Se è possibile paragonare il dramma euripideo a un esperimento, bisogna comprendere quale specifico esperimento Euripide conduca nell’IT. A tal fine, è utile richiamare la già segnalata corrispondenza tra prologo ed epilogo, in quanto uniche parti della tragedia dove si evidenzia una azione divina, mentre il resto del dramma stesso vede solo l’azione dei mortali. Nel caso dell’IT, l’intervento divino è avvenuto innanzitutto nel passato prescenico, dal momento che è stata Artemide ad aver portato Ifigenia nella terra dei Tauri, creando così le premesse del dramma. Una comunicazione soprannaturale agisce anche in direzione del futuro intrascenico, nella forma del sogno che Ifigenia racconta di aver avuto nella notte appena passata (vv. 42-60), e che dovrebbe metterla in guardia contro la possibilità che ella sacrifichi Oreste; ma Ifigenia lo interpreta come una rivelazione della morte di Oreste stesso, vanificando così l’avvertimento divino. Alla fine del dramma la dea Atena interviene invece direttamente per impedire a Toante di catturare i fuggiaschi, e per assegnare loro il compito di fondare nuovi culti in Attica (vv. 1435-89).
A differenza dell’epilogo, dunque, nel prologo la divinità non compare direttamente, ma la sua azione è raccontata dalla prospettiva di Ifigenia. È possibile valutare l’importanza di questa mediazione confrontando l’IT con l’Ippolito, dove invece è la divinità a prendere la parola, cosicché il monologo prologico si configura come l’esposizione del piano della divinità, e l’intera tragedia come compimento di quel piano. Afrodite annuncia che dimostrerà il suo potere punendo Ippolito, in
Il personaggio narratore: Ifigenia nel monologo prologico di IT
quanto rifiuta di renderle gli onori che sono dovuti a una divinità (vv. 1-22) e passa a descrivere il suo piano, pur tralasciandone i dettagli (vv. 23-50). Si può perciò concludere, con Francis Dunn, che l’Ippolito “Hippolytus begins at the end. As the play gets under way, it seems that the action is already finished, and the hero of the drama is as good as dead” (1996: 88). Questa tragedia somiglia dunque, nell’ottica qui adottata, più che a un esperimento aperto, alla dimostrazione di un teorema: il teorema della potenza divina. Una simile circolarità non si trova invece nell’IT, grazie al fatto che non è la divinità, ma Ifigenia a iniziare l’esperimento. In linea di principio, Euripide avrebbe potuto portare in scena Artemide, seguendo il modello dell’Ippolito, ma in questo modo la dea avrebbe dovuto dare conto delle ragioni delle contraddizioni e delle bizzarrie del suo comportamento, chiarendo perché abbia prima richiesto il sacrificio di Ifigenia – se davvero l’ha richiesto29 – per poi sottrarla agli aguzzini, e infine insediarla in terra taurica a officiare ella stessa sacrifici umani. Invece, la mancata apparizione di Artemide sia nel prologo che nell’epilogo lascerà un velo di dubbio e inquietudine sulle reali capacità della dea di superare il suo lato più riprovevole, come si vedrà meglio in seguito. D’altra parte, la scelta euripidea di evitare un prologante divino consente di evitare che il dramma si configuri fin dall’inizio come il compimento di un piano divino: consente insomma che il dramma sia un esperimento aperto, non un teorema chiuso, sul grande tema del rapporto tra l’uomo e la divinità.
Questo esperimento ha inizio con un profondo divario tra le due dimensioni umana e divina, divise tanto dall’assurdità e dall’incomprensibilità del comportamento divino, quanto dall’incapacità umana di comprendere quei segni che, pur ambigui, provengono da quel mondo. Questa problematica viene visualizzata dalla prospettiva di Ifigenia, la mortale che più di tutti ha sofferto e sta soffrendo per le contraddittorie decisioni divine. In un punto del suo monologo traspare nella maniera più chiara la condanna dell’operato divino, quando l’eroina, ai vv. 35-41, deve svelare il suo ufficio di sacrificante in terra taurica. Poiché il passo pone seri problemi di ordine filologico e sintattico, si rimanda al commento
29 Parker (2016: xxxix) sottolinea che non c’è alcuna prova, al di là delle parole di Ifigenia, che
Artemide abbia effettivamente richiesto il sacrificio di Ifigenia; esso potrebbe attribuirsi invece alla volontà di Calcante. Il punto è, però, che non vi è neppure indicazione che Artemide non abbia richiesto il sacrificio: la questione rimane sospesa, e si evidenzia così l’opacità della divinità del mito.
Marco Duranti, Caratterizzazione dei personaggi e messaggio filosofico-religioso nell’IT
in appendice, dove è avanzata l’ipotesi che essi siano risolvibili postulando un caso di anacoluto. La letteratura secondaria ha messo in luce come questa figura retorica possa trovarsi, nei testi drammatici, in passi nei quali il parlante, impossibilitato ad arginare una forte emozione, perde il controllo della sintassi: e non è certamente fuori luogo un anacoluto nel punto in cui Ifigenia è costretta, in ossequio alla funzione informativa del prologo euripideo, a rivelare ciò che pure le causa rabbia e indignazione contro la divinità. Il rilievo di questo passo rispetto al resto del monologo risulta anche dalla presenza dell’aggettivo καλόν “bello”, che è usato da Ifigenia per dire sarcasticamente che nella festa taurica in onore di Artemide è solo il nome di festa a essere bello. È questo l’unico aggettivo a esprimere il giudizio della narratrice sui fatti che narra nel prologo, insieme al τάλαινα “infelice” del v. 26, che Ifigenia riferisce a se stessa nel raccontare il momento in cui, dopo essere stata proditoriamente attirata in Aulide mediante l’inganno delle nozze con Achille, fu sollevata sopra l’altare per essere sgozzata. I due aggettivi insieme individuano i due punti più problematici del monologo, dai quali traspare la violenza che Ifigenia ha dovuto e deve tuttora subire. Il quadro complessivo che si ricava da questo prologo è dunque quello di un rapporto compromesso tra l’eroina e la divinità, che non sembrerebbe suscettibile di evoluzione. Di ciò è emblematica la paura provata da Ifigenia, che la spinge, subito dopo aver denunciato che la festa di Artemide è bella solo nel nome, a reprimere le sue critiche alla dea (τὰ δ’ ἄλλα σιγῶ, τὴν θεὸν φοβουμένη, v. 37) per evitarne la ritorsione. Viene così delineata l’immagine di una divinità collerica, vendicativa e sanguinaria, ancora gravata da tutti i difetti morali delle divinità del mito.
Ma nell’IT la storia di Ifigenia è solo metà della questione del rapporto tra uomini e dei, in quanto la tragedia mette in scena due coppie di protettori divini e protetti umani: alla coppia femminile Artemide-Ifigenia si affianca la coppia maschile Apollo-Oreste, messa anch’essa in tensione da recriminazioni umane contro la divinità, che traspaiono subito all’ingresso di Oreste con l’amico Pilade nella seconda scena del prologo (vv. 68-122). Dopo uno scambio sticomitico nel quale i due amici descrivono l’ambiente scenico (vv. 69-78), Oreste prorompe in un’apostrofe contro Apollo, accusando il dio di averlo attratto in una nuova rete con la spedizione taurica, dopo averlo già costretto a uccidere la madre (v. 77-9). Narra
Il personaggio narratore: Ifigenia nel monologo prologico di IT
poi che in conseguenza del matricidio fu perseguitato dalle Erinni, e pertanto decise di interrogare Febo, il quale gli prescrisse di trafugare il simulacro taurico di Artemide e di riportarlo in Grecia come condizione per essere liberato dai mali (vv. 79-92). Questa scena, diversamente dal monologo di Ifigenia che l’ha preceduta, è pienamente integrata nell’azione drammatica, dal momento che Oreste parla o in dialogo con Pilade, o tramite una apostrofe al dio. Anche dal punto di vista ‘motorio’, i due personaggi si muovono sulla scena, impegnati proprio in quella azione di esplorazione dello spazio scenico che, come si è visto, è tipica dei prologhi sofoclei, lodati dagli scoli per la loro verosimiglianza. Questa differenza rispetto al monologo di Ifigenia discende in primo luogo dal fatto che l’azione teatrale è stata avviata una volta per tutte alla conclusione del monologo di Ifigenia, e da quel momento in poi ogni nuova scena deve conformarsi a quella tacita norma di verosimiglianza che nel monologo iniziale non era ancora applicata. Ma si può anche aggiungere che l’ingresso ‘dinamico’ di Oreste e Pilade sulla scena, a confronto della staticità di Ifigenia, ha una precisa motivazione drammatica: i due amici devono infatti compiere una missione che richiede loro di muoversi sulla scena e di escogitare un piano d’azione. Il loro rapido movimento è la prova che essi hanno ancora una prospettiva di possibili sviluppi futuri, così come la relativa fissità di Ifigenia è emblema del fatto che, dopo aver maturato la convinzione della morte del fratello a seguito della scorretta interpretazione del sogno, l’eroina non ha più una prospettiva: con Oreste è morta infatti ogni speranza di lasciare la terra taurica, sottraendosi al suo lugubre ufficio di sacrificatrice. L’unica prospettiva di azione di Ifigenia è quella, assai limitata, del compianto funebre che rivolgerà al fratello, pur nella lontananza. Dalle ultime parole del monologo si capisce che ella è uscita dal tempio per sincerarsi della presenza delle donne del coro, con le quali desidera compiere i rituali funebri (vv. 61-4); non trovandole, decide di ritornare nel tempio, lasciando così la scena vuota per Oreste e Pilade (vv. 64-6). È la loro azione a riattivare un dramma che, se Ifigenia fosse nel vero, non avrebbe luogo.
Alla coppia amicale di Oreste e Pilade sarà dedicato il terzo capitolo di questo saggio. Ma prima è opportuno seguire, nel secondo capitolo, l’evoluzione dell’esperimento sulle relazioni tra uomini e dei aperto nel prologo dell’IT.