoi lavori erano in qualche modo la metafora della società urbanizzata e nello stesso tempo dell’alienazione umana, animata da frenesia e da iperattività.

La conoscenza dell’arte di questi tre grandi protagonisti della scena artistica americana ha avuto interessanti ricadute anche nel nostro paese. Infatti risale alla metà degli anni Ottanta la formazione a Milano del gruppo Nuovo Futurismo, movimento artistico che ha avuto Renato Barilli come maggior esponente teorico. “I Nuovi Futuristi volevano condurre un’impresa analoga, seppur in un mutato contesto sociale, le cui coordinate si sono già intraviste a proposito dell’opera di Koons: gadgets, dei ciondoli, delle icone rituali, tutte concentrate attorno all’ossimoro della meraviglia banale, del gioiello cheap, con cui veniva, e viene, abbondantemente condito il mondo odierno della merce”47.

Singolare è sicuramente la scelta della titolazione del gruppo che, come chiarisce lo stesso Barilli, non rimanda al Futurismo di Boccioni ma al secondo Futurismo, quello di Balla e di Depero. L’interesse per gli oggetti del quotidiano, per l’arredo urbano e quant’altro circonda la vita della singola persona è oggetto di riflessione

e rilettura per i Nuovi Futuristi così come lo fu per la generazione di artisti del secondo Futurismo48. Il gruppo era composto da Gianantonio Abate, Clara Bonfiglio, Innocente, Marco Lodola, Luciano Palmieri, Plumcake, Umberto Postal, Dario Brevi, Andrea Crosa, Gianni Cella e Battista Luraschi. Fra questi ricordiamo i lavori di Plumcake, di Abate e di Brevi.

Sotto la firma Plumcake, nome del noto dolcetto, si celavano tre artisti Gianni Cella, Romolo Pallotta e Claudio Ragni, che basavano il proprio lavoro sul concetto di estetica diffusa e di contaminazione tra arte e ambiente urbano. Le loro sculture rimandavano al rapporto di consapevole dipendenza dell’uomo dalla moltitudine di oggetti e le merci della sua epoca. Plumcake recuperò gli stereotipi tipici dei fumetti e della pubblicità nonché i simboli della contemporaneità attraverso un linguaggio pop dai risvolti kitsch.

Il lavoro di Gianantonio Abate si configurò in una sorta di poetica ispirata al mondo urbano, artificiale e mass-mediale attraverso manufatti realizzati con materiali plastici. Anche Dario Brevi si ispirò alle immagini dei mass-media per realizzare opere tridimensionali giocate con ironia tra pittura e scultura.

Sul versante oggettuale del neo pop italiano ricordiamo anche alcuni esponenti del Medialismo come Enrico De Paris, Antonella Mazzoni e Marco Lavagetto. Il termine Medialismo fu coniato dal critico napoletano Gabriele Perretta per indicare un’arte frutto delle influenze derivate dal mondo dei mass-media. Ricordiamo infine che anche la tendenza neo geometrica o neo minimalista ebbe, nella metà degli Ottanta, un seguito nel nostro paese. I primi ad apparire sulla scena artistica furono i fiorentini Antonio Catelani, Daniela De Lorenzo e Carlo Guaita, Antonio Di Palma e Stefano Artieri.

48 Ibidem