La coppia amicale di Oreste e Pilade
4. L’isolamento del singolo dalla comunità
Se il primo responsabile dei mali di Oreste è stato il dio Apollo, che gli ha imposto di uccidere la madre, i concittadini argivi non si sono mostrati più ‘umani’ con colui che dovrebbe essere il loro re, condannandolo a morte. Nell’Oreste acquista pertanto particolare pregnanza un tema, il rapporto del matricida con la comunità umana, che è però presente anche nelle altre tragedie euripidee che affrontano il problema del matricidio di Oreste93. Nell’Elettra, il decentramento della scena dal palazzo atridico di Argo alla campagna, dove si trova la casa del contadino che Egisto ha imposto come marito a Elettra, può essere letto come segno preventivo del fatto che il matricidio isolerà i due fratelli dalla comunità di Argo, nella quale non faranno mai più ritorno94.
A questo proposito è emblematica la ripetuta menzione delle mura della città (vv. 94, 615), che si configurano come una barriera invalicabile per il futuro matricida, e sono invece, paradossalmente, un rifugio sicuro per l’adultera
92 Il termine ἀλάστωρ richiama l’Orestea eschilea, dove è il demone vendicatore con cui identifica
se stessa Clitemnestra al momento di uccidere il marito Agamennone (cfr. Fraenkel 1950: 711-2 ad Aesch. Ag. 1501).
93 Dall’analisi è esclusa l’Andromaca, dove Oreste è presente ma il matricidio non è tema centrale. 94 Sull’importanza della dislocazione della scena dal palazzo reale alla campagna argiva ha
richiamato l’attenzione Hans Diller (1971: 342), il quale tuttavia si è limitato a sottolineare che essa è propizia per la buona riuscita del piano di Oreste, dato che sarebbe per lui troppo pericoloso entrare nelle mura.
Marco Duranti, Caratterizzazione dei personaggi e messaggio filosofico-religioso nell’IT
Clitemnestra e per l’usurpatore Egisto. Nulla suggerisce che Egisto debba temere un pericolo dall’interno della città, e se è vero che Clitemnestra è odiata per quanto ha fatto (vv. 644-5), non c’è alcun indizio che questo odio possa sfociare in una rivolta popolare. È invece Oreste, secondo il vecchio aio paterno, a non avere amici dentro la città, perché nessuno è amico di chi si trova nella sventura (v. 605). Se dunque il figlio di Agamennone non può sperare in nessun aiuto dai cittadini, potrebbe però legittimamente sperare di prendere possesso della casa paterna dopo aver ucciso, fuori dalla città, i due tiranni. E invece, dopo il compimento della vendetta i Dioscuri non si limitano a prescrivere a Oreste il processo aeropagitico (vv. 1252-72), ma lo interdicono in perpetuo da Argo, imponendogli di stabilirsi in Arcadia, in una città che si può forse identificare con Orestheion (vd Cropp 1988: 186 ad El 1273-5) (vv. 1273-5). Anche la sorella Elettra non potrà tornare in Argo, e dovrà sposare Pilade in Focide (vv. 1249-50). Il matricidio è dunque una macchia perenne, che non potrà essere cancellata dall’assoluzione da parte del tribunale, e impedisce la reintegrazione del colpevole nella comunità politica.
L’IT si sofferma invece sulla presenza di Oreste ad Atene. Oreste racconta a Ifigenia come in città nessuno lo accogliesse volentieri alla propria mensa, in quanto odiato dagli dei per il crimine commesso (οὐδεὶς ξένων / ἑκὼν ἐδέξαθ’ ὡς θεοῖς στυγούμενον, vv. 947-8); coloro che avevano compassione gli preparavano una tavola separata dove potesse mangiare, ma in silenzio (vv. 949-54). L’isolamento di Oreste è addirittura, per così dire, istituzionalizzato, in quanto Oreste stesso racconta – proiettandosi, con una inusuale forzatura della separazione tra dramma e realtà extrascenica, nel tempo degli spettatori (cfr. Wright 2005: 153) – che gli Ateniesi commemorano ancora le sue disgrazie nella festa di Choes. La contaminazione del matricidio rimane dunque perpetuamente nella comunità, come una ferita non mai rimarginata, in un rito che celebra l’isolamento dei partecipanti. Così descrive la cerimonia Walter Burkert95:
. . . la stessa gara del bere acquista una lugubre dimensione. Tutti ricevono la stessa misura di vino, tutti iniziano a bere nello stesso momento, a un segnale dato dalla tromba, all’ordine del ‘re’; ciascuno ha anche il suo proprio tavolo e, durante la gara, non è permesso parlare. La più grande dimensione di comunanza dei partecipanti si affianca al più grande isolamento possibile di ciascuno di essi: il mito eziologico
La coppia amicale di Oreste e Pilade
racconta che il matricida Oreste sarebbe stato ospitato ad Atene in modo che la comunanza di casa e pasto, a lui concessa, fosse nel contempo annullata dal divieto di comunicare nel mangiare, nel bere, nel conversare. L’atmosfera di questo rituale viene così caratterizzata: i festeggianti si comportano, durante le bevute della festa dei Boccali, come ‘macchiati’ di omicidio; perciò sono esclusi anche dai santuari (1998: 439).
Il rito dei Choes celebra dunque l’irriducibile alterità del matricida, che può essere integrato nella società solo a prezzo di distruggerne la dimensione autenticamente comunitaria, la convivialità. Nel finale della tragedia la questione del ritorno di Oreste ad Argo è invece irrilevante, in quanto l’attenzione si concentra sulla fondazione dei nuovi culti ad Artemide in Attica. Ma c’è un parallelo tra questi culti e il rito dei Choes, nella misura in cui l’uno e gli altri perpetuano in seno alla collettività i due nodi che la tragedia avrebbe dovuto sciogliere: da un lato la contaminazione del matricidio, dall’altro la primitiva crudeltà di Artemide, che continua a essere rappresentata nel rito attico, con il suo pur limitato spargimento di sangue.
Se nell’Elettra i matricidi non possono più unirsi alla loro comunità, e nell’IT Oreste vive una condizione che è, paradossalmente, al contempo di integrazione e isolamento, nell’Oreste la comunità è apertamente ostile a Oreste ed Elettra. I due fratelli sono circondati da una massa minacciosa, come fossero una città straniera posta sotto assedio (Or. 762), e quelle guardie che nell’Elettra impedivano a Oreste di entrare nelle mura (El. 614) qui lo costringono a restarvi dentro (Or. 760). Sebbene si trovino nel centro di Argo, i fratelli atridi sono nondimeno isolati, in quanto la folla è immaginata fuori scena. Oreste mette in atto un tentativo di riconciliarsi con i concittadini, muovendo con Pilade verso l’assemblea, e cioè verso lo spazio extrascenico, ma viene da essi respinto, e deve ritornare in quello spazio scenico che appare ormai come una prigione96. Si noti come il proposito di
96 Medda (2013: 145) ha osservato che “Euripide si riaggancia in questa scena a un modulo teatrale
che aveva già sperimentato nell’Eracle e nelle Fenicie: quello in virtù del quale un personaggio che versa in condizioni di terribile sofferenza psicologica viene aiutato da un altro, a lui particolarmente vicino sul piano affettivo, ad abbandonare lo spazio scenico nel quale si sono compiute vicende tanto dolorose da rendere impossibile una ulteriore permanenza”. Tuttavia, la scena dell’Oreste si distacca dalle precedenti in quanto, se in quelle l’uscita di scena è definitiva e prelude a un cambiamento sostanziale nell’esistenza dei personaggi, che avverrà dopo la conclusione del dramma, “[n]ell’Oreste, invece, il movimento di Oreste che cammina sostenuto da Pilade non si pone come momento conclusivo del dramma né tanto meno si associa a un abbandono definitivo dello spazio scenico. L’allontanamento dei due personaggi dall’orchestra è solo momentaneo, giacché il
Marco Duranti, Caratterizzazione dei personaggi e messaggio filosofico-religioso nell’IT
fuga di Oreste inverta di segno la consueta direzione ‘centripeta’ della sua azione. Se infatti nelle tragedie atridiche l’eroe ha sempre mirato a riacquistare il palazzo e il potere, ora la volontà di fuggire dal palazzo dimostra la sua completa rassegnazione alla perdita di questo potere, che del resto, nelle condizioni psico- fisiche in cui si trova, non sarebbe in grado di esercitare.
Nella seconda parte del dramma sembra che si recuperi una direzione centripeta, in quanto il palazzo degli Atridi torna a essere al centro del contendere dei personaggi: i tre amici prima vi entrano per uccidere Elena, poi vi si asserragliano tenendo in ostaggio Ermione, mentre Menelao e gli Argivi tentano di forzare le porte. L’obiettivo dei tre sodali non è però più la riconquista del dominio sulla città, ma più modestamente la salvezza; e quando questo obiettivo sembra sfumare, i tre si risolvono a bruciare il palazzo, per morire nobilmente uccidendo con loro la figlia di Menelao. Oreste non può più dunque sperare di riconquistare il proprio palazzo e il potere di cui è centro, bensì può solo rovinare con esso. Torna in mente il sogno iniziale di Ifigenia nell’IT, nel quale il palazzo paterno crollava, ma restava in piedi un pilastro rappresentante Oreste: quella residua speranza per gli Atridi svanisce, qui nell’Oreste, poiché anche il figlio di Agamennone sta per crollare insieme alla sua casa.
Ma il provvidenziale intervento di Apollo rovescia questa situazione aporetica, stabilendo che Oreste, dopo essere passato attraverso il giudizio dell’areopago, potrà tornare a regnare su Argo; e sarà Apollo stesso, colui che imponendo a Oreste il matricidio lo ha reso inviso alla comunità argiva, a riconciliarlo con essa (vv. 1664-5). L’esito dell’Oreste sembrerebbe dunque a prima vista più positivo di quello dell’Elettra, che sanciva il perpetuo allontanamento dell’eroe da Argo. E tuttavia proprio questa breve ed elusiva rassicurazione del dio certifica che il problema del matricidio non è risolvibile con mezzi umani. Con il loro ordine di matricidio, gli dei hanno creato una lacerazione nella comunità umana che solo essi possono ricucire, ma non senza che permangano molte ombre. Anche se Apollo riuscirà a sanare l’odio e il risentimento reciproci maturati dagli uomini, non raddrizzerà le storture della assemblea politica – gli opportunismi, i biechi interessi,
movimento che essi compiono verso lo spazio extrascenico risulterà bloccato dalla natura ostile dello spazio cittadino” (147).
La coppia amicale di Oreste e Pilade
il prevalere dei demagoghi – che il processo a Oreste ha messo a nudo; né è pensabile che la comunità umana saprà rinnovarsi autonomamente. Non resta che concludere che l’umanità, nella sua dimensione collettiva, non agisce in modo meno deprecabile di come agiscono le incomprensibili figure divine; anzi, nella sua incapacità di evolvere si dimostra persino più limitata del mondo divino, che nei finali delle tragedie, pur con doloroso ritardo, può mostrare perlomeno la buona volontà di lenire il ricordo delle sofferenze passate con la promessa di una felicità futura.
L’Oreste porta quindi in primo piano una denuncia etica della società che è già presente nell’Elettra, dove si esprime nell’amara constatazione del vecchio aio di Agamennone che nessun argivo è più amico di Oreste nella sventura; ma non manca nemmeno nell’IT, dove l’isolamento a cui la società condanna Oreste congiura con la persecuzione delle Erinni nell’infliggere ulteriore sofferenza a chi già soffre incolpevolmente, per aver soltanto obbedito a un ordine divino. Inoltre, nell’IT la collettività si è dimostrata non meno crudele verso Ifigenia, quando l’indovino Calcante e i principali capi achei – Menelao, Odisseo, e quel che è peggio, il padre stesso di Ifigenia – non hanno esitato a portare al sacrificio la giovane pur di continuare la spedizione troiana.