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Per quanto riguarda il personaggio di Penteo è possibile individuare due diversi tipi di follia: la prima è una follia prettamente umana, una follia della ragione, che induce il personaggio ad assumere un atteggiamento tracotante nei confronti della divinità e a negare così il potere di Dioniso ; la seconda è invece la follia provocata dal dio stesso,

90 Questo mito di follia presenta alcuni elementi tipici, ricorrenti nella letteratura e nelle leggende,

caratterizzanti il modello tradizionale di pazzia e della sua cura. Il disturbo mentale appare infatti prodotto da un’offesa al sacro e la follia si configura come una forma di punizione determinata dalla divinità che ha subito il torto. Esso manifesta i sintomi tipici delle malattie mentali, posti al limite della sfera di competenza medica e quella religiosa, quali l'irrequietezza, le urla indistinte, l’impossibilità di risiedere presso una comunità e la conseguente fuga in luoghi remoti dove il folle si rifugia per dare libero sfogo alla propria frenesia (

Morb. Sacr., p. 358 L. ). Ma nel momento in cui Melampo cura con riti magici il

disturbo mentale, questo viene automaticamente trasferito nella sfera del sacro e la malattia si carica di valori religiosi divenendo a tutti gli effetti un’esperienza soprannaturale, che non ha nulla a che vedere con una patologia medica.

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la quale porta alla luce i desideri più profondi di Penteo. La sua colpa nei confronti degli dei sta dunque, alla maniera di Ippolito, nel non curarsi della potenza divina. Penteo è convinto che il culto di Dioniso minacci l’ordine e i valori della città, perciò considera proprio dovere resistere ad una simile eversione. Tra le principali accuse mosse dal sovrano di Tebe alla nuova religione dionisiaca vi è quella che critica la sfrenata licenza che essa favorisce nelle donne ( /

/ /

/

vv. 219-223 ). Il riferimento al vino e al trovarsi piacevolmente in compagnia di giovani di sesso maschile sta alla base dell’impudico comportamento delle donne sul Citerone duramente criticato da Penteo.91 Allo stesso modo assume una connotazione negativa e quasi maliziosa l’ , che invece per le osservanti del culto dionisiaco era una condizione di essenziale importanza, poiché rappresentava il concreto abbandono delle convenzioni della società cittadina e l’adesione ad un nuovo ideale di vita, più semplice e selvaggio. E proprio per questa sua avversione al culto dionisiaco che la Corifea accusa Penteo di empietà:

( v. 263 ) e ricorrendo al plurale , che ha un effetto generalizzante, dona maggiore enfasi alla sua critica. Empietà che ironicamente si traduce nell’incapacità del sovrano di vedere e riconoscere nello straniero catturato il dio Dioniso in persona (

v. 502 ).

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Ma il Dioniso che Euripide porta sulla scena non è semplicemente la divinità del vino. Contrariamente a quel che pensa Penteo il furore che possiede le Baccanti sul Citerone non ha nulla a che fare con l'ebbrezza: soltanto lui insinua che le menadi si ubriachino. In realtà esse, oltre a non assumere gli atteggiamenti sconvenienti che Penteo attribuisce loro, sono sobrie e sono solite dissetarsi con latte e miele, come precisa il Messaggero più avanti (

/ / /

vv. 685-688 ; /

/ /

vv. 708-711 ). Inoltre Tiresia, intervenendo in difesa del dio Dioniso e lodando i benefici che il vino dona agli uomini poiché contribuisce ad alleviare le loro pene

( / /

/ vv. 282-285 ),

definisce maggiormente la sua posizione antitetica rispetto a quella del sovrano. La gretta ed arrogante ostinazione fondata su falsi miti condanna così Penteo ad una tragica solitudine spirituale.

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Più volte la follia umana di Penteo viene stigmatizzata dagli altri personaggi del dramma. Agli occhi di quanti hanno compreso la temibile grandezza di Dioniso e perciò si fingono suoi seguaci, come Tiresia e Cadmo, Penteo appare chiuso nella sua ostinazione, un uomo che pur essendo dotato di ragione, sragiona (

v. 332 ). Lapidario è il commento di Tiresia sui giudizi espressi da Penteo circa la divinità di Dioniso:

/ ( vv. 268-269 ). La

sfrontatezza del re fa sì che egli risulti un cattivo cittadino poiché privo di raziocinio. Quella che egli è convinto di possedere non è infatti vera saggezza (

/ ( vv. 311-312 ), perché non è da saggi

opporsi agli dei. Perciò Tiresia non intende farsi persuadere dai discorsi di Penteo, non intende combattere contro gli dei (

v. 325 ). L’indovino argomentando in maniera lucida e razionale la sua difesa in favore di Dioniso, critica con profonda amarezza l’atteggiamento derisorio del suo re nei riguardi del dio e ad esso contrappone la sua corretta capacità di valutazione. Il sovrano di Tebe insomma più che ad ergersi a paladino della razionalità è il rappresentante della sua crisi. In una simile circostanza la condizione di Penteo non

può che essere definita : /

( vv. 326-327 ) ;

( v. 359 ). E sulla stessa linea si pone anche l’opinione del Coro che commenta così la posizione del sovrano di Tebe: /

( vv. 374-375 ). La follia di Penteo non è possessione divina ma . Col suo modo di porsi nei confronti della divinità Penteo si contrappone perciò in quanto colpevole ad innocenti come Eracle e Fedra. Il suo atteggiamento, la sua lucida fermezza e la sua umana follia lo rendono invece più simile al tracotante Aiace che più volte osò mettere in discussione la potenza divina e rifiutarne apertamente l’aiuto. Penteo è un personaggio pieno di contraddizioni e di debolezze tipiche dell’uomo. E Dioniso è abilissimo a coglierle e a servirsi di esse per sedurlo ed annientarlo. Durante il colloquio col dio, che ricordo veste i panni di uno straniero seguace di Dioniso, assistiamo al progressivo passaggio del re dalla follia umana della ragione a quella divina. Questo incontro porta alla luce l’inconscio desiderio di Penteo di

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conoscere i segreti delle Baccanti e questa sua smania di conoscenza si traduce ben presto in rovinosa follia. Ad ispirare il suo delirio è proprio Dioniso. Anche in questo caso un’interiezione fuori metro ( v. 810 ), pronunciata dallo straniero, marca il momento in cui Penteo comincia ad essere travolto dalla follia divina. Da questo momento infatti prende avvio la trasformazione sempre più esplicita ed inquietante del personaggio. Così Dioniso alletta il re con la promessa di condurlo ad osservare di

nascosto le azioni delle Baccanti ( v.

811 ; v. 819 ) e lo confonde con sinistre

parole che Penteo intende come promesse di trionfo, ma che in realtà costituiscono un annuncio di morte. In uno scambio di battute cariche di forte ironia tragica lo stesso Penteo allude inconsapevolmente al presagio della propria morte (

v. 814 ), e Dioniso lo ribadisce con una voluta ambiguità

( v. 815 ). Il dio dunque mostrandosi più

accondiscendente e comprensivo, proponendosi quale consigliere e guida del re, affascina Penteo e fa sì che la sua ferma razionalità si indebolisca via via.

Lo scopo di Dioniso è quello di portare a termine la propria vendetta e punire Penteo

come merita ( /

vv. 847-848 ). Ma prima che muoia, Dioniso desidera che Penteo si umili e che venga deriso, nella maniera in cui aveva osato prendersi gioco del dio. Ricorrendo alla follia infatti Dioniso induce il re ad accettare di travestirsi da donna, gesto con cui egli giunge al culmine della sua degradazione (

/ /

/ /

/ vv. 850-855 ).

Penteo inconsapevolmente si prepara dunque a divenire vittima sacrificale del dio che lo condanna a pagare con la vita il prezzo della sua colpa: in questo modo imparerà

quanto è grande la sua divina potenza ( /

/ vv. 859-861 ).

L’uso metaforico di in relazione a ( v. 850 ) è tipico di Euripide: lo abbiamo già incontrato in precedenza nelle Baccanti al v. 359 riferito alla follia

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umana di Penteo, mentre nell’Oreste ricorre a descrivere lo stato d’animo di Elettra quando viene a sapere che il fratello verrà condannato a morte (

/ vv. 1020-1021 ). La leggera

follia, v. 851, che Dioniso intende ispirare a Penteo proiettandolo, in qualche misura, nella dimensione dionisiaca, non è da intendersi come ‘lieve’, ma piuttosto come una follia che determina in lui il sorgere di fugaci visioni che mutano

la sua percezione della realtà.92 Il nesso ( v. 853 )

richiama invece alla mente l’immagine dell’auriga che volge il carro fuori dalla pista elaborata da Eschilo nella scena della follia di Oreste nell’esodo delle Coefore, quando il folle sente di essere sul punto di perdere il controllo delle proprie facoltà

mentali ed afferma: /

/ ( vv. 1022-1024 ).

Dioniso ha attratto a sé Penteo facendolo sprofondare nel vortice della pazzia. La follia divina mette a nudo l’estrema fragilità del personaggio di Penteo che si rivela scisso e sdoppiato nella sua volontà. Il travestimento rappresenta così la realizzazione concreta della frammentarietà della sua personalità. Il sovrano arrogante ed intransigente, che nella prima parte del dramma temeva e biasimava la comunità di donne stabilitasi sul monte Citerone dopo aver abbandonato le proprie case, ha assunto ora egli stesso le sembianze di una di quelle donne folli. Penteo ha ormai compiuto il passaggio dalla iniziale follia umana, data dall’illusione di saggezza, lasciandosi quasi volutamente coinvolgere nella follia di Dioniso. E le parole pronunciate dal dio nel momento in cui invita Penteo a rivelarsi nel suo nuovo abbigliamento, evidenziano molto chiaramente la natura del desiderio inconscio e

rimasto celato sino ad allora del re: /

/

/ /

( vv. 913-917 ). E questa trasformazione esteriore non è altro che la testimonianza concreta della sua trasformazione interiore. I due diversi tipi della follia di Penteo presentano così un comune denominatore: la volontà, repressa in un primo

92 Così Dodds 1953, 171 interpreta il nesso come: « a madness of inconstancy, ‘a

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momento e poi venuta alla luce, di poter osservare da vicino i riti delle Baccanti. L’iniziale estrema avversione per questo genere di culto cela in fondo una profonda attrazione e curiosità verso lo stesso.93 E’ questa la disfatta di Penteo e il trionfo del dio. Il travestimento lo fa regredire dall’iniziale condizione di sovrano rispettabile, trasformandolo in un essere privo di identità, che non è donna e neppure uomo. Una volta assunte le sembianze di una baccante il re è semplicemente uno sventurato che si mette al servizio di Dioniso, in quanto ben presto verrà sacrificato in suo nome. Avviene quindi un ribaltamento della situazione di partenza. In un certo qual modo adesso il prigioniero, la vittima, è Penteo mentre Dioniso ha assunto i tratti autoritari che erano propri del re nella prima parte del dramma, come dimostrano i numerosi imperativi e le espressioni di necessità a cui d’ora in poi il dio ricorrerà sovente

( come già al v. 914: ).

Quando ricompare sulla scena, dalla quale si era allontanato per travestirsi, Penteo non è più lo stesso. Nel suo abbigliamento ed atteggiamento dà prova della leggera follia ispiratagli da Dioniso. L’onnipotenza divina ha saputo piegare ed umiliare la ragione umana. Lo spirito di Penteo è profondamente confuso. Egli crede di vedere

due soli ( v. 918 ), due città di Tebe

( v. 919 ) e gli pare che Dioniso, duplicatosi anche lui, abbia

assunto le sembianze di un toro ( /

vv. 920-921 ).94 E per certi aspetti le visioni di

93 E’ questa l’interpretazione del personaggio di Penteo proposta da Winnington-Ingram 1948, 103

ss. secondo il quale la follia che emerge in lui lascia appunto intravedere, nel carattere di questo rigido difensore della moralità, gli stessi tratti che rimprovera alle Baccanti e al loro dio. In questo modo il dio che Penteo proclama di voler combattere è in realtà parte intergrande di se stesso. Si tratta, a mio avviso, un’interpretazione molto affascinante e in linea con la confusione tra realtà e apparenza, un tema che percorre l’intera tragedia.

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Commentando questi versi Dodds 1953, 182 ne propone una suggestiva lettura. Come nella visione del sole e di Tebe anche in questo caso Penteo vedrebbe due figure: uno straniero, nelle sue sembianze umane, ed un altro simile ad un toro per via delle corna sul capo. L’immagine del toro che qui a Penteo pare di vedere è in realtà Dioniso stesso. Più volte nel corso della tragedia si fa riferimento alla capacità del dio di assumere diverse forme animali quali quella di leone, serpente o toro appunto. E già in precedenza Dioniso aveva riprodotto la sua immagine taurina ingannando Penteo che era invece convinto di averlo imprigionato:

/ vv. 618-619 ). Simili

visioni sembrerebbero frutto di una mente alterata dall'effetto dell'alcool, eppure si tratta della sinistra epifania del dio in una delle sue forme ferine. Attraverso questa sorta di allucinazione Penteo

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Penteo riflettono un’effettiva dicotomia del reale. Da quando Dioniso è giunto a Tebe infatti la città è doppia, è spezzata, divisa fra quanti vivono in città conducendo la vita di sempre e quante dimorano ormai sul Citerone, divenuto il regno della follia dionisiaca. Il culto di Dioniso crea in effetti un mondo altro, diverso, rispetto a quello costituito della città e fondato su specifiche norme e ruoli ben definiti. A Tebe si distinguono dunque quanti riconoscono la potenza di questo nuovo dio e quanti tentano ancora di opporsi ad essa. Attraverso le visioni provocate dalla follia di Dioniso Penteo riesce a scorgere in maniera più nitida i contorni di questa duplice realtà. Allo stesso modo la visione del toro si configura anch’essa come una sorta di intuizione della forza dionisiaca e della sua capacità di assumere sembianze animali. Attraverso queste immagini Dioniso mostra a Penteo la realtà della sua potenza, la realtà della sua natura divina. E' come se servendosi della follia il dio abbia cercato di rendere Penteo partecipe di una forma di conoscenza altra, più vera, contrapposta a quella ricercata e prospettata erroneamente dalla ragione.

Questa scena mostra chiaramente come la follia di Penteo sia molto differente da quella degli altri folli tragici. Essa non presenta i sintomi tipici dell’accesso, come ad esempio gli occhi stravolti o la bava alla bocca che invece altrove ricorrono a descrivere le scene di pazzia; le allucinazioni di cui soffre non mostrano un mondo inesistente o alterato, ma illustrano l’esistenza di una realtà divina, una realtà altra, che lui nella sua follia umana sino ad allora non riusciva a scorgere, poiché si rifiutava di accettare l’origine divina di Dioniso; Penteo non assume neppure i comportamenti tipici del folle, non perde il contatto con la realtà e con quanti lo circondano. In questo caso infatti la follia non interviene ad alterare radicalmente le facoltà mentali del personaggio, ma fa semplicemente emergere i desideri più nascosti dell’animo di Penteo. Il re si rivela così essere inconsciamente sedotto dai misteriosi riti delle Baccanti, gli stessi che all’inizio del dramma si dichiarava ostinato a combattere, ed è ansioso di saperne ancor di più.

Ora che anche Penteo è stato assorbito nell’orbita della follia dionisiaca, il dio gli è favorevole ed egli può vedere finalmente la realtà:

/ ( vv. 923-924 ), chiosa

riesce realmente a vedere la vera natura dello straniero che gli sta di fronte. Non si tratta perciò di una illusione, ma di una sfaccettatura del reale.

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con profonda ironia Dioniso. Ed altrettanto piena di inconsapevole tragica ironia suona la battuta di Penteo mentre lascia che Dioniso sistemi il suo addobbo da

baccante al v. 934: Il re ha mutato nel

profondo il suo modo di porsi nei confronti di quel mondo e di quegli atteggiamenti che in precedenza aveva condannato stigmatizzandoli come diversi ed altri (

v. 944 ). Adesso è lui stesso che gioca a fare la baccante e si diverte ad imitarne i movimenti. E sempre con ironica ambiguità invertiti appaiono anche gli stati di sanità, lucidità mentale e di malattia, follia: il sovrano di Tebe prima era malato, ora è come dovrebbe essere ( /

vv. 947-948 ). In questa sua nuova condizione Penteo si sente pervaso da una straordinaria forza grazie alla quale è convinto di poter compiere mirabili imprese (

/ vv. 945-946 ;

v. 962 ), proprio come Eracle che durante il suo accesso di follia immaginava di dover abbattere le mura di Micene (

/

/ /

vv. 943-946 ). Penteo è ormai caduto nella rete preparata abilmente per lui da Dioniso e con grottesco ribaltamento della situazione delineatasi all’inizio della tragedia tra i due sembra esservi ora molta complicità (

/ vv. 939-

940 ). E’ una situazione analoga a quella messa in scena da Sofocle nel prologo dell’Aiace. Anche in questo caso il personaggio, reso folle dalla dea Atena, si illude

di poter godere del suo appoggio ( /

/

Soph. Ai. 91-93 ; /

Soph. Ai. 116-117 ). Ma in entrambi i casi il dio, servendosi della follia, trama ai danni del proprio nemico. Anche Penteo, come già Aiace, viene ingannato con il falso annuncio e progetto della vittoria (

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v. 972 ). Così le Baccanti, insieme a tutti gli altri drammi che trattano di follia, si configurano in sostanza come la tragedia di una vendetta.

A questo punto Penteo vinto e umiliato si avvia verso il Citerone dove si compirà il suo destino.

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