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ESTETICA ANESTETICA TRA CINEMA E PSICOLOGIA

Sara Reginella

“La Bellezza non ha causa: esiste. Inseguila e sparisce. Non inseguirla e rimane”.

Le parole di Emily Dickinson sembrano un monito per i nostri tempi, caratterizzati da un imperativo sociale, perlopiù imposto attraverso il sistema mediatico, a perseguire a tutti i costi una bellezza esteriore, stereotipata e assai evanescente.

È proprio di questa ingiunzione sociale, volta al raggiungimento di tale bellezza, di sovente mortifera, perché non genuina, ma definita all’in-terno di un diktat sociale, che verte l’excursus psicologico e cinemato-grafico che segue.

Analizzando tre diversi film d’autore, si vuole dar voce all’opera di regi-sti che, con sensibilità e lucidità, sono riusciti a cogliere uno dei drammi dei nostri tempi, quello dell’abbandono della ricerca di una bellezza dell’estetica del corpo (da “aisthetikos”: che riguarda la sensazione), in nome del perseguimento di una “bellezza anestetica”, al di là della sen-sorialità, una bellezza sintetica-anestetica ritagliata in una dimensione in cui il corpo si trasforma in un vuoto simulacro, al di là della sfera sen-soriale, affettiva e dei sentimenti.

La pelle che abito di Pedro Almodovar (2011) Il chirurgo Robert Ledgard vive in una casa, adibita a clinica privata, assieme a una gio-vane donna di nome Vera, rinchiusa in una stanza e vestita di un solo body color carne.

Ledgard, che la osserva tramite telecame-re, sperimenta su di lei un prototipo di pelle ultra resistente, ottenuta con un processo di trans-genesi illegale. Vera, per contro, mostra una serie di comportamenti bizzarri: utilizza cosmetici per scrivere e disegnare sulle pa-reti della stanza, strappa i vestiti che le ven-gono dati e tenta il suicidio.

Nel corso del film, si scopre che dopo la

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te della figlia Norma, Ledgard aveva rapito il suo presunto stuprato-re, Vicente. Privandolo della libertà e rinchiudendolo nella sua clinica dell’orrore, aveva iniziato a praticare su di lui una serie di operazioni chirurgiche che lo avevano trasformato in Vera, una donna identica alla defunta moglie.

Attraverso la sperimentazione di una pelle anestetica e inalterabile, in risposta al dolore legato alla morte della moglie, il dottor Ledgard precipita in un vero e proprio delirio di onnipotenza, in cui finisce per strumentalizzare l’altro per il perseguimento dei propri fini. Tale aspet-to, alla base di psicopatie e disturbi gravi della sfera narcisistica, può in parte ritrovarsi anche in una tendenza presente nella società occiden-tale odierna, nella misura in cui essa, attraverso la spinta al consumo, veicolata da un’occulta e feroce persuasione mass-mediatica, spinge l’individuo all’appagamento dei propri piaceri e desideri. Una tale di-mensione edonista dell’esistenza appare incompatibile con l’idea di una realtà basata su valori che tengano concretamente in considera-zione anche i bisogni altrui. In “La pelle che abito”, nello specifico, l’altro diventa un oggetto plasmato sui propri impulsi e sulle proprie emozioni.

In questo percorso perverso, la negazione dell’umanità dell’individuo conduce in un inferno interiore in cui gli esseri umani diventano oggetti inanimati, vuoti simulacri.

Tale condizione di straniamento, rappresentata dall’esistenza di Vicen-te, che vive imbrigliato in un corpo che non gli appartiene, è sceno-graficamente espressa da una messinscena caratterizzate da luoghi asettici, body, maschere e bende che celano i corpi e negano l’identità.

A contrastare una tale folle degenerazione dell’animo umano, la figura della madre di Vicente, che riconoscerà il figlio, restituendogli un senso di sé, al di là di quel corpo e di quella pelle a lui estranei. La madre sen-sibile e che sente, quindi, fornisce una risposta alla ricerca dell’identità perduta, una risposta che cura, una risposta che spesso latita in una società egoista e belligerante che troppo sovente nega l’umanità e i bisogni dell’altro.

Good night mommy di Veronika Franz e Severin Fiala (2014)

Due gemelli di circa dieci anni vivono in una casa di campagna, atten-dendo il ritorno della propria madre, sottopostasi ad un’operazione di chirurgia estetica al volto. Una volta tornata e percepita come minac-ciosa, i bambini inizieranno a metterne in dubbio l’identità.

Al cambiamento esteriore, segue infatti il timore da parte dei figli di un

cambiamento interiore, identitario.

Nell’opera filmica, la madre appare da un lato ostile e sinistra, dall’al-tro indifesa vulnerabile, di fronte all’aggressività agita dalla prole. Allo stesso tempo, i gemelli, apparentemente amabili, iniziano a manifesta-re comportamenti sempmanifesta-re più violenti nei confronti di lei.

La presenza dei due gemelli e quella delle due identità della madre, introduce al tema del doppio. Nel folclore, il cosiddetto “doppelgäng-er” è quell’entità che fornirebbe consigli alla persona di cui assume le sembianze, consigli spesso devianti; di qui l’idea che uno dei due gemelli che fornisce consigli distruttivi, sia inesistente e sia il frutto dell’immaginazione dell’altro.

A tal proposito, va detto che l’apparizione di un “doppio” può connet-tersi con crisi legate allo sviluppo dell’io e a fasi in cui il grave conflitto interiore sollecita una ristrutturazione identitaria. In queste situazioni, la sua comparsa è il segnale del bisogno di una trasformazione del pro-prio sé che, se non perseguita, può portare il soggetto a vivere in una dimensione sentita come persecutoria: di qui, il carattere perturbante del doppelgänger.

Il concetto d’identità indefinita, conseguente all’operazione chirurgica, percorre tutta l’opera ed è espressa da un immaginario filmico caratte-rizzato da caverne, buio e insetti mostruosi. Anche i quadri non a fuoco, presenti nelle ambientazioni, come in sequenze oniriche, tra riprese in soggettiva e con camera a mano, sembrano richiamare la necessità di una definizione del proprio sé, contro un disfacimento psicologico e anestetico del corpo e della mente.

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Time di Kim Ki-Duk, (2006) Seh-hee, fidanzata da due anni con Ji-woo, comincia a temere che il suo uomo si possa stan-care di lei e quindi lasciarla. Nel tentativo di scongiurare tale ri-schio, decide di sottoporsi a un intervento di chirurgia plastica col quale cambierà i connotati

del suo volto, nella speranza di essere amata per sempre, riapparendo-gli come una donna diversa.

L’autore dell’opera sembra domandarsi se sia possibile amarsi per tutta la vita o se l’altro possa stancarsi, a causa dello scorrere di un tempo che invecchia e modifica i corpi inesorabilmente.

Cambiare i connotati esteriori esprime dunque un tentativo di cambiare la propria natura interiore per piacere all’altro.

Anche qui è vanificata l’idea dell’unione autentica con il prossimo ed è piuttosto ricercata una definizione di sé, costruita illusoriamente attra-verso la ricerca di un’accettazione, basata esclusivamente su una mera apparenza esteriore.

A livello profondo, inoltre, nella protagonista sembra essere presente un tentativo di innalzamento della stima di sé attraverso il consenso altrui, all’interno di un meccanismo di dipendenza affettiva. Le origini di tali disfunzioni del comportamento possono risalire all’infanzia, a espe-rienze penose in cui il bambino, non sentendosi amato, inizierebbe a considerare se stesso come un essere non degno d’amore.

Crescendo, egli diventerà un adulto insicuro, alla ricerca di una compen-sazione affettiva che, in situazioni regressive, può avvenire in maniera in-congrua e fallimentare, attraverso la ricerca di una perfezione illusoria per mezzo di interventi invasivi sulla propria esteriorità, anziché tramite il supe-ramento di più profonde problematiche psicologiche che vengono negate.

In tutte e tre le opere è dunque inferibile l’idea che nessun intervento volto a modificare la propria esteriorità possa sollevare l’anima dal dolore insito nell’esistenza, in quanto l’unica bellezza perseguibile e in grado di guarire è la bellezza sensibile, ovvero quella “bellezza-estetica” interiore e pura, da coltivare quotidianamente, al di là di spinte anestetiche e anestetiz-zanti, verso cui troppo spesso spinge e devia un sistema sociale che, nel tentativo di negare il dolore, tende ad anestetizzare i corpi e le menti.