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L’explicit della Tavola Ritonda toscana: un epilogo che si fa catalogo

Il dittico proemio-congedo nella tradizione italiana del Tristan en prose

6. La Tavola Ritonda

6.3 L’explicit della Tavola Ritonda toscana: un epilogo che si fa catalogo

L’epilogo della Tavola Ritonda è esemplato sulla conclusione della Mort le roi Artu294 , l’ultima branche del ciclo del Lancelot-Graal. In tal modo il finale della Tavola si impadronisce di una clôture che, per quanto accorciata e manipolata, è dipinta con le tinte forti proprie alle atmosfere apocalittiche. Nel crepuscolo del disastro finale, la cavalleria errante ha esaurito la propria spinta propulsiva con la morte di Tristano e la dipartita di molti altri nobili cavalieri, e si consuma lentamente nella consapevolezza di una impossibile rigenerazione. Il re Artù è afflitto nel vedere infrangersi il sogno della Tavola Rotonda, e si dispera Lancillotto, al quale non resta che far «sopellire tutti i morti» della battaglia finale contro Mordret, assistere alla morte del sovrano e della amata Ginevra e indossare i nuovi funerei panni del «più gramo cavaliere del mondo»295, per poi decidere di trascorrere gli ultimi anni in penitenza scontando i propri peccati nel confortante abbraccio della fede. È con la morte di Lancillotto che si interrompe definitivamente la centenaria tradizione dei cavalieri erranti, e viene meno la possanza della Tavola Rotonda dal momento che «non si trovò chi dopo volesse mantenere né conservare la simile usanza; e non trovava chi si mettesse in avventura per diliberare sé né altrui: anzi, tutta gente che rimase dopo la morte dello re Artù, si abbandonaro la città di Camellotto e le contrade, e ciascuno abbandonò e tornò in suo paese»296. Al cospetto della diaspora della societas arturiana e di fronte alla trasformazione di Camelot in una città fantasma, non è più possibile alcuna translatio e al compilatore non resta altro da fare che portare a termine il suo lavoro e congedarsi dai lettori.

294

La Mort le roi Artu, §§ 196-204.

295 Tavola Ritonda, § CXLV, p. 543. 296 Ivi, p. 544.

E qui pone fine il nostro libro e a tutte storie e cavallerie ed avventure e battaglie e torniamenti che fatte furono per li cavalieri erranti. E imperò che ci à dimostrati, sì come dello re Uterpandragone, il quale portava l’arme a scacchi a oro e azzurri, e chi dice che portava il campo azzurro e le stelle a oro, rimase lo re Artus; e dello re Bando di Benoiche, lo quale portava il campo d’argento con due bande vermiglie, rimase messer Lancialotto e suo lignaggio: e dello re Meliadus di Leonis, lo quale portava il campo azzurro con una banda d’argento con uno fregetto d’oro da ogni lato della banda, e chi dice che portava uno leone a oro, rimase messer Tristano: e dello re Scalabrino, lo quale portava le segne tutte nere, rimase Palamides: e dello re Lotto, il quale portava il quartiere bianco e rosso rimase messer Calvano e Gravano e Gariette e Gariesse: e dello re Polinoro, il quale portava il campo bianco e ’l monte nero, rimase messer Prenzivale e Lamorotto e Landriano e Agrovale: e dello re d’Orbelanda rimase Brunoro lo Nero e Dinadano e Daniello, e quelli portavano il campo a oro e un serpente verde. E così tutti altri cavalieri della Tavola Vecchia e della Tavola Nuova, ciascuno portava sua arma per sé. E ora nostro libro fa punto e pone fine, alla Iddio grazia, per omnia secula seculorum, amen.

Qui finisce questo libro della Tavola Vecchia e Nuova. Amen297.

Si noti innanzitutto la chiusura ciclica della Tavola Ritonda, segnalata con forza attraverso la citazione nell’epilogo («e qui pone fine il nostro libro e a tutte storie e cavallerie ed avventure e battaglie e torniamenti che fatte furono per li cavalieri erranti»), calco diretto della formula con la quale il libro si era aperto nel prologo («ch’esto libro brievemente conta e tratta e divisa di gran battaglie e di belle cavallerie e di nobili torneiamenti»). La fine del libro coincide con la fine della saga: non esiste nulla che vada al di là del libro. Gli attori che hanno recitato in questa rappresentazione, quasi come a teatro, possono allora essere chiamati sulla scena e fatti sfilare davanti agli spettatori. L’epilogo diventa allora catalogo, con tanto di specchietto riassuntivo dei più importanti cavalieri, ai quali si associano i rispettivi stemmi e dei quali si approntano dei piccoli alberi genealogici per illustrare le relazioni di parentela tra vecchia e nuova generazione. L’effetto di questa passerella conclusiva è ancora una volta illusorio; a leggere solo l’epilogo, infatti, parrebbe che tutti i personaggi elencati abbiano goduto dello stesso risalto. L’explicit reduplica così la finzione della complétude esibita nel prologo. L’ossessiva presenza di un tale obiettivo è ancora più evidente se leggiamo la conclusione del ms. senese, che viene riportata da Polidori:

Et ora el nostro libro pon fine alaleggenda di misser tristano et de la distruzione del Re Marco di cornovaglia et del Re artu dela cipta di chamellotto e de chavalieri erranti dela tavola ritonda e delladventure del sangradale e aongni altra storia scritta in questo libro dal principio insino alafine innelquale libro contiene partitamente meglo la storia et più

copiosamente che nissuno altro libro che di tale storia facci memoria et di misser tristano di lionis figliuolo che fu dellalto Re meliadus. Amen. Deo grazias. finis. amen. finis298.

Nel Senese affiora con maggiore evidenza la dimensione agonistica del progetto culturale che informa la Tavola Ritonda («innelquale libro contiene partitamente meglio la storia et più copiosamente che nissuno altro libro che di tale storia facci memoria»), finalizzato a dare lustro alle leggende arturiana e tristaniana racchiudendole nel più grande “contenitore” narrativo mai approntato. Il compilatore sembra arrogarsi il diritto di presentare il suo rimaneggiamento come la summa perfetta, in grado di mantenersi in perfetto equilibrio tra due opposti apparentemente inconciliabili: raccontare brievemente, come annunciava nel prologo, le meravigliose avventure della Tavola Rotonda, di Tristano e della ricerca del sacro Graal, facendole confluire in una narrazione che conterrà «partitamente meglio la storia et più copiosamente».

L’epilogo accolto nell’edizione Polidori si fa specchio miniaturizzato dell’ansia classificatoria che informa la Tavola Ritonda e che, come vedremo, costituirà una delle cifre essenziali del suo enciclopedismo. Inoltre, nell’explicit toscano si riscontra l’amplificazione di un tratto ricorrente e originale nella riscrittura operata dalla Tavola Ritonda, e cioè la sua predilezione nei confronti dell’araldica. M.-J. Heijkant, sulla scia dei fondamentali contributi di F. Cardini299, ricorda come questa inclinazione abbia una sua precisa radice storica nel contesto della civiltà comunale toscana: «oltre ai colori pieni e alle figure del sistema araldico “arcaico” o “ludico” sono presenti alcune combinazioni di colori, oro-azzurro e argento- vermiglio, preferite dai Fiorentini quando nel XIV secolo cominciarono a elaborare un sistema araldico familiare»300. L’araldica immaginaria presta dunque il fianco a quella reale, e questo fin dalle manifestazioni letterarie della Francia del XII secolo301: qui la coerenza e la

298

Ivi, p. 545.

299

F. Cardini, Concetto di cavalleria e mentalità cavalleresca nei romanzi e nei cantari fiorentini, in I ceti

dirigenti nella Toscana tardo comunale. Atti del III convegno (Firenze, 5-7 dicembre 1980), Monteoriolo,

Francesco Papafava, 1983, pp. 157-192: «nel corso del Trecento si assiste a una complessa elaborazione araldica, evidentemente promossa da famiglie che senza dubbio non erano in grado di vantare – neppur surrettiziamente – nobile prosapia, ma alle quali […] erano necessarie comunque l’arme e la dignità cavalleresca se non altro allorché accettavano di ricoprire incarichi pubblici fuori della loro città» (ivi, p. 163).

300 M.-J. Heijkant, Introduzione, p. 11. Casi analoghi dell’utilizzo encomiastico dell’araldica per celebrare una

determinata famiglia si possono ritrovare anche in altri Tristani italiani, per esempio nel caso delle cosiddette coperte Guicciardini (P. Rajna, Intorno a due antiche coperte con figurazioni tratte dalle storie di Tristano, in «Romania», 42, 1913, pp. 517-579; rist. in Id., Scritti di filologia e linguistica italiana e romanza, III, Roma, 1998, pp. 1547-1614) o a proposito delle insegne dei Gonzaga nel Tristano Palatino.

301

M. Pastoureau, Les armoiries de Tristan dans la littérature et l’iconographie médiévales, in «Gwéchall», 1, 1978, pp. 9-32, ricorda che quest’uso risale fino ai romanzi antichi (Roman de Troie, Eneas, Roman de Thèbes) e alle opere di Benoît de Sainte-Maure. Fondamentali per lo studio dell’araldica sono molti dei suoi contributi: Le

bestiaire héraldique au Moyen Age, in «Revue française d’héraldique et de sigillographie», 41, 1972, pp. 3-17; Les Armoiries, Turnhout, Brepols, 1976; Armoiries et devises des chevaliers de la Table Ronde. Etude sur l’imagination emblématique à la fin du Moyen Age, in «Gwéchall», 3, 1980, pp. 29-127; L’Hermine et le Sinople. Etude d’Héraldique médiévale, Paris, Le Léopard d’Or, 1982.

ripetitività degli stemmi dei cavalieri sono alcuni degli elementi iconografici che contribuiscono all’edificazione del mito degli eroi arturiani e tristaniani. Anche l’araldica – spia rivelatrice dei costumi e delle mode culturali di una società come quella medievale che ama “giocare” ai cavalieri anche al di fuori dei libri – può dunque diventare un utile terreno di confronto intertestuale. Nella Tavola Ritonda gli stemmi si prestano principalmente a farsi immagine viva dei rapporti di parentela, raccogliendo sotto un unico simbolo, in una ideale continuità, i padri e i figli, i cavalieri della Tavola vecchia e della Tavola nuova. D’altra parte questa sorta di catalogo illustrato sembra quasi la prefigurazione di quegli armoriaux des chevaliers de la Table Ronde302, compilati in Francia a partire dalla seconda metà del XV secolo. Gli armoriaux sono raccolte a vocazione araldica che rappresentavano, sul versante iconografico, degli «aides-mémoires ou des livres de modèles destinés aux enlumineurs des ateliers parisiens et de la France du Nord, qui devaient illustrer pour une riche clièntele d’innombrables manuscrits des romans de la Table Ronde, principalement le Lancelot en prose et le Tristan en prose»303, mentre, su un piano più strettamente narrativo, decidono di adottare una modalità biografica per raccontare di Artù e della sua corte, riorganizzando dunque «la masse de la matière arthurienne en micro-récits maniables»304.

Uno dei codici della Tavola Ritonda, il ms. Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vaticano latino 6789, datato 1422, tramanda in appena due carte (57r-59v305) la sezione conclusiva della Tavola Ritonda toscana, riguardante la morte di Tristano e la vendetta che segue alla sua scomparsa. Ulteriore conferma della circolazione autonoma di questa specifica porzione del romanzo, il codice306 – del quale D. Delcorno Branca non è ancora a conoscenza quando stese nel 1968 l’inventario dei manoscritti della Tavola Ritonda che ci sono pervenuti – dovrebbe essere il volume utilizzato come testo di base per la stampa ottocentesca Morte di Tristano e della reina Isota descritta per Ventura de Cerutis, pubblicata e annotata per cura di Giovanni Cassini ed intitolata a Miss Elena Gladstone, Parigi, Stamperia della Dama Lacombe, 1854. La notizia di questa stampa è diffusa da F. Zambrini307, il quale ipotizza che possa trattarsi di «un frammento di un’opera più grande, di cui meglio che autore Ventura de’ Cerutis è da giudicarsene volgarizzatore»308. L’editore ottocentesco, Giovanni Cassini, non esplicita quale sia il codice che dice di dare alle stampe, forse perché, come dichiara

302 M. Pastoureau, Armoiries et devises cit. (ivi, p. 31). 303

Ivi, p. 31.

304

R. Trachsler, Clôtures cit., p. 313.

305 Corrispondenti alla pp. 494-524 dell’edizione Polidori della Tavola Ritonda. 306 D. Delcorno Branca, I cantari di Tristano, p. 294, nota 14.

307

F. Zambrini, Le opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV ed altre a’ medesimi riferibili o falsamente

assegnate, Bologna, Tipi Fava e Garagnani, 1866, p. 90.

Zambrini, si tratterebbe di un codice di difficile lettura, se non del tutto «inintelligibile»309. La pubblicazione curata da Cassini – e da lui arricchita con un ampio corredo di annotazioni linguistiche – è un galante omaggio a Miss Elena Gladstone, dama inglese, alla quale immagina che possano risultare dilettevoli le storie dei suoi compatrioti: «essendochè aveste voi i natali in quelle fortunate libere isole, dove Tristano ed Isota si nacquero, e dove pure gl’infelici amanti lasciarono questa dolentissima vita»310

. Nuovamente, con un rifluire tardivo, i volgarizzamenti italiani del Tristan en prose instaurano un ponte tra l’Italia e l’Inghilterra, stavolta sotto le forme di una ricezione di ritorno. Quello che è interessante, a parte la testimonianza del rinnovato interesse ottocentesco per la narrativa medievale311, è che Cassini riporta alla fine della sua stampa anche il «blasone di taluni cavalieri erranti»312, ch’egli trae dalla copia di Ventura de Cerutis. Per effetto della distorsione temporale, nell’Ottocento, un simile elenco, che assume un valore museale, diventa una sorta di archeologico tentativo di ridare volto e forma a un mondo ormai scomparso, ma del quale il Romanticismo europeo si propone di raccogliere l’eredità.

309 Ibidem. 310

Si cita direttamente dall’edizione ottocentesca conservata presso la Biblioteca di Casa Carducci: Morte di

Tristano e della reina Isota descritta per Ventura de Cerutis, pubblicata e annotata per cura di Giovanni Cassini

ed intitolata a Miss Elena Gladstone, Parigi, Stamperia della Dama Lacombe, 1854, p. 4.

311

Sulla fortuna e sulla diffusione tarde della Tavola Ritonda, non esclusivamente ottocentesche, si vedano i contributi di A. Punzi, Per la fortuna dei romanzi cavallereschi nel Cinquecento: il caso della Tavola Ritonda, in «Anticomoderno», 4, 1997, pp. 131-154; V. Bertolucci Pizzorusso, Tristano e Isotta sull’Appennino.

Letteratura cortese e tradizione del Maggio, in «Studi Mediolatini e Volgari», 53, 2007, pp. 7-24; D. L.

Hoffman, Isotta da Rimini: Gabriele D’annunzio’s Use of the Tristan Legend in his Francesca Da Rimini, in «Quondam et Futurus», 2, 1992, pp. 45-54.

CAPITOLO II

«La fontana di tutti i libri e romanzi che si leggano».