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Un Messaggero riferisce come il dio abbia abbandonato Penteo alla ferocia delle donne una volta giunti sul Citerone. Qui le menadi stavano tranquillamente sedute ed

erano impegnate in piacevoli occupazioni ( /

vv. 1052-1053 ). Ma dalla sua postazione Penteo non riusciva a scorgerle. Allora lo straniero, compiendo cose che gli uomini non sono in

grado di realizzare ( v. 1069 ), colloca il re in alto tra i

rami di un abete così che da lassù possa tranquillamente spiare le Baccanti. Ben presto però Dioniso rivela alle donne il nascondiglio di Penteo, le quali prese da un’improvvisa agitazione balzano in qua e in là alla ricerca della loro preda (

/ /

/ / /

vv. 1088-1094 ). Avvistato il re lo aggrediscono scagliandogli contro grossi massi, rami d’abete e i loro tirsi: Penteo non ha ormai più via di scampo. Infine Agave ordina di sradicare l’abete su cui siede colui che ha osato spiare di nascosto i loro riti segreti. E quelle: / ( vv. 1109-1110 ). Precipitato dall’albero Penteo capisce che la sua fine è vicina. Disperato allora, gettata via la cuffietta dai capelli, cerca di farsi riconoscere dalla madre Agave perché non lo uccida. Invano. La donna non è in sé come dimostrano chiaramente i sintomi caratterizzanti gli accessi di follia quali la bava alla bocca e gli occhi stravolti (

/

/ vv. 1122-1124 ). Ed Agave

129

/ /

/

vv. 1125-1128 ). Anche le altre Baccanti partecipano ad un simile strazio,

prorompendo in grida di vittoria ( /

/ /

/ /

vv. 1131-1136 ). Così, servendosi di quelle stesse donne che avevano preteso di poter resistere alla sua volontà, Dioniso compie la sua vendetta su colui che ha osato sfidarlo. La sua morte può rappresentare un monito per quanti restano. La vicenda di Penteo ed Agave intende in questo modo porre l’accento sull’insensatezza del pretendere di opporsi alla follia ispirata del dio e sul come chi si sia dimostrato tanto empio sia stato alla fine travolto da una incontrollabile follia di sangue.95 Tuttavia la fine di Penteo è ben diversa dalle morti onorevoli di altri folli come Aiace o Fedra. Egli muore in un clima oscillante tra il macabro e il grottesco. La sua storia sarà di certo di lezione a molti, ma a lui personalmente non ha insegnato nulla.

Completato lo smembramento ad Agave spetta la testa di Penteo. L’ha conficcata sulla punta del suo tirso scambiandola per la testa di una leone ( /

/

95 Come Penteo che pur trasformato in Baccante non è reso partecipe a pieno titolo del mondo e dei

valori dionisiaci, ma rimane in una posizione ambigua ed oscillante tra adesione ed estraneità al dio, così anche sua madre Agave non diviene un’autentica seguace del dio. Colpita dalla follia divina Agave, assieme a tutte le figlie di Cadmo, viene trascinata fuori dalla città, ma non appartiene a Dioniso. Il modello delle sue autentiche seguaci, iniziate ai suoi misteri, è realizzato dalle donne della Lidia che formano il Coro. Per comprendere il motivo di tale diversità bisogna distinguere due essenziali forme di follia che il dio dispensa ai mortali. Una è la rabbia frenetica che porta ad uno stato di furia caratterizzato da follia omicida, passivamente subita perché pensata come castigo da infliggere, e priva di regole. L’altra è una forma di alterazione che si risolve nella possessione e in uno stato di felicità, di comunione con il dio. E’ una follia ricercata, che presuppone il rispetto di regole rituali e che reca con sé uno stato di benessere. Col suo intervento Dioniso intende destabilizzare la falsa saggezza di quanti si sentono sicuri nella superiorità della loro ragione. Infatti chi respinge l’appello del dio, che è un appello di gioia e comunione con la natura, è destinato a patire sotto il dominio della follia e delle conseguenze di essa come vendetta del dio. E’ quanto proclama il Coro

delle Baccanti inorridito dalle bestemmie proferite da Penteo: , /

/ / /

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/ vv. 1139-1142 ) ed ora si

dirige verso Tebe invocando e ringraziando Bacco per la caccia fortunata. Il tirso era un attributo cultuale tipico della religione dionisiaca, formato da una canna su cui era innestata una pigna, attorno alla quale erano arrotolati tralci di edera o bende di lana. Le fedeli lo costruivano da sé e lo utilizzavano durante le loro danze rituali.

Anche in questo caso, come già per Aiace e Eracle, la vittima della follia ha una percezione alterata della realtà e vede cose che non esistono. Significative sono a mio avviso le parole con cui il Messaggero conclude il suo mesto racconto:

/ /

vv. 1150-1152 ). Un monito di carattere generale che nell’invitare tutti gli uomini a ricercare la vera saggezza nella consapevolezza dei propri limiti e nel rispetto degli dei, si colloca sulla stessa linea delle lezioni impartite a quanti hanno osato sfidare la divinità e sono stati puniti in modo spietato. E’ il caso ad esempio del tracotante Aiace reso folle da Atena, la quale dopo aver mostrato ad Odisseo quanto potenti e crudeli possono essere gli dei,

ricorda: /

/ / /

Soph. Ai. 127-133 ). Questi versi, delle Baccanti e dell’Aiace, insistono con chiarezza sull’impossibilità di sfuggire al castigo divino e sull’ineluttabile forza con cui questo, ricorrendo alla follia, sceglie di manifestarsi. Dioniso, proprio come Atena, è un dio inflessibile, determinato a combattere ogni genere di resistenza ed affronto umani.

Il castigo inflitto da Dioniso a Penteo è dunque la morte per smembramento e sbranamento. Questo tipo di morte non è estraneo allo stesso dio, poiché appartiene alla consuetudine dei suoi riti. Euripide nelle Baccanti più volte si sofferma a descrivere in maniera accurata i rituali spesso feroci e terribili propri del culto di Dioniso, durante i quali le sue seguaci vivono un’esperienza di smarrimento, di dissolvimento della propria identità. Non a caso Dioniso nel prologo della tragedia ha definito le Baccanti tebane ( v. 33 ). Esse precipitano in uno stato di estasi, diventando , possedute dal dio. In precedenza attraverso il lungo racconto di un altro Messaggero ( vv. 677-774 ), un mandriano che conduceva al

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pascolo i suoi buoi alle pendici del Citerone, Euripide aveva già avuto modo di illustrare l’universo delle Baccanti nel quale Agave e le sue sorelle erano state attratte. Ce lo presenta come un mondo prodigioso ed affascinante, ma allo stesso tempo estremamente selvaggio.96 Qui la possessione dionisiaca risulta muoversi tra momenti di profondo silenzio e profonda quiete, che precedono l’avvio del rito

( v. 683 ), e tra l’esplosione fragorosa di

suoni e delirio ( /

vv. 689-690 ). Analogamente, nel secondo racconto del Messaggero, della follia di Agave viene descritta una situazione di iniziale calma

( /

vv. 1084-1085 ), che nel momento cruciale del rito cede il posto a

urla e clamore ( v. 1131 ; v. 1133 ). Il grido

è uno dei segni della possessione dionisiaca. Dioniso è infatti talvolta invocato come Iacchos, il signore delle grida, o come Evios, il dio dell’evoè, il grido rituale. Questi nomi con i quali le fedeli designano ed invocano il loro dio rievocano appunto le grida di gioia e di dolore, preludio del fenomeno di trance.

Un altro aspetto del culto dionisiaco a cui il Messaggero accenna nel suo racconto è l’ , la frenetica corsa sulle montagne delle Baccanti invasate dal dio (

/ /

/ /

vv. 723-727 ).97 Bromio, il fremente, è un

96

La frenesia raggiunta dalla menade nel momento della trance ha attratto particolarmente l’attenzione di vari studiosi. Chi danza infatti assume in questa circostanza atteggiamenti convulsi, che ricordano quelli delle crisi epilettiche descritte nei trattati ippocratici, mentre il viso si altera in una smorfia terrificante, simile a quella di Agave dagli occhi stravoli e la bocca schiumante di bava ( v. 1122 ). In preda alla follia le Baccanti possiedono una forza ed una rapidità straordinarie: balzano tra i dirupi senza precipitare, corrono senza sosta e non accusano fatica, etc. Sintomi simili caratterizzano chi è in preda ad una crisi isterica. Su questa linea si pongono le interpretazioni di Dodds 1953, XIV e Jeanmaire 1951, 112 ss. a sostegno dell’identificazione tra la menade posseduta da Bacco e la vittima di crisi di isteria. Tuttavia ciò che impedisce alla follia dionisiaca, come già agli altri casi di follia provocata da un dio, di assumere totalmente i connotati di una patologia è il suo costituire di fatto la manifestazione del divino, che la colloca all’interno della sfera di influenza del sacro e della religione piuttosto che della scienza medica.

97 L' , questa sorta di danza estatica sui monti, è attestata in vari luoghi della Grecia

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altro epiteto di Dioniso che indica il tremito indotto dal dio nelle sue fedeli durante la trance e probabilmente accompagnato da sordi muggiti nel momento in cui esse si identificano con la sua forma taurina.

Questa comunità di donne che dimora sul monte Citerone, vive in comunione con il suo dio, mostra di essersi spogliata di tutti i condizionamenti imposti dal vivere sociale e di essersi resa in tutto parte integrante di una realtà totalmente primitiva e a diretto contatto con la natura. Le Baccanti vivono in compagnia degli animali e cercano di mimetizzarsi tra loro indossando anche pelli di cerbiatto, ( v. 696 ). Abbandonato la città queste donne rinunciano anche a prendersi cura dei propri figli e sulla montagna divengono le madri delle fiere che vi abitano: si cingono il corpo di

serpenti e si lasciano da loro leccare le gote ( /

vv. 697-698 ), allattano cuccioli di capriolo o di

lupo ( /

vv. 699-700 ). Tutto questo senza correre alcun pericolo. E come gli

animali le Baccanti costituiscono una preda preziosa ( /

/ vv. 719-

721 ), ma a loro volta possono diventare cacciatrici loro stesse (

/ /

/ /

ï ü Pausania ( III 20, 3 ) menziona una località ai piedi del

Taigeto dove sussisteva un santuario, al suo tempo in rovina, con un’immagine di Dioniso. L’interno era accessibile solo alle donne che vi celebravano un sacrificio in segreto (

). Non viene specificato se questo culto prevedesse poi, come è verosimile, l’uscita delle donne nella solitudine boschiva del Taigeto. Ma ad accettare positivamente una simile ipotesi potrebbe esserci d’aiuto una testimonianza tratta dalle Georgiche di Virgilio in cui si dice: Virginibus bacchata Lacaenis Taygeta ( II 487 ). Inoltre nel descrivere il Parnaso sempre Pausania ( X 32, 2 ) menziona la grotta Coricia, di accesso assai sgradevole poiché posto a parecchi metri di altezza. Essa era sacra soprattutto alle Ninfe, poiché fu

una di queste a darle il nome ( ). E

grazie alla preghiera della Pizia nel prologo delle Eumenidi, sappiamo che l’antro coricio o la spianata dinnanzi al suo accesso era un dominio di Dioniso e, un tempo, delle Ninfe (

/ / Aesch. Eum.

22-24 ). L’antro, in virtù della sua posizione in prossimità della vetta del Parnaso, doveva perciò avere

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vv. 731-735 ). Il mandriano racconta infatti di come le donne, completamente disarmate, si siano avventate sulle giovenche al pascolo lacerandole, dando prova di una straordinaria forza fisica durante il loro stato di trance (

/ / / / / / / / / / / /

vv. 735-747 ). Questi versi descrivono il momento culminante del rito bacchico quando, in un’esplosione di gioia, le seguaci del dio danno avvio ad un cruento sacrificio durante il quale l’animale viene fatto a pezzi con le mani nude ( ). Per due volte dunque Euripide descrive le modalità di questo rito bacchico: in questo passo, dove le menadi fanno a pezzi il bestiame dei pastori, e poi nel successivo racconto della tragica morte di Penteo dilaniato dalla madre Agave e dalle sorelle di questa.

Alla lacerazione del corpo dell’animale doveva seguire il banchetto delle sue carni crude, l’ . Vi accennano le Baccanti che compongono il Coro nel loro canto

d’ingresso ( / vv. 138-139 ). La

vittima, spiega Dodds,98 era sentita come incarnazione della potenza divina che attraverso l’ aveva modo di essere trasferita nelle donne che praticavano il rito. L’animale sacrificato era di solito un toro, un cerbiatto, una capra o un serpente. Le Baccanti che dilaniano Penteo credono invece che egli sia un leone. Nell’omerico Inno a Dioniso si trova la più antica testimonianza di questa capacità propria del dio di trasformarsi in animale e sono proprio le sembianze di un leone quelle che Dioniso qui assume per sfuggire ai pirati che lo avevano rapito:

/ ( vv. 47-48 ). In ognuna di queste

creature dunque è possibile rintracciare l’incarnazione del dio nel corpo dell’animale.

98

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Perciò il Coro delle seguaci del dio lo invoca affinché si manifesti in una delle sue

feroci forme: toro, serpente o leone ( /

/ vv. 1017-1019 ).

Nella caratterizzazione di Euripide dunque Dioniso e il suo culto presentano i tratti fortemente primitivi di una divinità della natura vegetale e selvaggia, e il suo manifestarsi in forme animalesche non è altro che il simbolo di simili forze primordiali.

Ma di questo universo così rivoluzionario e violento, dominio del dio Dioniso, all’interno del quale si svolge gran parte dell’azione tragica delle Baccanti, lo spettatore non ha una visione diretta, se non nell’ultima scena del dramma. Si tratta della terrificante comparsa sulla scena di Agave che, ancora preda della sua folle esaltazione, reca piantata sul tirso la testa insanguinata del figlio scambiandola per un

glorioso trofeo di caccia ( / /

vv. 1169-1171 ). Agave allucinata dal delirio dionisiaco confonde il mondo irreale e quello reale. Così dopo aver annientato il superbo Penteo, mediante l’irresistibile azione della follia Dioniso ha sconfitto anche un altro nemico: Agave, che aveva dubitato, si dice nel prologo, della sua origine divina ed aveva resistito al suo appello. A causa della follia furiosa inviata dal dio per punirla è divenuta l’assassina di suo figlio. E si compiace della sua impresa:

( v. 1179 ) ; ne è orgogliosa: / /

( vv. 1197-1198 ). E’ la stessa situazione di allucinato orrore che Sofocle aveva riprodotto durante la scena della follia di Aiace inviatagli da Atena. Ancora una volta l’uomo subisce l’inganno del dio, si umilia e soffre terribilmente. Agave come Aiace immagina una vittoria e vede cose che in realtà non esistono. Nelle visioni del folle tutto si trasforma: gli armenti argivi diventano i nemici giurati del Telamonio, Odisseo e gli Atridi, sui quali egli riversa la sua furia sanguinaria ; Penteo diviene un giovane leone, vittima sacrificale di un rito bacchico. Il mondo delle illusioni all’interno del quale questi personaggi credono di muoversi è un chiaro segnale del loro stato di folle alterazione. Sono le illusioni create da un dio ostile che in entrambi i casi si finge alleato del folle per condurlo in realtà alla rovina. E come nelle Baccanti Agave non percepisce la sconcertata lucidità delle donne del Coro che

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dialogano con lei, così Aiace non comprende, perché folle appunto, la sadica ironia contenuta nelle parole di Atena. Euripide dunque ripropone la classica rappresentazione scenica del personaggio folle, un modello già sperimentato dai suoi predecessori, collocandola in un contesto tutto nuovo e particolare che non compare altrove, tra le tragedie a noi giunte: l’universo dionisiaco dove follia e violenza assumono di norma un valore rituale.

Proseguendo nel suo folle compiacersi Agave invita anche il padre Cadmo ad essere orgoglioso e felice per le prodezze di cui si è resa autrice sua figlia (

/ /

vv. 1241-1243 ). Ma è una felicità illusoria quella di cui parla Agave, un altro inganno divino. Agli occhi di chi è in possesso delle proprie facoltà mentali la donna risulta infatti essere estremamente infelice e sventurata (

v. 1232 ; v. 1200 ). Nelle parole di Cadmo ( vv. 1259-1262 ) risuona a grandi linee la concezione sofoclea, espressa nell’Aiace, del come causa di dolore e di contro della follia come fonte di gioia. Aiace infatti godeva nel vendicarsi di Odisseo e degli Atridi, anche se questo era soltanto frutto della sua folle

immaginazione ( /

Soph. Ai. 271-272 ). Ma quando l’accesso è cessato e l’eroe ha

ripreso conoscenza soffre terribilmente ( /

/ /

Soph. Ai. 259-262 ). Similmente riferendosi alla follia di Agave

Cadmo afferma: / ( vv.

1259-1260 ). E prosegue definendo l’inconsapevolezza di quanto ha compiuto promotrice di una illusoria assenza di infelicità: /

/ ( vv. 1260-

1262 ). Il di cui Cadmo parla è paragonabile inoltre al concetto di

espresso da Oreste nell’omonimo dramma euripideo, ovvero al capire inteso come consapevolezza della gravità e dell’orrore dell’atto compiuto (

Eur. Or. 396 ). Allo stesso modo la è per

136

L’esperienza di Penteo e quella di Agave confermano ancora una volta, come è già successo in maniera del tutto simile nelle altre tragedie della follia, l’impotenza della mente umana, condannata a sofferenze atroci, di fronte all’ineluttabile affermazione del divino. La ragione umana non può reggere il confronto con l’irrazionale azione degli dei. Argomentare contro gli dei non è cosa saggia, poiché causa soltanto

sventure, come ricorda il Coro delle Baccanti ai vv. 386-392: /

/ / /

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CONCLUSIONI

In ciascuna delle storie di follia tragica analizzate in questo mio lavoro il delirio si configura sempre come lo strumento della vendetta divina a danno di un mortale. Le Erinni puniscono Oreste con la follia per vendicare l’uccisione di sua madre. Il tracotante Aiace è reso folle da Atena e fa strage di bestiame illudendosi di star compiendo la sua vendetta contro gli Atridi ed Odisseo. Poi, una volta tornato in sé, rivolge la stessa violenza contro se stesso uccidendosi, poiché di un gesto troppo infamante si era reso responsabile. Eracle è reso folle da Era e durante l’accesso di pazzia trucida la sua famiglia. Afrodite fa impazzire d’amore per Ippolito Fedra sino a causarne la morte, per vendicarsi del giovane empio. Ed anche l’empietà di Penteo ed Agave viene punita da Dioniso con la follia, una follia che porta allo sbranamento del re ad opera della stessa madre e delle sue sorelle. La pazzia può dunque scaturire dalla violenza, come nel caso di Oreste nelle Coefore e nell’omonimo dramma di Euripide, ma può soprattutto generarla. In particolar modo i personaggi euripidei sviluppano una spiccata aggressività durante l’accesso. Alla maniera dell’Aiace sofocleo Eracle, Oreste nell’Ifigenia Taurica ed Agave in preda alla follia si rendono autori di massacri.

Tuttavia vi è una differenza sostanziale tra folli quali Oreste, Aiace, Penteo, Agave ed Eracle e Fedra. Quest’ultimi due infatti a differenza degli altri sono vittime innocenti di una follia immotivata, mera espressione della capricciosa volontà divina di distruggere un mortale. Nell’Eracle e nell’Ippolito è perciò il dio che, scatenando la follia, compie un atto di nei riguardi dell’uomo piuttosto che il contrario. Tutte queste rappresentazioni attingono inoltre ad un comune linguaggio, fatto di metafore e lessico caratteristici delle scene di follia, e a simili modalità rappresentative. Ad esempio, attribuendole sfumature differenti, talvolta i tragici ricorrono nei loro drammi di follia alla metafora del carro volto dall’auriga fuori dalla pista, per descrivere la sensazione che assale il folle nel momento in cui avverte di essere sul punto di perdere il controllo delle proprie facoltà mentali. L’immagine è stata elaborata da Eschilo nella scena della follia di Oreste nell’esodo delle Coefore e

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successivamente ripresa da Euripide nell’Eracle. La pazzia drammatica è poi

principalmente , ma anche e . rievoca la natura

irrazionale e feroce della follia, la caratterizza in quanto malattia e contrappone così la condizione del folle a quella di chi, sano, è in possesso delle proprie facoltà mentali. Più volte in queste tragedie si fa riferimento all’ o al , il pungolo utilizzato dall’auriga per spronare i cavalli, che nelle scene di follia diviene lo strumento con cui la divinità è solita scatenare l’accesso. Allo stesso modo possiamo dire appartenente al lessico caratteristico della follia anche il verbo , che spesso ricorrere a descrivere gli accessi indicando l’errare della mente a causa della pazzia, piuttosto che il vagare in senso fisico.

Dal punto di vista rappresentativo ciò che invece di solito accomuna questi attacchi di pazzia è la perdita di contatto del folle con quanto gli sta intorno. Durante la crisi il folle tende a muoversi in un mondo altro rispetto a quello reale, un mondo creato dal

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