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Follia e violenza sulla scena tragica. Variazioni sul tema del personaggio folle nei tre tragici maggiori

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Academic year: 2021

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INDICE

INTRODUZIONE ... 3

1. Capitolo I. FOLLIA E VIOLENZA: LE ORIGINI 1. La follia guerriera e strage in Omero ... 5

2. L’ira dell’ucciso ... 9

3. Alcmeone e l' ... 11

4. Lex sacra di Selinunte e di Cirene ... 17

2. Capitolo II. LA FOLLIA DI ORESTE 1. Eschilo. Coefore ( vv. 1021-1062 ) ... 25

2. Le Erinni da Omero ad Eschilo ... 31

3. Euripide. Ifigenia Taurica ( vv. 281-319 ) e Oreste ( vv. 255-276 ) ... 40

3. Capitolo III. LA FOLLIA DI AIACE 1. La follia di Aiace nella tradizione letteraria ... 54

2. Sofocle. Aiace: il prologo della follia ( vv. 1-133 ) ... 57

3. Sofocle. Aiace: il doloroso recupero della coscienza ( vv. 201-480 ) ... 66

4. Capitolo IV. LA FOLLIA DI ERACLE 1. Euripide. Eracle ( vv. 815-874 ) ... 75

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3. Euripide. Eracle: il racconto del Messaggero ( vv. 922-1015 ) ... 87

5. Capitolo V. LA FOLLIA DI FEDRA 1. Euripide. Ippolito: prologo ( vv. 1-57 ) e parodo ( vv. 121-175 ) ... 97

2. Euripide. Ippolito: il dramma di Fedra ( vv. 176 ss. ) ... 103

3. L’ come causa della morte di Fedra ... 108

6. Capitolo VI. LA FOLLIA DI PENTEO E AGAVE 1. Euripide. Baccanti: il prologo ( vv. 1-63 ) ... 114

2. Dioniso: il dio della follia ... 116

3. Euripide. Baccanti: la follia di Penteo ... 120

4. Euripide. Baccanti: la follia di Agave ... 128

CONCLUSIONI ... 137

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INTRODUZIONE

La parte iniziale di questo lavoro è dedicata al confronto tra alcune scene dell’Iliade nelle quali vengono descritti casi di estasi guerriera che, con la dovuta cautela, potremmo definire di follia. Una simile scelta è stata motivata dalla volontà di mostrare come sin da queste prime testimonianze letterarie la follia fosse strettamente connessa con l’intervento di una divinità e come da questi accessi di furia guerriera scaturissero sempre episodi di violenza. Il dio infatti trasmettendo temporaneamente parte della sua forza divina nell’eroe ne accresce il coraggio e il vigore fisico facendo sì che egli possa compiere sovrumane e mirabili imprese, realizzate nel segno della strage di nemici in battaglia. Nell’Iliade dunque l’azione divina, che spingere l’eroe alla violenza mediante l’aumento della sua forza fisica, è fonte di gloria. Si tratta perciò di una follia benefica per il guerriero che ne viene pervaso.

Il lavoro procede poi con l’analisi del rapporto tra follia e violenza nelle tragedie del V secolo. Nei drammi conservati la pazzia dell’eroe fa la prima comparsa alla conclusione delle Coefore di Eschilo, quando il matricida Oreste vede in uno spaventoso delirio le Erinni vendicatrici della madre uccisa. Le stesse tormentano anche il protagonista dell’Oreste euripideo. In questi casi la follia costituisce un evento episodico, mentre in drammi come l’Aiace di Sofocle o l’Eracle, l’Ippolito e le Baccanti di Euripide essa rappresenta il motivo generatore dell’azione tragica. Diverse sono anche le tipologie di rappresentazione della follia. Il raptus mentale è direttamente riprodotto sulla scena come nei casi di Oreste nelle Coefore e nell’omonimo dramma di Euripide, Fedra e Penteo, oppure viene raccontato da un messo come nell’Eracle e nell’Ifigenia Taurica, o prima descritto e poi rappresentato in atto come nell’Aiace. Ma quel che accomuna tutte queste tragedie è, proprio come nell’Iliade, la strettissima connessione tra follia e violenza omicida: la prima risulta infatti essere sempre causa o conseguenza della seconda. Inoltre ciascuno di questi accessi di follia furiosa si configura come una sorta di stato demoniaco, poiché determinato dall’intervento di una potenza divina, proprio come in Omero.

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Ma nei tragici del V secolo la follia assume connotati negativi, del tutto estranei al poema iliadico. Con lo smarrimento della ragione l’eroe talvolta sconta una colpa volontaria e paga con un terribile contrappasso l’errore che ha attirato su di lui l’ostilità del dio, come accade con Oreste, Penteo e Aiace; altre volte invece l’eroe è vittima innocente della vendetta divina, come Eracle e Fedra. In tutti questi casi però la follia rappresenta sempre il dolore a cui l’uomo è condannato, a causa del suo essere mortale, quando è posto di fronte all’irrazionalità del reale.

Le manifestazioni devastanti degli attacchi di pazzia riportate sulla scena tragica costituiscono un elemento di acceso interesse in un’epoca in cui le prime indagini della scienza medica rivolgevano una particolare attenzione alle attività del cervello e alle sue disfunzioni. Ma quello che in questa tesi ho cercato di dimostrare è il come le somiglianze tra i sintomi che caratterizzano le scene di follia in tragedia e quelli tipici di particolari malattie descritti nei trattati di medicina, come l’epilessia o l’isteria, non siano determinate dalla volontà di rappresentare in forma drammatica la natura patologica degli accessi di follia. Ciò che impedisce infatti alla follia degli eroi tragici di essere definita patologica è la sua codificazione culturale, perché essa è in tutto legata ad una dimensione essenzialmente sacra.

Lo scopo di questo mio lavoro è inoltre quello di illustrare in che modo i tre tragediografi si siano serviti della follia per rappresentare sulla scena l’enorme distanza che intercorre tra umano e divino. L’eroe tragico, quando è colpevole, pecca di nel credere di poter essere autore del proprio destino, nell’opporsi alla divinità o nel non curarsi di essa. Per lui la follia che giunge a sconvolgere la mente è allora un amaro castigo. La punizione divina mette così a nudo l’inesorabile debolezza e precarietà dell’uomo.

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Capitolo I

FOLLIA E VIOLENZA: LE ORIGINI

1. Follia guerriera e strage in Omero

In alcune scene di guerra descritte da Omero nel poema iliadico viene a stabilirsi una particolare connessione tra la follia e la strage di nemici sul campo di battaglia. La follia si presenta come un fenomeno improvviso e provvisorio che, determinando un notevole accrescimento di energie, è rovinoso per chi viene travolto da una simile furia rovinosa. Inoltre alcuni termini che ricorrono in queste descrizioni entrano poi a far parte del linguaggio della follia adoperato nei testi tragici ( e

ad esempio ). Ed anche un altro dato importante emerge da queste testimonianze: questi accessi di follia furiosa sono sempre ritenuti conseguenze dell’intervento di una potenza divina, di una forza incontrollabile che agisce sull’uomo. Un tratto questo che, come vedremo, anche nella letteratura successiva caratterizza ogni manifestazione di follia.

Valorosi guerrieri come Ettore, Achille, Diomede sono colti da follia generatrice di strage. In Il. XV 603-695 Zeus incita Ettore, già ardente di per sé, allo slancio guerriero che lo vede protagonista dell’assalto alle navi greche (

/

vv. 603-604 ). Così Ettore infuria simile ad Ares che palleggia la lancia o al fuoco che arde devastando i monti (

/ vv. 605-606 ). Il

paragone con la divinità pone l’accento sulla straordinarietà di un tipo di potenza che raramente si riscontra in condizioni normali ed è degna di onore.1 Il paragone con la

1 Nell'Iliade si dice talvolta che Ares, il dio ( Il. V 831 ), che si compiace del sangue,

prende possesso di un guerriero, come accade ad Ettore: /

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forza naturale scatenata del fuoco è finalizzato invece a rappresentare la violenza indomabile della furia guerriera. Il verbo ‘infuriare, essere folle’, qualifica nel passo l’azione di Ettore. , che successivamente diviene il verbo per eccellenza della pazzia, già nella maggior parte delle sue ricorrenze nei poemi omerici si riferisce ad episodi di follia, quella guerriera appunto. Ettore è descritto inoltre con la schiuma alla bocca, gli occhi lampeggianti sotto le sopracciglia e con l’elmo che vibra paurosamente intorno alle tempie (

/ /

/ vv. 607-610 ).

Questa follia guerriera coinvolge però solo alcuni guerrieri particolarmente forti e viene solitamente descritta con termini, similitudini e modelli ricorrenti. E’ quanto può rivelare un confronto tra Il. XV 603-610 ed Il. XX 164-175. Achille qui descritto, come Ettore nel passo citato sopra, nel momento del suo massimo furore, è paragonato ad un leone assassino ( ΐ

/ vv. 164-165 ) che, pronto a

balzare sui giovani desiderosi di ucciderlo, con la bava alla bocca (

/ vv. 168-169 ) e gli occhi splendenti, si lancia in avanti con furia

( v. 172 ). Il e il nobile cuore spingevano

Achille a muovere contro Enea ( /

vv. 174-175 ). è il termine che in Omero descrive una sorta di energia mentale e fisica che si manifesta improvvisamente nell’eroe e ne accresce il coraggio e il vigore, sfociando poi nell’esplosione di quella che abbiamo definito follia di strage. Il termine è etimologicamente connesso a ( come mostra Il. VI 100-101 :

/ ) attraverso il tema del

perfetto e perciò ricorre sovente nelle scene di follia guerriera. Come dunque Zeus fa sì che Ettore infuri, , così il è causa dello slancio furioso di Achille. I guerrieri pervasi dal avvertono nel corpo un’energia misteriosa che li

interpretare un passo simile come esempio di reale possessione. Ares infatti va qui inteso come un’immane e selvaggia energia distruttiva che trasmessa in battaglia scatena la sua furia distruttiva.

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spinge alla violenza, tanto da farli sembrare fuori di sé. Il possesso temporaneo di è per questo accompagnato, oltre che da manifestazioni esteriori quali la lucentezza degli occhi o la schiuma alla bocca, anche dall’insorgere di particolari sensazioni fisiche, caratterizzanti la straordinarietà di questo stato. Tra queste vi è l’improvvisa agilità che l’eroe avverte cogliere le membra, come quella trasmessa da

Poseidone ad Aiace d’Oileo e al Telamonio: /

/

( Il. XIII 59-61 ). è infatti una formula

ricorrente nelle descrizioni di trasmesso. La si ritrova ad esempio in nel quinto libro dell’Iliade quando Atena, giungendo in soccorso di Diomede ferito, dà

nuovamente vigore alle sue membra ( /

vv. 121-122 ) ispirandogli nel petto l’intrepida furia

paterna ( ï / vv. ).

Diomede avanza così come un leone preso da una furia tre volte maggiore (

v. 136 ) facendo strage di nemici. E

ancora, la formula ricorre nel

libro ventitreesimo dell’Iliade al v. 771 dove marca l’intervento della dea Atena a sostegno di Odisseo.

I passi sino ad ora citati mostrano come il e la furia che esso scatena siano strettamente legati all’interveto di forze divine. Zeus, Ares, Poseidone, Atena intervengono di volta in volta a sostegno dei propri protetti trasferendo su di essi parte della loro sovrumana potenza. L’intervento della divinità contribuisce a creare un’atmosfera di grandiosità e a determinare un’azione nobile e insigne, condotta appunto nel senso dell’esplosione della forza e della follia guerriera.

Abbiamo visto come in Il. XX 164-175 Achille al momento dello slancio furioso sia paragonato ad un leone. In Il. VIII 299 Ettore è definito un cane rabbioso (

). Lo scopo di questi paragoni è quello di connotare maggiormente l’insorgere di un furore tanto feroce e nefasto da assomigliare nelle modalità d’azione e nelle conseguenze alla ferocia animalesca. Ma c’è un termine, specializzato nella descrizione della follia guerriera, che porta in sé l’essenza dell’identificazione tra

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l’eroe pervaso da furore e l’aggressività dell’animale: questo è .2 Il termine deriva dalla radice del greco “lupo”, con l’aggiunta di un suffisso derivante da *-ya, che determina il genere femminile e la forma astratta. significa “follia, rabbia”, quest’ultima infatti si credeva fosse tipica dei lupi. Ecco perché il termine letteralmente indica la “rabbia dei lupi”. ricorre solo tre volte nei poemi omerici: Il. IX 239; 305; Il. XXI 542. Durante l’ambasceria ad Achille, nel nono dell’Iliade, Odisseo, descrivendo gli irresistibili assalti dei Troiani, a proposito del

loro condottiero dice: ï /

/

( Il. IX 237-239 ). E a conclusione del suo discorso torna a sottolineare la

straordinaria forza di Ettore: /

( Il. IX 305-306 ). La terza ed ultima volta ricorre invece riferita ad Achille che infuria alle porte di Troia:

ï /

( Il. XXI 542-543 ). Questi passi mostrano chiaramente come l’eroe in preda alla sfruttando questo temporaneo aumento di energie, riesca a compiere imprese memorabili, benché compiute nel segno della strage.

Ho già avuto modo di far notare come l’intervento divino, che è causa degli eccessi di furia guerriera, serva a ravvivare o rafforzare un apparato energetico già di per sé valente dell’eroe. Per questo motivo risulta difficile parlare di casi di invasamento in

2

E’ opportuno notare però che, al contrario di nei poemi omerici il verbo e il

sostantivo non sono termini specializzati nella follia guerriera, pur riferendosi a questa nella

maggior parte delle loro ricorrenze. ricorre ad esempio nel descrivere comportamenti

irrispettosi delle leggi umane e divine, come quello degli inospitali Proci ( Od.

XVIII 406 ) o di Achille che trattiene il cadavere di Ettore presso le navi e non vuole liberarlo (

/ Il. XXIV 114-115);

oppure per indicare lo stato determinato dall’ubriachezza (

Od. XXI 297-298 ). Così il : in alcuni passi

indica il desiderio, la volontà ( Od. XXIV 319;

Il. XXIV 198 ), in altri allude alla superbia e all’orgoglio

( Il. XVII 20 ), e talvolta può anche riferirsi

all’infuriare di agenti atmosferici o elementi naturali, come il fuoco (

Il. VI 182), l’acqua ( Il. XII 18 ) o il sole (

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Omero: non assistiamo infatti a radicali mutamenti di personalità, ma soltanto ad un potenziamento di determinate qualità. Né può trattarsi di possessione, essendo questa involontaria, mentre nei poemi sono spesso gli stessi eroi a invocare l’intervento della divinità, perché grazie al loro aiuto possano riprendere a lottare e a far strage di nemici così da poter accrescere la propria virtù guerriera ( ). Il furore guerriero testimonia in questo modo la spontanea adesione al complesso sistema di valori della società omerica, che riconosce nella gloria ( ) la sua massima aspirazione, ed esalta il valore di colui che accetta di lasciarsi trasportare da esso, rendendolo portavoce degli ideali più nobili. Simili manifestazioni non sono intese dunque come degradanti, ma degne di onore ( ) proprio perché rappresentano il potenziamento delle capacità umane e del loro valore nel combattimento. Quindi episodi di follia guerriera come quelli sopra descritti erano considerati, per quanto straordinari, normali.

2. L’ira dell’ucciso

Al di là dello stretto legame che viene a stabilirsi tra follia e strage durante gli assalti guerrieri, nei poemi omerici non pare esservi traccia di omicidi compiuti a causa della follia, né di casi in cui la follia è concepita come punizione per questo genere di crimini. Nel mondo eroico descritto da Omero, ancora privo di istituzioni giuridiche, il principio di vendetta veniva a coincidere con quello di pena e punizione. In casi di omicidio spettava ai familiari della vittima il compito della vendetta: era dunque contemplata la possibilità di punire l’assassino con la morte. L’esercizio della vendetta infatti, oltre che a dare soddisfazione ed appagamento ai parenti del defunto, era percepito come un dovere morale e sociale, volto alla salvaguardia dell’onore battuto dall’omicidio. L’esilio volontario poteva però scongiurare un simile contraccambio. Dopo la strage dei Proci, Eupìte, padre di Antìnoo uno dei pretendenti uccisi da Odisseo, poiché intende impedire che l’omicida nel tentativo di evitare la vendetta fugga in esilio afferma:

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433-435 ). Nel nono libro dell’Iliade, invece, Aiace criticando la fermezza di Achille, che neppure i doni inviatigli da Agamennone riescono a piegare, afferma:

/ /

/

/ ( Il. IX 632-636 ). Questo passo testimonia come

nella società omerica fosse anche ammessa la possibilità di accettare un’offerta di riscatto e rinunciare così a perseguitare il colpevole di un omicidio. Il riscatto serviva a riparare le colpe e scongiurare l’ira della famiglia della vittima.

Il principio di vendetta e le pene pecuniarie continuarono ad essere ammessi ben oltre l’età omerica.3

Tuttavia soltanto la letteratura successiva ad Omero pone l’accento sullo stretto legame che viene ad instaurarsi, a seguito di un omicidio, tra la vittima e il suo assassino. Un legame che, secondo antiche credenze, trova nell’ira del defunto e nel principio di vendetta la sua ragion d’essere. La tragedia attica del V secolo, riproponendo le storie di un passato mitico, spesso si trova a rappresentare le vicende di inestinguibili vendette. Qui l’ira del defunto diviene, come vedremo, la causa principale degli accessi di follia. Queste antiche credenze, che in tragedia si pongono alla base della follia come conseguenza di omicidi, mostrano d’essere ancora vive anche presso scrittori del tardo V secolo e del primo IV secolo a.C. Platone nelle Leggi, a proposito di un antico racconto di vecchie leggende (

IX, 865 d ), dice che lo spirito di un uomo ucciso, adirato con il suo assassino per ciò che di violento ha subito, sconvolge quanto più può chi l’ha privato della vita (

IX, 865 d-e ). Così Plutarco narrando la morte di Cleonice, una giovane di Bisanzio, per mano

3 Basti pensare alla vicenda di Ecuba e Plimestore o alla vendetta di Oreste, unica soluzione

ammissibile, dal suo punto di vista, trattandosi di un dolore che non può essere cancellato col denaro

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di Pausania, dice che da quel giorno il fantasma della ragazza non smise di tormentare il suo assassino (

Plut. Cim. VI, 5 ). L’unica via da percorrere per sottrarsi ai tormenti arrecati dall’anima del morto era quella della purificazione, da ricercare lontano dai luoghi che furono familiari alla vittima quando era in vita. In caso contrario i congiunti del defunto avevano il dovere di vendicare i familiari uccisi per non incorrere, a loro volta, nella persecuzione dei loro spiriti, furiosi per l’oltraggio della mancata vendetta.4 Il fantasma della persona uccisa è dunque la causa di disturbi mentali e spesso, vedremo, opera come un bacillo della follia. Non è la coscienza di un animo colpevole a destare turbamento, quanto un’anima offesa che lamenta con forza la sua vendetta. E dal desiderio di sottrarsi alla persecuzione dei suoi continui assalti che nasce nell’assassino l’istinto della fuga, che lo costringe a vagare esule lontano da casa.

Alcmeone e l’

Sono numerosi i miti che raccontano le storie di uomini divenuti folli dopo aver compiuto un omicidio. Tra questi vi è il matricida Alcmeone, la cui follia, narra Apollodoro ( Bibl. III 7, 2-5 ), trova nell’uccisione della madre il suo motivo scatenante. La vicenda di Alcmeone si colloca all’interno del ciclo tebano. Suo padre Amfiarao, persuaso con l’inganno dalla moglie Erifile, partecipa infatti alla spedizione dei Sette contro Tebe, nella quale trova la morte. Prima di partire

4

Dalle testimonianze degli oratori del V secolo a. C. veniamo a conoscenza della possibilità, per il parente più stretto del morto, di perseguire legalmente per omicidio l’assassino piuttosto che ricorrere all’espediente della vendetta di sangue. In questo modo compito della punizione spettava allora ai giudici i quali avevano il dovere di condannare i colpevoli per evitare che l’ira dei defunti si abbattesse su di loro. E’ quanto chiaramente emerge da un passo delle Tetralogie di Antifonte:

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Amfiarao raccomanda ai figli di punire la madre fedifraga. Dieci anni più tardi Alcmeone, obbedendo ad un oracolo del dio Apollo, uccide la madre Erifile. Perseguitato dall’Erinni della madre, impazzisce e inizia a vagare di regione in regione per sfuggire al suo tormento. Infine giunge in Arcadia dove dopo essere stato purificato da Fegeo, re di Psofis, ne sposa la figlia Arsinoe, a cui offre come dono nuziale una collana e un peplo che erano appartenuti ad Erifile (

Apoll. Bibl. III 7, 5 ). Ma poco più tardi è costretto a lasciare Psofis, a seguito di una carestia della quale lui stesso era causa in quanto ancora contaminato. Riprende allora a vagabondare, sino a quando non viene di nuovo purificato, e questa volta in via definitiva, alle fonti del fiume Acheloo del quale sposa la figlia, Calliore. Questa, desiderando possedere il peplo e la collana donati ad Arsinoe, minaccia lo sposo di abbandonarlo se non li avesse avuti. Alcmeone allora si reca a Psofis e con un falso pretesto ottiene la restituzione dei doni. Ma quando Fegeo scopre il motivo reale ordina ai suoi figli di ucciderlo.5

Aristotele nella Poetica afferma che le migliori tragedie del suo tempo erano quelle composte sulle vicende di poche famiglie e tra queste nomina anche quella di Alcmeone (

Poet. 1453a 19-20 ). Il mito di Alcmeone ispirò infatti molti

5 Il mito di Alcmeone è stato narrato da varie fonti antiche, seppure talvolta in maniera differente.

Pausania ( VIII 24, 7-10 ) chiama la figlia di Fegeo Alfesibea e non accenna alla carestia, causa dell’allontanamento da Psofis di Alcmeone. Questi infatti consultato l’oracolo di Delfi, poiché la follia non dava segni di miglioramento, viene informato dalla Pizia che:

( VIII 24, 8 ). Manca dunque, rispetto al racconto di Apollodoro, l’espediente della seconda purificazione. Asclepiade di Tragilo non parla neppure dell’oracolo di Apollo ( 12 fr. 29 Jacoby ):

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tragediografi greci. Eschilo trattò il mito di Alcmeone negli Epigoni, Sofocle dedicò un’intera tragedia ad Alcmeone ( frr. 108-110 R. ), così Agatone ( 39 F 2 Sn. ) e Teodette ( 72 F 1a-2 Sn ). Sappiamo che anche Euripide scrisse due drammi sulla

vicenda mitica di Alcmeone: l’Alcmeone a Psofis ( )

rappresentato nel 438 a. C., e l’Alcmeone a Corinto ( )

rappresentato dopo la morte dell’autore, presumibilmente tra il 405 e il 400 a. C. A causa della scarsità dei frammenti superstiti, risulta difficile ricostruire in maniera verisimile le trame delle due tragedie. Il titolo Alcmeone a Psofis potrebbe riferirsi al primo soggiorno di Alcmeone presso la città, durante il quale ebbe modo di purificarsi dall’omicidio della madre e sposare la figlia del re di Psofis, oppure al secondo quando vi tornò a chiedere indietro i doni di nozze. In entrambe le circostanze Alcmeone doveva essere, o fingersi, ancora in preda alla follia, dunque questa avrebbe potuto avere un ruolo importante nella rappresentazione dei drammi. Ma nessuno dei frammenti superstiti ci permette di esprimerci con certezza in tal senso. L’Alcmeone a Corinto stando a quel che dice Apollodoro ( Bibl. III 7, 7 ), che cita come fonte proprio Euripide, doveva narrare il soggiorno a Corinto di Alcmeone presso il re Creonte, al quale aveva affidato i figli avuti nel periodo in cui era folle (

).

La storia dia Alcmeone ha ispirato anche i poeti tragici romani tra cui Ennio. Del suo Alcmeo Cicerone nell’Academica priora ( II 52; 88-89 ) cita alcuni passi, a dimostrazione della tendenza dei folli ad interpretare come reali le riproduzioni della loro mente deviata. Alcmeone, visibilmente in preda alla follia, immagina e descrive le Erinni minacciose, pronte a scagliarsi contro di lui. Se ammettessimo l’ispirazione euripidea dell’Alcmeo di Ennio potremmo ricavare qualche informazione in più sulle probabili scelte di rappresentazione dell’Alcmeone a Psofis di Euripide. I frammenti superstiti dell’Alcmeo ( frr. XV (b) 22-30 Jocelyn ) inoltre mostrano di avere molto in comune con la scena della follia di Oreste descritta nell’omonimo dramma euripideo, della quale parlerò nel capitolo successivo. Potrebbe trattarsi forse di una scena

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sperimentata da Euripide nell’Alcmeone a Psofis, riproposta o rielaborata nell’Oreste ( e poco prima nell’Ifigenia Taurica ), rappresentato trent’anni dopo, e ripresa da Ennio. Dai passi dell’Alcmeo si evince che il protagonista soffrisse di allucinazioni a causa delle quali gli sembrava di vedere le Erinni.6 Queste sono descritte cinte da serpenti: caerulea incinctae angui incedunt ( come in I.T. 286: ;

Or. 256: ), di frequente collegate con l’elemento del fuoco:

circumstant cum ardentibus taedis ( così in I.T. 288: ) e la loro terribile

presenza opprime il matricida: adsunt, me med expetunt ( anche in Or. 257:

).7 Difficile da spiegare invece il passo in cui l’Alcmeone enniano crede di essere minacciato da Apollo con l’arco: intendit crinitus Apollo arcum auratum. Nell’Oreste infatti la situazione è invertita: qui il protagonista vuole difendersi dalle Erinni con l’arco donatogli da Apollo ( vv. 268-269:

/ ). Tuttavia

nonostante l’innegabile somiglianza tra la vicenda di Oreste e quella di Alcmeone non possiamo esprimerci con certezza riguardo al rapporto tra le scelte di rappresentazione delle varie scene di follia euripidee. Né ci si può basare sull’attendibilità enniana, la cui opera potrebbe essere stata frutto di contaminazione, di stravolgimenti rispetto al modello euripideo, o addirittura modellata su un’opera diversa dall’Alcmeone a Psofis / Corinto di Euripide, come sostiene Perrotta secondo il quale per l’Alcmeo Ennio si sia ispirato alla trattazione proposta da Teodette.8

6 A tal proposito è difficile affermare con certezza come fa Mercanti 1915, 73 che nell’Alcmeone a

Psofis il protagonista abbia soltanto delle visioni e che Euripide avesse scelto questa volta di portare

sulla scena una vera Erinni alla maniera di Eschilo nelle Eumenidi, o meno.

7 Mercanti 1915, 73-74, che già si era servita di un frammento superstite dell’ Alcmeone a Psofis

contenente un’implorazione alla madre ( corrispondente al fr. 5 F.

Jouan – H. Van Looy 1998 ) per dimostrare come Alcmeone alla maniera di Oreste fosse vittima di tremende allucinazioni, sottolinea la straordinaria somiglianza tra il fr. XV (b), 23 Jocelyn ( adsunt,

adsunt ; me med expetunt ) e in v. 257 dell’Oreste ( ) e

ritiene perciò che anche l’Alcmeone a Psofis contenesse un verso corrispondente al v. 257 dell’Oreste. Euripide quindi avrebbe avuto presente nell’Oreste il suo dramma giovanile. Tale conclusione, già di per sé molto azzardata, viene contestata da Perrotta 1928, 130 che sottolinea come per la Mercanti soltanto Oreste, non l’Alcmeone di Euripide, avesse delle allucinazioni e di conseguenza è impensabile una corrispondenza tra i versi, aggiungendo poi che a suo parere l’Alcmeo di Ennio non deriva dall’Alcmeone a Psofis di Euripide.

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In sostanza però Il mito di Alcmeone ben esemplifica lo stretto legame che viene ad instaurarsi tra omicidio, follia e vagabondaggio. Ma vorrei soffermarmi un attimo sulle parole con cui Apollodoro descrive la persecuzione di Alcmeone:

( Bibl. III 7, 5 ). Non dice il matricida tormentato dallo spirito dell’uccisa Erifile, come di solito accadeva nei casi di omicidio, bensì della sua Erinni. Si credeva infatti che originariamente l’Erinni incarnasse lo spirito di una persona uccisa e che solo in un secondo momento si sia giunti ad una oggettivazione della divinità.

Le Erinni, antiche e potenti spiriti delle profondità ctonie, figlie della terra e vendicatrici implacabili del sangue versato, fanno parte della schiera di demoni da cui i Greci sentivano d’essere circondati.9

I demoni erano esseri sovrumani, la cui origine è senz’altro anteriore a quella degli dei olimpi. Essi possono essere propizi o malefici, ma tutti sono in qualche modo in rapporto con la terra e con gli inferi, poiché in principio la maggior parte di loro non era altro che lo spirito di un morto. Questa credenza sta dunque alla base della definizione del , noto come «demone della vendetta». Sappiamo che il suffisso - designa l’autore di un’azione, ma l’etimologia di è incerta. Quella comunemente accettata fa derivare il termine dal tema del verbo ( ), «dimenticare». Di conseguenza colui che non dimentica è colui che compie la vendetta.10

9 In Omero il terrore religioso tende ad essere personificato in alcune entità demoniache,

specialmente se legate alla figura di Ares. Si incontrano spesso demoni della guerra e della morte come Phobos, Deimos, Eris che con i piedi cammina sulla terra e con il capo tocca il cielo (

/ Il. IV 440-

441 ). In Esiodo, invece, gli uomini dell’età dell’oro dopo la morte divengono demoni e custodi dei

mortali, a cui donano la ricchezza ( /

Op. 121-122 ). Ippocrate attribuisce ai demoni anche la

capacità di causare diverse malattie, specie quelle psichiche come la pazzia furiosa, l’epilessia e simili. Esse erano dette, a causa della loro presunta origine demoniaca, «malattie sacre», e coloro che ne erano affetti erano indicati come esseri demonici, cioè posseduti.

10

Un’altra etimologia fa derivare dal verbo , «vagare», fondandosi sul continuo

vagabondaggio a cui erano condannati gli assassini a causa del tormento dell’anima adirata. In tal

senso mi sembra significativo il nesso, che ricorre talvolta in tragedia, tra il verbo , una

variante poetica di , e gli attacchi di follia, dove il vagare non è sempre inteso in senso fisico,

ma anche inteso come errare di una mente traviata ( ad esempio in I.T. 284 e Or.

532 ). Tuttavia pur essendo possibile stabilire una connessione tra / e la follia,

(16)

16

non compare mai in Omero, fatta eccezione di Il. IV 295 dove ricorre come nome proprio. E’ invece attestato diverse volte in tragedia. Nell’Edipo a Colono ad esempio Edipo lancia la sua maledizione contro Eteocle, Polinice e Creonte sperando che il suo demone ( ) resti in città a consumare la maledizione dei Labdacidi

( / vv. 787-788 ). Oreste nell’omonima

tragedia euripidea teme di aver ucciso la madre assecondando il volere dell’ , vendicatore di Agamennone, piuttosto che quello di Apollo (

/ . vv.

1668-1669 ).

Talvolta si riferisce direttamente a chi si ritiene responsabile di un omicidio, come nel caso di Oreste in Eum. 236 (

), perché pare attirare il demone della vendetta o perché incarnerebbe egli stesso un demone maligno. Questi due aspetti mi sembrano convergere

nell’interpretazione dell’ data ai vv. 1500-1504 dell’Agamennone

( / /

/ / ).

Dopo aver ucciso lo sposo, Clitemestra individua nell’ l’unico responsabile dell’assassinio. Atreo, commensale crudele, attira infatti sulla sua stirpe il demone della vendetta e paga il fio della sua colpa attraverso la morte del figlio Agamennone per mano della sposa. Clitemestra diviene così uno strumento nelle mani dell’ e l’acquisizione di questa consapevolezza la spinge a negare ogni tipo di responsabilità personale circa quello che è accaduto. Si compie in questo modo la legge per cui un’azione malvagia genera un nuovo male, non solo per il singolo ma per l’intera stirpe a cui appartiene. E l’incarnazione di questo male è in un certo modo proprio il demone , spirito della maledizione e della vendetta. L’ è dunque un demone che porta a compimento la maledizione di una stirpe ed è anche la causa prima della follia che spinge i personaggi tragici a compire azioni tremende.

visto infatti come spesso compaia in contesti in cui risulterebbe arduo accettare

un’interpretazione del termine nel senso di «colui che fa vagare», mentre il concetto di vendetta pare di gran lunga più appropriato.

(17)

17 4. Lex sacra di Selinunte e di Cirene

Un’iscrizione ritrovata a Selinunte ( SEG LXIII, 630 ), risalente alla prima metà del V secolo e pubblicata per la prima volta nel 1993 da M.H. Jameson, D.R. Jordan e R.H. Kotanski,11 è di fondamentale importanza per comprendere alcuni aspetti della religione greca. Il testo è inciso su una lamina plumbea e distribuito in due colonne. Sulla seconda ( colonna B ) è riporta la procedura da seguire nei casi di purificazione di un individuo dall’influsso negativo dell' , un’entità sovrumana della quale proverò a spiegare la natura.

1 2 h ϝ h 3 h h h h 4 h 5 vacat 6 h h 7 8 vacat 9 h h vacat 10 h 11 h 12 h h vacat 13 vacat 14 vacat

Il contenuto sacro dell’epigrafe fa presupporre che questa fosse posta all’interno di un santuario, forse quello dedicato a Zeus Meilichios, posto sulla collina nella parte occidentale della città, divinità alla quale nella colonna A sono rivolti alcuni dei rituali descritti.

11

(18)

18

Questo rito di purificazione era dunque articolato in diversi momenti comprendenti un annuncio formale ( ), nel quale l’individuo illustrava il tempo e il luogo

prescelti per compiere il rito; l’accoglienza ( ) dell’ ( che

doveva essere rappresentato simbolicamente da un piccolo simulacro, come ipotizzano gli editori sulla base del confronto con la lex sacra di Cirene ), al quale vengono offerti cibo, sale e acqua come doni ospitali; il sacrificio di un porcellino a Zeus. Dopo di che l’individuo esce fuori dal luogo in cui ha compiuto l’offerta: soltanto allora potrà prendere cibo, riposare dove vuole e a lui potrà essere rivolta la parola. Nella parte finale della colonna si dice che dopo aver sacrificato una vittima adulta su un altare pubblico il purificato è libero di andar via. Questo secondo rito sembra quasi voler confermare la purificazione già in parte avvenuta attraverso il primo sacrificio privato, come dimostra il fatto che solo al termine di tutti i riti prescritti dalla lex l’individuo è finalmente detto .

Sulla colonna B viene così descritto il rituale di purificazione dall'entità chiamata . L’interpretazione del termine costituisce la chiave di lettura dell’intero testo è attestato soltanto in alcune iscrizioni da Paro dove compare quale epiteto di Zeus ( IG XII 5 1027 ; IG XII Suppl. 200 ). Esso potrebbe essere

sovrapponibile ad / , termine che nella sua forma sostantivata

designa il demone della vendetta che perseguita chi è colpevole di omicidio, e che compare anche come epiteto di Zeus in alcune iscrizioni provenienti dal Thesmophorion di Taso. Robertson invece separa i due termini e attribuisce all’ il carattere di una sorta di nume del fulmine legato a Zeus, una spaventosa forza della natura, concepita come estremamente contaminante. La sua etimologia, separata da quella di è ricondotta al verbo ‘colpire’, e la forma attestata a Paro quale epiteto di Zeus, è ritenuta antecedente a quella di documentata a Taso. Discostandosi dalla lettura tradizionale, egli ritiene quindi che la lex selinuntina ben poco avrebbe a che fare con la purificazione da un omicidio.12

12

Robertson 2010, 230-232. Già dalle prime pagine, Robertson prende le distanze dall'interpretazione corrente secondo cui le misure prescritte nella lex miravano a porre fine allo stato di contaminazione che seguiva un omicidio. Robertson crede invece che il documento vada

(19)

19

A sostegno della sua ipotesi Robertson pone anche la sua interpretazione del termine , un hapax, inteso come colui che si purifica dall’ poiché compiendo il rito uccide con le proprie mani. Il termine è connesso con la radice *werg-/wreg-, che ricorre anche nel verbo , ‘fare, realizzare’, e ciò lo apparenta con . In questo modo il termine riassumerebbe, introducendolo, il rituale descritto alle linee 1-8 e compiuto dall’ . Tuttavia esistono altri sostantivi composti con - connessi con l’area semantica dell’omicidio, come ad esempio o , il cui significato oscilla tra ‘suicida’, ‘uccisore di consanguineo’, ‘uccisore di propria mano’. Sulla base di simili paralleli la Dimartino,13 seguendo l’interpretazione del testo offerta dagli editori, intende come ‘omicida’. E personalmente concordo con questi studiosi nel sostenere che l’individuo a cui si riferisce il testo di quest’epigrafe sia un assassino. Per quanto riguarda la lettura del Robertson, invece, benché in sia insita la nozione di compiere qualcosa da sé e possa talora rinviare ad ambiti sacrificali, queste considerazioni non bastano ad escludere l'ipotesi che il documento faccia riferimento ad un omicidio, tanto più che proprio il culto di Zeus Meilichios è ripetutamente messo in relazione con fatti di sangue, privati e pubblici (ad esempio ad Argo:

Paus. II 20,2 ; ad Atene:

Paus. I 37, 4 ). Credo inoltre, soprattutto sulla base delle testimonianze tragiche e delle somiglianze tra i riti descritti qui nella colonna B e la lex sacra di Crirene, della quale a breve dirò, che gli di cui si parla nella lex sacra di Selinunte siano i demoni vendicatori del morto e persecutori dell’omicida, per liberarsi dai quali l’assassino deve compiere i riti indicati nell’iscrizione. Tra questi vi è, alla linea 5, il sacrificio di un porcellino in nome di Zeus, proprio come Oreste nelle Eumenidi dice di essere

riletto nel quadro di una «agrarian religion», una ‘religione agraria, i cui rituali seguivano l'alternarsi delle stagioni. Ma questo non concorda affatto con le prescrizioni della colonna B in cui si dice che i rituali di purificazione possono essere celebrati in qualsiasi momento

13

(20)

20

stato purificato dal matricidio mediante l’uccisione di un maialino presso l’altare di

Apollo ( Aesch. Eum. 283: ). Questo passo,

insieme a tanti altri, testimonia che il rituale descritto nell’iscrizione da Selinunte sia analogamente relativo alla purificazione di un omicida. Anche l’isolamento dell’individuo a cui la lex pare far riferimento nel momento in cui accenna alla possibilità di ritornare alle consuetudini di sempre soltanto al termine del rito catartico, quali ad esempio dialogare con le persone, ricorda molto quello a cui era condannato un assassino nell’antica Grecia. Questi infatti, sino alla purificazione, era considerato un impuro, il cui contatto con persone o cose era da evitare per scongiurare la contaminazione, . Ed ancora nelle Eumenidi si parla proprio dell’obbligo da parte dell’omicida di rimanere in silenzio sino a quando il sacerdote non lo abbia purificato attraverso un sacrificio di sangue ( Aesch. Eum. 448-450:

/

/ ). Così anche Edipo

nell’Edipo re ordina ai suoi sudditi di non rivolgere parola all’assassino di Laio, di non partecipare con lui a preghiere e riti, ma di tenerlo lontano dalle proprie case e di non offrirgli ospitalità ( Soph. O.R. 236-242:

/ /

/ /

/ /

). E molti altri paralleli potrebbero essere riportati.

Giuliani invece non sembra essere d'accordo col fatto che l'iscrizione di Selinunte si riferisca a riti di purificazione di omicidi. Contesta infatti l'interpretazione degli editori secondo i quali il rituale descritto nella lex viene compiuto in prima persona dall'assassino.14 Questo aspetto, dice, è in contrasto con tutte le testimonianze di cui disponiamo circa la procedura di purificazione relativa ai delitti di sangue. In queste chi necessita di liberarsi da una simile macchia svolge un ruolo alquanto passivo, poiché egli deve necessariamente rimettersi alla volontà e all'intervento di un'altra

14

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21

persona.15 Nel tentare di risolvere questo problema Clinton ha congetturato che nella lacuna alla linea 3 il participio fosse preceduto da un articolo, integrando: ho h ] .16 In questo modo viene introdotta una seconda figura che accoglie l'omicida, gli dà acqua, cibo e sale e permette che possa essere purificato. Tuttavia anche questa ipotesi non è priva di difficoltà. Accettandola risulta poi difficile spiegare il cambiamento di soggetto tra la linea 4 e la linea 5 ; le coincidenze verbali e formali che vi sono, come vedremo, con la lex cirenaica perderebbero valore ; e infine non bisogna dimenticare che, comunque contrariamente ai dati offertici dalla tradizione letteraria, nell'iscrizione il sacrificio del maialino è compiuto da chi deve essere purificato. Perciò credo che, non senza difficoltà, la possibilità che la lex di Selinunte si riferisca alla purificazioni di omicidi possa essere accettata.

Una conferma ulteriore del fatto che la lex sacra di Selinunte descrivesse il rito di purificazione di un omicida è offerta dal confronto con un’altra lex sacra, quella di Cirene ( SEG IX, 72 ). L’iscrizione, divisa in due colonne incise su un blocco marmoreo e risalente alla seconda metà del IV secolo, fu pubblicata per la prima volta nel 1927. L’ultima sezione della colonna B ( linee 110-141 ) è dedicata alla descrizione di alcuni riti di purificazione da tre diverse categorie di . La prima ( linee 111-121 ) e l’ultima ( linee132-141 ) di queste procedure catartiche sono servite ai primi editori della lex sacra di Selinunte come chiave di lettura della loro epigrafe.

110

115

15 Così spiega Parker 1983, 371: «his ( the murderer's ) part is one of complete passivity, since he

cannot purify himself». Chi ha ucciso insomma in virtù della sua condizione di supplice deve sottostare alla legge e all'accoglienza dell'ospite. E' quanto emerge da testimonianze letterarie come ad esempio dalla già citata Aesch. Eum. 283.

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22 ΐ

120

135

140

Innanzitutto credo sia necessario chiarire chi siano gli a cui si fa riferimento nell'iscrizione. La legge raccoglie sotto il medesimo titolo di tre figure, indicandole poi nello specifico come

: dovevano dunque appartenere ad una stessa categoria. E' probabile come sostiene Stukey che il termine si riferisca a spiriti piuttosto che ad uomini.17 Il termine ad esempio, composto di -, sembra suggerire un’azione compiuta in maniera aggressiva, ostile. Il che sarebbe difficile da attribuire all’attività di un supplice ( laddove si intendesse sinonimo di ), meno a quella di qualcosa o di qualcuno che intende nuocere alla casa. Alla luce di questa

interpretazione insieme a e

dovevano fungere da titolo alle rispettive sezioni e dovevano riferirsi agli spiriti persecutori. Nel paragrafo invece le azioni descritte e necessarie da compire per far

17

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23

fronte alla presenza di questo spirito sono riferite alle persone che supplici giungono portando con sé l’ .18

Il primo rituale descrive come sia possibile, ricorrendo all’uso di formule ben precise, liberarsi di uno spirito maligno ( ) inviato contro l'individuo da una persona che può essere viva o morta, nota o sconosciuta. Il primo passo da compiere è pronunciare ( ) il nome dello spirito per tre giorni se lo si conosce, altrimenti si può ricorrere ad un’evocazione più generica (

). Dopo di che è prevista la fabbricazione di figure di legno o di terracotta a cui va offerto un pasto ospitale. Queste statuette di legno o terracotta, che dovevano idealmente impersonare lo spirito maligno, vanno poi abbandonate insieme alle porzioni di cibo offerte in un bosco.

Similmente, come abbiamo visto, il rito catartico descritto nella lex di Selinunte prevedeva un iniziale annuncio pubblico ( ) ed un successivo pasto

ospitale da offrire all’ accolto ( ). Quest’ultimo, in quanto

spirito della vendetta che perseguita il colpevole nell’interesse dell’offeso, doveva dunque svolgere un ruolo molto simile a quello svolto dall’ , lo spirito maligno che infesta la casa nella lex di Cirene.

Il terzo rito descritto nella lex di Cirene interessa invece la purificazione da un , ovvero chi uccide i consanguinei o chi uccide con le proprie mani. Questa sezione doveva dunque, con molta probabilità, avere come soggetto un omicida che esule cerca rifugio in città. Questo rituale presenta alcune somiglianze con quello della lex di Selinunte, le quali confermerebbero che i riti da quest’ultima prescritti fossero rivolti alla purificazione di assassini. Gli editori della lex di Selinunte infatti assimilano l’ all’ dell’iscrizione cirenaica, interpretando così il termine come ‘omicida’. A Cirene viene annunciato l’arrivo del supplice che, dopo essere stato messo a sedere sopra un vello bianco sulla soglia,

viene lavato e unto ( Il vello doveva invece fungere da

raccoglitore delle impurità lavate via ). Anche in questo caso dunque l’avvio del rito è

18 Analoga è la posizione di Parker 1983, 347-349 secondo il quale: «the , therefore,

is not a human suppliant but a demon sent against the house, as Hecate sometimeswas, by an enemy».

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segnato da un annuncio pubblico ( ). Poi inizia una piccola processione per le vie della città, durante la quale ai partecipanti viene imposto il silenzio (

), di certo per evitare di essere contaminati dall’omicida. Similmente a Selinunte all’assassino era concesso proferire parola soltanto al termine del rito, un gesto che testimoniava la sua reintegrazione nella comunità e la fine del suo isolamento. L’iscrizione, della quale è andata persa l’ultima parte, si interrompe nel momento in cui viene dato al supplice l’ordine di entrare in un santuario dove avrebbe avuto luogo il sacrificio purificatore. Mediante il sacrificio cruento il reo espia la propria colpa, paga il suo debito e, nuovamente accolto nella comunità, può tornare a svolgere la sua vita di sempre.

Le somiglianze che emergono dal confronto tra i testi delle due iscrizioni mostrano, anche se non senza difficoltà, come l’ della lex di Selinunte fosse probabilmente uno spirito, e come sia la lex di Cirene che quella di Selinunte avessero come oggetto la prescrizione di riti catartici per gli omicidi.

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Capitolo II

LA FOLLIA DI ORESTE

1. Eschilo. Coefore ( vv. 1021- 1062 )

Abbiamo visto come il furore scatenato da una divinità negli illustri eroi omerici determini un’azione insigne e gloriosa, seppur condotta nel segno di un’esplosione di forza guerriera che genera strage. Nell'Iliade la presenza della divinità contribuisce a creare un’atmosfera di grandiosità e permette di poter distinguere un uomo dagli altri facendogli assumere caratteristiche mirabili estranee al genere umano, facilmente paragonabili a quelle del mondo animale, naturale o divino. Diversamente nella letteratura greca del V secolo a. C. il tema della follia viene affrontato in un’ottica più introspettiva, mettendone a nudo i risvolti dolorosi e consapevoli. La causa scatenante degli accessi continua ad essere rintracciata nell’intervento di una divinità,19 ma gli individui in cui si manifestano non appaiono più come dei privilegiati che possono trarre giovamento da questo furore divino, bensì come reietti piegati dalla sofferenza. Il teatro attico, attingendo al vasto repertorio mitico tramandato dalla letteratura precedente, rappresenta per gli spettatori alcune delle più famose storie di follia quali causa o conseguenza di delitti.

Il primo caso di un simile tipo di follia è quello messo in scena da Eschilo nelle Coefore ( vv. 1021-1062 ). Oreste ha da poco ucciso la madre compiendo così la vendetta del defunto re Agamennone. L’assassinio di Clitemestra, configurandosi nella tragedia come un atto inevitabile e necessario, si colloca all’interno della lunga

19

Come testimonia il catalogo offerto nel trattato di Ippocrate ( Morb. Sacr. p. 360 L. ), che elenca le divinità capaci di scatenare la follia impadronendosi del corpo dei malati. Le malattie mentali, secondo la cultura tradizionale, rientravano nell’ambito della possessione, la cui causa è attribuita all’intervento di forze soprannaturali. Allo stesso modo nell’Ippolito di Euripide, quando Fedra entra in scena e in preda alle allucinazioni crede di essere nei boschi e cacciare cervi sulle montagne, il Coro

interpreta il suo vaneggiare come frutto di possessione divina ( /

/ / / † †

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catena di morti violente che segna la storia della famiglia degli Atridi. Adesso, nell’esodo delle Coefore, Oreste espone al Coro le ragioni che lo hanno spinto a compiere questo gesto e pare aver fretta di farlo. Improvvisamente infatti intuisce la perdita di controllo delle proprie facoltà mentali che lo porta come un auriga a

volgere le briglie fuori dalla pista ( /

/ vv. 1022-1024 ).20 Segue

un’altra immagine dal forte impatto emotivo: la paura è presso il cuore, pronta a

cantare e danzare al suono della rabbia ( /

vv. 1024-1025 ). E’ una descrizione fortemente icastica del turbamento mentale che travolge Oreste nel momento in cui percepisce la gravità del suo essere colpevole e sembra preannunciargli l’accesso di follia che di lì a poco, con la comparsa delle Erinni, si sarebbe scatenato. La paura cui qui Oreste si riferisce è infatti quella che solitamente accompagna la furiosa persecuzione delle dee della vendetta ed assale chi è vittima di accessi di follia. Anche il canto e la danza ricordano tanto quelli che nel primo stasimo delle Eumenidi le Erinni si dicono

pronte ad intonare e ad intrecciare ( /

/ vv. 307-109 ).

Oreste cerca dunque di giustificare il suo gesto finché è ancora cosciente ( v. 1026 ) ed afferma con decisione di aver ucciso non senza giustizia (

v. 1027 ) sua madre, lei che si era macchiata del sangue del padre e da

allora era in odio agli dei ( v. 1028 ).

Opera pietosa è stata perciò la sua. A spingerlo ad agire fu un responso del dio Apollo: la morte della madre, per mezzo della quale avrebbe vendicato il padre, lo avrebbe liberato da ogni colpa: in caso contrario avrebbe patito sofferenze

20 A tal proposito Aélion 1983, 239 nota: « la métaphore de l’attelage suggère à la fois l’idée d’un

mouvement violent et irrésistible et celle d’une déviation hors de la route droite ; Io, de la même façon, se dit ‘emportée hors de sa carrière’, au moment où sa voix et ses pensées s’altèrent, mais, dans son cas, il ne s’agit pas seulement d’une métaphore, puisque, en effet, elle s’enfuit, éperdue, après avoir prononcé ces mots ; c’est, de plus, dans le case d’Oreste, une façon, plus banale que celles que nous avons notées pour Io et pour Héraclès, d’introduire un trait d’ ‘animalité’ au moment où la raison se perd ». Questo ricorso alla metafora ippica ricorda infatti le similitudini che nei poemi omerici permettevano all’esplosione della furia guerriera di assumere i connotati del feroce slancio animalesco.

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indescrivibili ( vv. 1029-1033 ).21 Egli cercava una giustificazione per il suo atto e l’ha trovata, ma questa non gli risparmierà i tormenti futuri. Ora Oreste è pronto a recarsi supplice a Delfi, presso il tempio di Apollo, per essere purificato.

Ma ecco improvvisamente vede le Erinni, mostruose creature simili a Gorgoni di nero

vestite, circondate da serpenti ( /

/ vv. 1048-1050 ). E’

questo il momento in cui Oreste è colpito realmente dalla follia preannunciata ai vv. 1021-1025. Egli è certo che la loro presenza sia reale, il Coro invece crede si tratti piuttosto di illusioni. Eppure Oreste riconosce nelle Erinni le cagne rabbiose della madre e la causa delle sue sofferenze (

/ vv. 1053-1054 ). La loro presenza lo

rende inquieto e in preda all’ansia, che assale chi è vittima di accessi di follia. Desidera fuggire lontano da queste figure che lo perseguitano: realizza che non può

più restare ( v. 1062 ) e di corsa

s’allontana. L’istinto della fuga, insieme alla paura che sorge improvvisa, è un’altra delle caratteristiche ricorrenti degli accessi di follia.

Bisogna a questo punto chiarire in che modo le Erinni abbiano influenzato l’episodio della follia di Oreste nelle Coefore. Sono da intendere come mere illusioni, frutto di una mente allucinata come ritiene il Coro, o reale causa di follia? Abbiamo già notato come i vv. 1021-1025 descrivano l’insorgere di un turbamento interiore nell’animo di un matricida che prende coscienza della mostruosità dell’atto appena compiuto. A questa prima sensazione di smarrimento, preludio di follia, segue poi l’apparizione delle dee della vendetta che dà avvio all’accesso vero e proprio. Oreste è certo di vedere le Erinni perché folle, ma per lo spettatore, così come per il Coro, che resta nel

21

Già in precedenza, quando Oreste accenna ai terribili mali che lo avrebbero tormentato se l’uccisione del paterna fosse rimasta invendicata ( Cho. 269 ss. ), si fa riferimento alla follia mandata

dalle Erinni: / /

( vv. 288-290 ). Notiamo come qui Eschilo ricorra al

termine , che nei poemi omerici abbiamo visto designare la furia guerriera che provoca strage,

per descrivere il concetto di follia, e come introduca nel lessico della follia il verbo

( utilizzato già per la descrizione del delirio profetico di Cassandra in Ag. 1216 ), che anche nell’Oreste di Euripide, vedremo, ricorre ad indicare il turbamento fisico e mentale a seguito di un attacco di follia. Inoltre in questo passo compaiono già i sintomi che caratterizzano do solito gli episodi di follia

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pieno possesso delle proprie facoltà razionali la scena rimane comunque vuota. L’assenza scenica delle Erinni serve perciò a marcare il carattere eccezionale del delirio di Oreste e questo determina una sostanziale lacerazione tra il punto di vista del Coro e quello del personaggio. Il Coro infatti interpreta le visioni relative alle Erinni, di cui Oreste offre la descrizione, come naturale conseguenza dell’alterazione delle sue facoltà razionali, a causa della presenza del sangue materno da poco versato che, ancora sulle sue mani, sconvolge la mente del matricida (

/ vv. 1055-1056 ). Per

questo motivo il Coro reputa le Erinni di Oreste semplici , perché figlie del turbamento di una mente sconvolta. Si è detto come invece per Oreste esse non siano semplici illusioni, ma realtà. Lo dimostra la frequenza con cui in questi versi egli ricorre al dimostrativo ( vv. 1048; 1054; 1057; 1061 ) che, in funzione fortemente deittica, indica qualcosa di realmente presente sulla scena.

Credo sia a questo punto possibile affermare la realtà e la concretezza dell’azione delle Erinni. Esse giungono soltanto per Oreste. Egli è l’autore del matricidio e loro, in qualità di divinità della vendetta, hanno il dovere di punirlo e tormentarlo. Questo è il motivo per cui la presenza delle Erinni è percepita soltanto da Oreste.22 Il loro operato è retto dalla Giustizia e non è altro che l’irrevocabile sanzione divina che presto o tardi si abbatte sul colpevole. Rette testimoni dei morti, le Erinni vengono allora a vendicare il sangue versato. La loro ira infatti, si legge nelle Eumenidi, non assale chi è innocente, ma solo chi, colpevole, nasconde le mani insanguinate. (

22 Concordano con questa analisi Aélion 1983, 247-248 e Solmsen 1949, 186 n. 34, il quale afferma

esplicitamente: «for Aeschylus the Erinyes are real and come for objective, not psychological, reasons». Altrettanto categorica è la posizione di Garvie 1986, 317-318 che a proposito del ruolo delle Erinni nell’esodo delle Coefore dice: «their existence is undoubtedly independent of Oreste’ troubled mind». Garvie critica infatti quanti interpretano le Erinni come mera riproduzione della coscienza di Oreste e dunque come illusioni frutto dell’immaginazione. Perciò, mi pare in maniera assolutamente appropriata, Garvie cita alcuni passi omerici in cui una divinità sceglie di manifestarsi soltanto ad una

persona o ad un gruppo di persone ( Il. I, 198;

/ /

Od. XVI, 159-161 ). Di conseguenza il fatto che Oreste,

a differenza del Coro e degli spettatori, potesse vedere le Erinni, non implica necessariamente che il loro manifestarsi non fosse reale. Inoltre rendendole visibili solo ad chi è stato l’autore materiale del matricidio, Eschilo ha fatto sì che l’isolamento di Oreste fosse enfatizzato e totale: una scelta dal forte impatto drammatico.

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29

/ /

/ / vv.

316-320 ). E l’ira è proprio uno dei tratti distintivi delle Erinni. Già Oreste nelle

Coefore le aveva definite ( v. 1054 ) in virtù della loro

capacità di far avvertire all’assassino l’ira di chi è stato ucciso.

Le Erinni si fanno dunque portavoce di un modello di giustizia per cui la responsabilità di un’azione compiuta è in assoluto più importante di qualsiasi altra motivazione o giustificazione. Il loro compito è perciò quello di punire Oreste in quanto autore materiale del delitto della madre e non sono interessate a comprendere quanta giustezza o pietà possa esserci stata, a detta di Oreste, nel compiere il matricidio. Quest’ultimo scatena i neri demoni punitori del mondo sotterraneo, il cui compito è gettare follia e terrore sui contaminati mediante formule arcaiche che agiscono come incantesimi e fatture. Nelle Eumenidi ( vv. 328-333 ) il

delle Erinni è infatti definito e , delirio e follia appunto per le loro vittime. La follia di Oreste vede quindi l’intrecciarsi di due componenti: una più intima, ovvero sconvolgimento emotivo che lo coglie poco dopo aver compiuto l’omicidio e lo spinge a tentare di giustificare il suo gesto; e l’altra che si identifica con il manifestarsi delle Erinni.23 Lo scioglimento della maledizione che grava sugli Atridi è dunque ancora lontano e Oreste dovrà conquistarlo col dolore e con l’espiazione.

La follia di Oreste si colloca così all’interno di una concezione del mondo in cui accade spesso che l’individuo si trovi a dover compiere una scelta in cui entrambe le alternative comportano un errore o una colpa. In Eschilo inoltre il delitto estendendo la sua contaminazione sull’intera stirpe, colpisce il discendente del responsabile e lo costringe a commettere a sua volta una colpa. Molto sottile è il confine tra l’ineluttabilità del destino e la responsabilità dell’uomo. E la tragedia di Oreste, che

23 E’ questa l’opinione di Aélion 1983, 248: «l’égarement d’Oreste vient à la fois des Erinyes et de sa

conscience» ; e di Mattes 1970, 78 : «nur zwei werden gennannt : die Angst ( 1024 f. ) und die Vision des Erinyen». Personalmente ritengo che sia più funzionale ai fini della tragedia stessa, poiché intensifica l’effetto patetico della scena, interpretare la paura e il turbamento come conseguenti un nuovo ‘strappo nel cielo di carta’, che lo fa vacillare per un attimo di fronte all’orrore del suo gesto e all’impotente confronto con la realtà. Ecco perché Oreste avverte immediatamente, finché la sua mente ancora lucida glielo consente, la necessità di spiegare e giustificare quella morte così cruenta.

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viene ora ad identificarsi con la sua follia, nasce proprio dall’ineluttabile conflitto tra innocenza e colpevolezza. Sarebbe stata cosa empia non vendicare il padre ed era perciò giusto uccidere la madre, ma è vero anche il contrario e l’intervento delle Erinni ne è la dimostrazione. Eschilo tenta, a mio avviso, di superare questa impasse etico-religiosa tramutando lo scontro tra umano e divino in uno scontro tra divinità, che nelle Eumenidi vede le Erinni, dee tutelari dell’antica Giustizia, opporsi ad Apollo, promotore di un nuovo ordine. La perdita delle facoltà mentali che alla fine delle Coefore pare essere imminente non viene in realtà rappresentata sulla scena e Oreste appare lucido e cosciente quando all’inizio delle Eumenidi lo ritroviamo a Delfi dove, supplice presso il tempio di Apollo, gode della protezione del dio. Oreste è stato purificato e non è più folle. Di conseguenza nonostante si trovi al cospetto delle Erinni, il matricida mostra un atteggiamento diverso rispetto al sentimento della paura. Oreste che nell’esodo delle Coefore era in preda al turbamento e al timore che la vista delle Erinni provocava, adesso, rassicurato da Apollo (

Eum. 88 ), non ha più paura. Egli è certo di avere gli dei dalla sua parte perché nell’uccidere la madre ha compiuto un’opera giusta, in linea col volere divino. Ma nelle Eumenidi qualche cambiamento interessa anche le Erinni. La loro presenza non è più percepita soltanto dalla loro vittima, ma chiunque può vederle perché fisicamente presenti sulla scena del dramma.24

Eschilo non ha sviluppato oltre l’esodo delle Coefore l’episodio della follia di Oreste, la cui guarigione, si è detto, è stata affidata all’intervento di Apollo. Tuttavia Oreste giunge alla salvezza soltanto dopo aver fatto esperienza del dolore. Dolore che nasce da un’apparente libertà di scelta. Su di lui grava infatti un destino inesorabile, che non gli concede via di scampo. Il concetto dell’ereditarietà della colpa diviene così il simbolo dell’irrazionalità delle sorti umane, rispetto alla quale gli dei rappresentano

24 Non ci porti questo a pensare che le Erinni fossero fisicamente presenti anche sulla scena finale

delle Coefore. Il testo infatti è molto chiaro sulla questione: il Coro tenta di tranquillizzare Oreste,

perché quel che afferma di vedere sono in realtà , illusioni. Credo infatti che l’essere certo di

vedere ciò che rimane celato agli occhi altrui contribuisce ad una realistica rappresentazione della follia. Dunque Oreste può vedere le Erinni perché è folle, a differenza del Coro, e questa sua visione rientra nei sintomi della follia. Inoltre l’effetto prodotto all’inizio delle Eumenidi dalla terrificante descrizione della Pizia, che segue l’apparizione delle spaventose Erinni, perderebbe di efficacia se le dee fossero state già visibili nell’esodo delle Coefore.

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l’istanza definitiva. Oreste passa da esecutore dell’ordine di Apollo, ad ossessionata vittima delle Erinni. Per questo motivo da una follia che ha un’origine divina si può guarire soltanto grazie all’intervento di una divinità. All’uomo non spetta che accettare le forme in cui il dio sceglie di manifestare la propria potenza e comprendere i limiti della condizione umana.

Se la fuga interrompe nelle Coefore la crisi nascente, all’accesso di follia dedica invece ampio spazio Euripide nella prima parte del suo Oreste. Si tratta dell’unico caso, tra le tragedie a noi giunte, in cui l’attività del folle viene rappresentata direttamente sulla scena.

2. Le Erinni: da Omero ad Eschilo

Stando all’etimologia di ‘Erinni’ proposta da Pausania, queste traggono il loro nome dalla forma aggettivale , un epiteto di Demetra divinità della terra che produce le messi, derivante a sua volta dal verbo di origine arcadica che significa proprio ‘essere in furia‘ ( VIII, 25, 6 :

). E’ una testimonianza che si trova in sintonia con l’origine ctonia delle Erinni e con la loro natura irosa, caratteristica che, si è detto, è loro peculiare. Tuttavia questa connessione etimologica da sola non basta a spiegare in maniera determinante ed esaustiva l’origine delle loro molteplici prerogative. Nel corso dei secoli infatti l’attività delle Erinni ha assunto di volta in volta caratteristiche differenti.

Nei poemi omerici le Erinni sono spiriti della vendetta collegati, talvolta mediante lo strumento della maledizione, alla punizione di colpe di vario genere. Nel nono libro dell’Iliade le Erinni vengono invocate, insieme alle altre divinità del mondo sotterraneo Ade e Persefone ( e questo accostamento non fa che evidenziare l’origine ctonia delle Erinni ), prima dal padre di Fenice, il quale maledice il figlio traditore

( Il. IX 454 ), poi da Altea per

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Il. IX 571-572 ). Nel quindicesimo libro dell’Iliade invece Iride ricorda a Poseidone il ruolo delle Erinni nella difesa dei diritti

dei più anziani ( Il. XV 204 ).

Nel secondo libro dell’Odissea Telemaco nega di poter allontanare Penelope dalla sua casa, perché altrimenti la madre invocherebbe le Erinni odiose (

/ Od. II 135-136 ). Addirittura nel

diciassettesimo libro dell’Odissea Odisseo parla delle Erinni come divinità tutelari dei

diritti dei mendicanti ( Od. XVII 475 ). L’insieme di

questi passi mostra chiaramente come in Omero le Erinni sostenessero chi rivendicava la propria posizione nella società e nella famiglia. Il genitore, il fratello maggiore, il mendicante e chiunque fosse soggetto di un diritto, poteva invocare le proprie Erinni in sua difesa.

Questa concezione delle Erinni come ministre di Giustizia deriva probabilmente anche dalla loro identificazione con le Moire, le divinità del fato. Nel diciannovesimo libro dell’Iliade le Erinni fermano la voce del cavallo Xanto dopo che questi ha

predetto ad Achille la morte ( Il.

XIX 418 ). Il cavallo si rende in questo modo portavoce della Moira, che qui si identifica con le stesse Erinni, le quali negano al cavallo la capacità di parlare soltanto dopo che la sorte di Achille è stata predetta.25 Sempre nell’Iliade Agamennone, riferendosi all’offesa recata ad Achille, rintraccia in Zeus, nella Moira e nelle Erinni

la causa del suo errore ( /

Il. XIX 86-87 ). Esiodo invece ci mostra come l’origine ctonia accomuni le Erinni e le Moire, figlie di Gea le prime (

25

L’intervento delle Erinni che ferma la voce di Xanto è di solito spiegato con un frammento di Eraclito in cui si dice che le Erinni punirebbero anche il Sole se trasgredisse la sua misura andando oltre il compito assegnatogli:

( fr. 94 Diels-Kranz ). Stando a questa proposta di lettura le Erinni intendono impedire al cavallo di parlare e andare oltre l’ordine naturale delle cose, poiché non è secondo la Moira che gli animali parlino. In realtà Xanto ha ormai detto quanto doveva dire e di conseguenza il divieto delle Erinni si spiegherebbe all’inizio e non al termine della predizione. Tuttavia la testimonianza di Eraclito, pur non essendo la corretta chiave di lettura per il passo del diciannovesimo dell’Iliade, dimostra come alla fine del VI secolo a.C. le Erinni fossero rappresentanti della legge e ministre di giustizia.

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