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PERSECUZIONI E DEPORTAZIONI NEL TERRITORIO ANCONETANO

Carla Marcellini

Due storie

Giacomo Russi, il giorno del suo arresto, scrive al Commissario straordina-rio della provincia di Ancona:

Innocente di qualsiasi accusa, mentre mi accingevo al quotidiano lavoro, mi sono visto questa mattina arrestato dalle autorità tedesche e rinchiuso a Santa Palazia. Con me è stato arrestato mio figlio Sergio, giovane studente universi-tario, ariano, e fascista fin dalla fanciullezza, individuo impeccabile sotto ogni punto di vista. Tutto ciò non può essere che conseguenza di un equivoco o di una infame calunnia: voi sapete chi io sia; onde vi rivolgo viva preghiera di far luce sulle ragioni che hanno indotto a questo doloroso provvedimento, facendo sì che tanto io che mio figlio siamo restituiti alla nostra famiglia1.

Giacomo viene arrestato a Camerano, il 22 settembre 1943, prelevato da casa sua assieme a suo figlio Sergio. Giacomo dirige una delle più impor-tanti industrie farmaceutiche nazionali, con sede ad Ancona. Con le leggi razziali del 1938, la ditta Russi, subisce il processo di “arianizzazione”, ovve-ro le dimissioni di Giacomo dal Consiglio di amministrazione, pur rimanen-do, se pur in maniera informale, alla guida dell’azienda che prende il nome di Società anonima farmaceutica italiana (S.A.F.I.). Anche la figura pubblica è ineccepibile, come si desume da un fascicolo della questura del 1933: è iscritto al partito e compare anche in alcune foto in camicia nera accanto a gerarchi. Le ultime notizie che si hanno di lui e di suo figlio Giacomo sono legate alla loro presenza in un campo di smistamento a Versen, in Ger-mania. Il 24 luglio 1944 vengono trasferiti in una destinazione ignota e da allora si perdono le loro tracce2.

La seconda storia è ambientata a Serrapetrona in provincia di Mace-rata, il protagonista è Ferruccio Ascoli, sfollato in quella località sotto falso nome. Arrestato il 27 aprile 1944, viene portato nel campo di in-ternamento di Sforzacosta e poi di Pollenza, prima di essere trasferito

1. “Lettera al Commissario straordinario alla provincia di Ancona, Ancona 22 settembre 1943, in M. Labbate, La comunità ebraica anconetana tra le leggi razziali e la Shoah”, in I. Triggiani (a c. di), “La memoria contro ogni discriminazione”, “Qua-derni del Consiglio regionale delle Marche”, Ancona 2017, p. 61. L’intero saggio di Labbate costituisce il filo conduttore delle vicende relative ad Ancona che racconto in questo saggio.

2. Labbate, “La comunità ebraica”, cit. p. 61-76.

a Fossoli con altri 43 ebrei. Giunge a Auschwitz con il convoglio n. 13, partito dall’Italia il 26 giugno 1944. Qui muore due mesi dopo, a 47 anni.

La storia di Ferruccio Ascoli è la drammatica vicenda di un fervente fascista che è sempre stato fedele al regime. Egli è annoverato tra i 230 ebrei italiani che avevano partecipato alla marcia su Roma. Fu segre-tario politico del Fascio di Ancona e considerate le sue doti politiche e propagandistiche divenne anche direttore del Corriere Adriatico3. Il 2 marzo 1938, si legge nel giornale questo comunicato:

L’avv. Ferruccio Ascoli, camerata della vigilia che partecipò alla fascistizzazio-ne del giornale e tenfascistizzazio-ne la direziofascistizzazio-ne dei quotidiani e del settimanale per oltre sei anni, ha fatto le consegne al camerata dott. Rocchi, adamantina figura di squadrista e di professionista. (…). Al camerata Ferruccio Ascoli, che lascia la carica dopo molti anni di comune lavoro al servizio del Regime e del Duce (….) il fervido alalà della redazione (Corriere Adriatico, 2 marzo 1938)4.

Con il cambio della direzione sarebbe iniziata da lì a due mesi una vee-mente campagna antisemita, nella quale il Corriere Adriatico si sarebbe distinto a livello nazionale per intensità e ferocia.

Le storie di Ferruccio Ascoli e di Giacomo e Sergio Russi ci raccontano molto su che cosa fu la limitazione dei diritti per gli ebrei italiani e ci danno anche alcune informazioni sull’internamento in Italia e sulla deportazione dall’Italia verso i campi di sterminio del terzo Reich.

Le leggi razziali

Le leggi razziali furono emanate da Mussolini e promulgate dal Re Vittorio Emanuele III a partire dal settembre 1938. Sono costituite da un insieme di provvedimenti legislativi e amministrativi applicati dal regime fascista e poi integrati dalla Repubblica Sociale Italiana. Il loro contenuto fu an-nunciato per la prima volta nel noto discorso che Mussolini tenne in piaz-za Unità d’Italia a Trieste, il 18 settembre 1938. Gli ebrei non potevano più andare a scuola, insegnare, possedere aziende, terreni e stabili; furono espulsi dall’esercito, dalle istituzioni culturali e sportive. Le loro opere non potevano essere pubblicate.

Le leggi razziali furono abrogate il 20 gennaio 1944 dal Regno del Sud, con effetto solo in quella parte dell’Italia che era stata liberata: ad Ancona

3. Si veda la scheda biografica e la relativa bibliografia in http://www.storiamarche900.it/main?p=ASCOLI_Ferruccio (con-sultato 08/03/2020)

4. Labbate, “La comunità ebraica”, cit. p. 79.

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furono in vigore fino al 18 luglio 1944, giorno della liberazione della città.

Ma le leggi non furono un fulmine a ciel sereno che colpì all’improvviso l’Italia. Alla luce delle ricerche storiche, sappiamo che l’antisemitismo ita-liano già si inseriva nel contesto culturale del Positivismo e che durante il fascismo fu alimentato e diffuso perché, insieme al razzismo, costituiva un cardine essenziale dell’ideologia basata sull’idea che la razza italiana fosse superiore alle altre e che l’uomo e la donna fascisti ne fossero l’e-sempio “fulgido” e concreto. Lo stesso Mussolini fu un convinto assertore, promotore e attore dell’antisemitismo e del razzismo e non un poco riusci-to imitariusci-tore di Hitler5.

La scuola, il mondo intellettuale e culturale furono i primi settori a essere colpiti dall’applicazione della legislazione, preceduta dalla compilazione in tutto il territorio nazionale delle liste degli appartenenti alla razza ebraica.

Un censimento capillare, che permise di sapere con precisione quali fos-sero i cittadini da discriminare prima, da internare poi e infine da deportare.

Gli ebrei e il fascismo

Durante il regime, gli ebrei italiani registrati dal censimento razzista erano circa 47 mila e le comunità ebraiche erano 25. Nelle Marche la più grande era ad Ancona, le altre a Senigallia, Pesaro e Urbino. Gli ebrei erano poco più dell’uno per mille della popolazione, di cui 9.500 circa di nazionalità straniera, i quali furono espulsi dall’Italia nel 1939. Spontaneamente quasi 4.000 ebrei stranieri emigrarono all’estero, gli altri furono internati in campi o in località di internamento libero6. Gli ebrei censiti nel 1938 nella provin-cia di Ancona erano circa 1.200, di cui circa 1.000 nel capoluogo7. Nelle memorie di Elio Toaff si legge che gli ebrei della comunità anconetana erano rimasti nel 1943 circa 500.

Erano una minoranza, dunque, che sembrava bene integrata nella comu-nità nazionale, come ci raccontano le storie di Giacomo e Sergio Russi o di Ferruccio Ascoli. Tuttavia l’integrazione nella vita politica, amministrativa, sociale ed economica della nazione non poteva coincidere con l’annul-lamento del patrimonio culturale e religioso che costituiva un solido an-coraggio culturale alla tradizione. Pur entrando a far parte della società italiana, erano i primi a ribadire la propria diversità. Integrazione nella

di-5. Sulla storiografia si veda tra gli altri: M. Matard Bonucci, “L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei”, Il Mulino, Bologna 2008. M. Flores,(a c. di), “Storia della Shoah in Italia: vicende, memorie, rappresentazioni”, Utet, Torino 2010.

6. M. Sarfatti, “Gli ebrei nell’Italia fascista: vicende, identità, persecuzioni, Einaudi, Torino 2000; E. Sori, La comunità ebraica ad Ancona. La storia, le tradizioni, l’evoluzione sociale, i personaggi”, Comune di Ancona, 1995.

7. L. Garbini, “Ancona 1838-1940. Note e percorsi di ricerca sull’antisemitismo delle istituzioni”, in “Storia e problemi contem-poranei”, n. 14, 1994, p. 41

versità dunque. Una prospettiva difficile nel contesto di una dittatura che puntava all’omologazione delle vite, dei pensieri, dei comportamenti. Fu proprio questa osmosi culturale e sociale a nascondere al mondo ebraico i rischi che stava correndo. Fatti allarmanti c’erano stati, eppure i provvedi-menti del 1938 apparvero alla maggior parte degli ebrei come inaspettati e improvvisi. Per esempio, nella scuola8 il razzismo costituiva un sostrato culturale cardine del sistema educativo. Era frequente trovare nei libri di testo, anche prima del 1938, carte geografiche o immagini che spiegavano la superiorità della razza bianca.

La limitazione dei diritti

Il primo ambito di applicazione delle leggi razziali fu quello dell’istruzione.

Con una visione diabolica e al contempo intelligente, il fascismo aveva ca-pito che iniziando dalla scuola la minorazione dei diritti avrebbe raggiun-to tutti gli ebrei italiani, indipendentemente dalla classe sociale. Non fu dunque un inizio casuale. L’efficienza e il tempismo con cui le amministra-zioni operarono, mostrano l’importanza che il regime attribuiva a questa istituzione: un settore portante di quella trasformazione culturale di cui la campagna antisemita costituiva uno dei pilastri. La scuola non solo rap-presentava un investimento sul futuro del regime, ma la sua organizza-zione gerarchizzata, capillare ed efficiente permetteva controllo e verifica.

I provvedimenti sulla razza vennero emanati e concretamente messi in atto con grande determinazione, precisione e rigore dall’apparato buro-cratico italiano come ci raccontano le circolari e i solleciti a cui furono sot-toposti tutti i dipendenti dell’amministrazione dello Stato.

Ad Ancona, come in tutto il resto d’Italia, l’anno scolastico 1938/39 iniziò il 1° ottobre senza docenti e alunni ebrei9. L’allontanamento facilitava la diffusione di pregiudizi che attribuivano all’ebreo caratteristiche personali negative e pericolosità sociale. Se si guarda il comportamento della po-polazione, emerge che solo una minoranza praticò l’antisemitismo “attivo”, mentre molto più diffusa fu l’indifferenza “passiva”. Un’indifferenza che si manifestava con il silenzio, che spesso ha condotto ad un’inconsapevole complicità. La maggioranza della popolazione italiana non sembrava tur-bata e neppure indignata, era indifferente. Proprio Indifferenza è la parola che Liliana Segre ha voluto far porre all’ingresso del Memoriale della Sho-ah di Milano al binario 21.

8. C. Marcellini, G. C. Sonnino, O. Sori (a c. di), “Guerrieri in erba. La scuola fascista nella provincia di Ancona”, Affinità elettive, Ancona 2007; G. Gabrielli, D. Montino (a c. di), “La scuola fascista. Istituzioni, parole d’ordine e luoghi dell’immaginario”, Om-brecorte, Verona 2009.

9. Marcellini, Sonnino, Sori (a c. di) “Guerrieri in erba”, cit.; E. Toaff, “Perfidi giudei fratelli maggiori”, Mondadori, Milano 1987.

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Tra le organizzazioni fasciste che maggiormente si distinsero nella propa-ganda antisemita, va segnalata l’attività dei Centri per lo studio del problema ebraico, il cui lavoro di documentazione fu assai prezioso durante la fase della deportazione. Il primo venne fondato nell’ottobre del 1941 ad Anco-na da Guido Podaliri ed ebbe sede presso l’Istituto Anco-nazioAnco-nale di cultura fascista, in Piazza Roma 6. Il marchese Guido Podaliri Vulpiani, avvocato ci-vilista ad Ancona, corrispondente de “Il Popolo di Roma”, aveva numerose cariche in seno al Fascio anconetano e la sua opera più nota, De republica hebraeorum, fu scritta nel 1941 a sostegno della discriminazione razziale. Il centro contava numerosi iscritti tra cui, come ricordava Podaliri con vanto:

«prefetti, ufficiali, professori universitari e segretari federali, operai e tecni-ci agricoli, studenti e sacerdoti, commertecni-cianti e industriali, professionisti e maestri, soldati ed artisti»10.

Internamento e deportazioni

Nel 1939 ebbe inizio l’internamento degli ebrei stranieri rimasti in Italia. Con l’ingresso in guerra nel 1940 arrivarono anche per gli ebrei italiani i primi provvedimenti di internamento. Alcuni riuscirono a espatriare, molti cam-biarono nome e falsificarono i documenti e si spostano in altre zone nella speranza di non essere individuati. In questo contesto alcuni italiani si di-stinsero per l’aiuto che dettero agli ebrei, rischiando in prima persona. Tra le figure fondamentali della rete di supporto vanno annoverate persone comuni, carabinieri, parroci, partigiani che misero a disposizione luoghi di rifugio e contatti.

Nell’Italia centro-meridionale, il regime aveva costruito una rete di circa 50 campi di internamento, in cui dal 1939 convivevano ebrei, antifascisti, mi-noranze etniche e prigionieri nemici. Dopo l’8 settembre 1943 per gli ebrei alla limitazione dei diritti si affiancò la deportazione e la persecuzione delle vite; proprio da questi campi partirono i convogli per Fossoli o per quei luo-ghi di raccolta da cui muovevano i trasporti per i campi di concentramento e sterminio del Terzo Reich.

Nelle Marche11 il primo campo venne istituito a Servigliano nel 1940:

Vi rinchiusero moltissimi ebrei maltesi e 41 italiani, rastrellati nella provincia il 5 ottobre. Il 3 maggio 1944 aerei inglesi, su indicazione dei partigiani, lanciarono sul campo alcuni spezzoni incendiari ed esplosivi per favorire la fuga degli internati.

10. Su questo tema si veda ancora la ricerca di Labbate, “La comunità ebraica”, cit. pp. 111 e ss.

11. Per un panorama esaustivo sull’internamento marchigiano si veda http://www.storiamarche900.it/main?p=storia_terri-torio_campi (consultato 07/03/2020)

L’operazione riuscì e parecchi ebrei approfittarono della confusione per mettersi al riparo nelle campagne. Ventisette, però, rimasero nascosti nell’abitato di Ser-vigliano e il giorno dopo vennero rastrellati casa per casa, caricati su un camion e mandati al Nord. La notte dell’8 giugno una formazione partigiana attaccò il presidio del campo e lo disarmò favorendo la fuga di altri internati. A metà del mese i tedeschi cominciarono a ritirarsi e il 14 il campo fu smantellato12.

Oltre a Servigliano ve ne erano molti altri, ad esempio quello presso la co-lonia marina “Unes” a Senigallia, direttamente sorvegliato dai carabinieri, in cui oltre a slavi e prigionieri di guerra i erano rinchiusi circa 30 ebrei di Ancona e provincia:

Vi furono internati, prima di essere trasferiti a Fossoli, i coniugi Mosè ed Enrica Coen, proprietari di una delle prime pizzerie di Ancona e la professoressa Nella Montefiori, anch’ella anconetana: nessuno di loro tornò. Nel giugno del 1944, con l’avvicinarsi del fronte di guerra, uno degli internati ebrei - Elio Ascoli, detto Lol-li, noto ad Ancona come venditore ambulante di tessuti - organizzò un piano di evasione in massa ma gli altri rifiutarono di seguirlo per timore di rappresaglie.

A metà del mese vennero tutti trasferiti al Nord, su camion: soltanto l’Ascoli si salvò ed entrò nella Resistenza13.

Un altro campo si trovava a Sforzacosta in cui erano internati anche ebrei, tra cui Carlo Lowenthal e la moglie Eugenia Carcassoni, entrambi di Anco-na che, come racconta Mayda14, furono arrestati dalla GNR il 19 febbraio ad Appignano, mentre festeggiavano le nozze di uno dei loro figli. In que-sto campo fu rinchiuso anche Ferruccio Ascoli.

Altro luogo, destinato a rinchiudere provvisoriamente ebrei, prigionieri e partigiani, fu l’Abbadia di Fiastra dove, presso la tenuta Giustiniani Ban-dini, era stato ricavato da un padiglione di caccia un campo in cui furono rinchiusi circa un centinaio di ebrei, poi deportati in campo di concentra-mento15. Anche Macerata Feltria, Pollenza, Camerino, Fabriano, Sassofer-rato, Passo Treia, Petriolo furono luoghi di internamento, da cui i prigionieri venivano prelevati e condotti a Fossoli16.

Alcuni ebrei, soprattutto dopo l’8 settembre, provarono a scappare dai campi marchigiani, dando il loro contributo alla lotta partigiana sia di-rettamente, sia collaborando. Ad esempio Ruth Wartski, ebrea polacca

12. G. Mayda, “Storia della deportazione dall’Italia 1943-45”, 2005, p. 212-213.

13. Mayda, “Storia della deportazione”, cit. p. 203.

14. Mayda, “Storia della deportazione”, cit. p. 213.

15. R. Giacomini, “Ribelli e Partigiani”, Affinità elettive, Ancona 2008, p. 181.

16. Mayda, “Storia della deportazione”, cit, p. 203.

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In memoria delle vittime della barbarie nazi-fascista, dal 2017 sono state collocate nelle Marche 26 “Pietre d’Inciampo” (Stolpersteine), realizzate dall’artista tedesco Gunter Demnig, che ha già posato più di 71.000 pietre in tutta Europa.

Si tratta di sampietrini di piccola dimensione, ricoperti di ottone, collocati di fronte all’edificio in cui vive-vano le vittime, con un’incisione che ricorda nome, data di nascita e di morte, in molti casi anche il luogo della deportazione.

Sette pietre d’inciampo sono dedicate a donne: Annita Bolaffi, Eugenia Carcassoni, Enrica Coen, Romilde Coen, Nella Montefiori, Vittoria Nenni, Elsa Zamorani.

scappata con la famiglia da Danzica, rifugiatasi nelle Marche venne internata a Sforzacosta da dove riuscì a fuggire e unirsi al gruppo partigia-no bande Nicolò, partecipando alla Resisten-za nella località Monastero di Cessapalombo, in provincia di Macerata17. La fuga avvenne il 16 settembre, prima che arrivassero i tedeschi ad occupare il campo, insieme ad altri ebrei stra-nieri e apolidi internati, in tutto 35 persone. Nei giorni successivi solo sedici non furono ripresi, tra questi Ruth.

Molto significativa è anche la storia di Mosè Di Segni che, fuggito da Roma con la famiglia e rifugiatosi a San Severino, si unì ai partigiani della banda Mario18. Molti altri furono gli ebrei

che presero parte alla Resistenza tra cui Ettore Ascoli, Vittorio Lanternari, Luciano Morpurgo, Umberto Russi, Enzo Sacerdoti, Renzo Scandiani, Carlo Senigallia19.

Nella città di Ancona dopo l’arrivo delle truppe tedesche vennero effet-tuate due retate rivolte alla comunità ebraica,. Dopo la seconda - il 16 ottobre 1943 (in concomitanza con quella di Roma) - fallita per il massiccio bombardamento che investì la città, la comunità fu sciolta e tutti furono invitati a fuggire e a nascondersi20.

L’organizzazione sistematica delle deportazioni per lo sterminio prese il nel territorio italiano nell’ottobre del 1943, prima con uno staff apposita-mente mandato da Berlino e poi con un ufficio stabile a Verona. Nei pri-mi due mesi la polizia fascista aveva agito sempre in accordo con SS e Gestapo, ma dopo l’emanazione della Carta di Verona, a fine novembre, il governo della Repubblica sociale italiana avocò a sé la gestione della questione ebraica. Da quel momento la responsabilità degli arresti e del-le deportazioni divenne tutta italiana. Le catture venivano eseguite daldel-le questure e dalle prefetture, già in possesso degli elenchi dei censimenti (compilati nel 1938). Per poter gestire la grande quantità di arresti in vista

17. Si veda: http://www.storiamarche900.it/main?p=WARTSKI_Ruth (consultato 07/03/2020).

18. Sulla vicenda si veda: C. Marcellini e B. Montesi (a cura di), “Intervista a Frida Di Segni, in Triggiani, La memoria contro ogni discriminazione”, cit. pp. 47-58; “Mosè Di Segni medico partigiano. Memorie di un protagonista della Guerra di Liberazione (1943-1944)”, a cura di L. M. Cristini, Riserva naturale regionale del Monte San Vicino e del Monte Canfaito 2011.

19. Labbate, “La comunità ebraica”, cit., p. 129; E. Toaf, “Perfidi giudei”, cit.

20. Sulle vicende della città di Ancona dopo l’8 settembre si vedano: Labbate, “La comunità ebraica”, cit. e “Intervista a Bruno Coen” a cura di C. Marcellini e B. Montesi, in Triggiani, “La memoria contro ogni discriminazione”, cit. pp. 124-128 e pp. 35-46.

Ruth Wartski

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della deportazione, a dicembre fu aperto il campo di Fossoli da cui passa-rono 2500 ebrei in meno di un anno e altri 200 dalla Risiera di San Sabba21. Oltre a quella razziale vi fu la deportazione politica che non riguardò solo persone che si erano a lungo impegnate nella lotta antifascista, ma anche chi aveva messo in atto una resistenza civile, spesso priva di connotazioni politiche, tra cui anche molte donne. Poi vi fu quella dei militari che dopo l’8 settembre si rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò e che non ri-uscirono a nascondersi o entrare nelle file della Resistenza. In pochi mesi i tedeschi disarmarono e catturarono circa 800 mila militari italiani, di cui 600 mila finirono nei lager tedeschi e 200 mila riuscirono a fuggire, andando a formare il grosso delle bande partigiane. Secondo i dati del Centro di Do-cumentazione ebraica, le vittime della Shoah in Italia furono oltre 7.000; per metà gli arresti furono eseguiti dagli italiani e per l’altra metà dai tedeschi supportati sul piano informativo e organizzativo da italiani. I superstiti furono intorno al 12% (meno di 900). In venti mesi partirono dall’Italia 80 trasporti22. Ad Ancona secondo i dati del Cdec, furono 99 le persone deportate.

Conclusioni

Se per anni si è pensato che gli italiani si fossero solamente trovati in mez-zo alla tragica vicenda che è stata la persecuzione e la distruzione degli ebrei in Europa, le ricerche storiche hanno studiato la fondamentale col-laborazione di vasti settori della società italiana: burocrazia, servizi, infra-strutture, migliaia di cittadini comuni che parteciparono alle operazioni di arresto, depredazione e deportazione. Lo studio delle vicende locali per-mette di ricostruire quel tessuto grigio di collaborazione e indifferenza che fu il contesto in cui quei tragici fatti di limitazione e persecuzione delle vite degli ebrei avvennero. Non è certamente possibile tracciare una linea di diretta consequenzialità tra l’antisemitismo fascista e il genocidio ebraico, tuttavia è possibile affermare che quello costruito nel 1938 fu il contesto giuridico, politico, culturale e ideologico che rese possibile e realizzabile ogni azione compiuta dalla Repubblica sociale italiana, volta alla persecu-zione e all’uccisione di ogni ebreo presente sul territorio italiano.

Se per anni si è pensato che gli italiani si fossero solamente trovati in mez-zo alla tragica vicenda che è stata la persecuzione e la distruzione degli ebrei in Europa, le ricerche storiche hanno studiato la fondamentale col-laborazione di vasti settori della società italiana: burocrazia, servizi, infra-strutture, migliaia di cittadini comuni che parteciparono alle operazioni di arresto, depredazione e deportazione. Lo studio delle vicende locali per-mette di ricostruire quel tessuto grigio di collaborazione e indifferenza che fu il contesto in cui quei tragici fatti di limitazione e persecuzione delle vite degli ebrei avvennero. Non è certamente possibile tracciare una linea di diretta consequenzialità tra l’antisemitismo fascista e il genocidio ebraico, tuttavia è possibile affermare che quello costruito nel 1938 fu il contesto giuridico, politico, culturale e ideologico che rese possibile e realizzabile ogni azione compiuta dalla Repubblica sociale italiana, volta alla persecu-zione e all’uccisione di ogni ebreo presente sul territorio italiano.