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Oratores Riflessioni sulla militia Christ

«La fontana di tutti i libri e romanzi che si leggano» Lo spirito enciclopedico nella Tavola Ritonda

5. Il pubblico della nuova “enciclopedia” comunale

5.2 Oratores Riflessioni sulla militia Christ

La dimensione spirituale nella Tavola Ritonda non si riduce alla semplice immissione delle avventure mistiche del cavaliere Galaad e dell’impresa del Graal, peraltro già incluse nel Tristan en prose. È stata già messa in evidenza la vicinanza di Tristano al francescanesimo: l’abbandono della ricchezza, ribadito in più occasioni, e il rifiuto delle corone del reame di Gaules dell’Irlanda e della Piccola Bretagna, in nome della propria libertà di cavaliere («e voleva essere cavaliere e non re, acciò che altri avesse materia di più arditamente comandargli, e aoperare a sua cavalleria»270), farebbero di Tristano la «variante mondana dell’homo viator che nel testo italiano si avvicina al paradigma della spiritualità francescana per la necessità di fare a meno delle proprietà (fief o altre ricchezze), della mercatantia e della famiglia»271.

Ma la rappresentazione di una forma diversa di cavalleria errante, maggiormente compromessa con il modello di vita ascetica proposto dagli ordini monastici, coincide nella Tavola Ritonda con la riscrittura di altri personaggi. Non bisogna infatti dimenticare che il prototipo di un nuova figura di cavaliere orientato verso il misticismo era fornito a Tristano

270 Tavola Ritonda, § XXXIII, p. 118.

dal padre, il re Meliadus. Nella Tavola Ritonda, infatti, Meliadus, già sovrano del regno del Leonois, si rifiuta per lungo tempo di prendere moglie:

Tutte le storie pongano e a ciò s’accordano, e ’l vero è che lo re Meliadus fu pro et liale cavaliere, et non aveva mai auta donna nè pensava d’avere; et ciò faceva per piacere a Dio et per meglio conservare sua forza272.

Il ragionamento del re Meliadus fa appello da una parte all’ideale di una vita in cui il voto castità rappresenta uno strumento d’adesione al paradigma offerto dall’esempio di Cristo, e dall’altra si avvale delle riflessioni proposte da buona parte della letteratura medievale di stampo misogino, nonché di tipo “scientifico-naturalistico” che ritiene che la donna possa essere cagione di un indebolimento della forza dell’uomo. Antonio Pucci, per esempio, nel suo Libro di varie storie, dedica una sezione intera (§ XXX) a compendiare l’immagine della donna che gli giunge dalla letteratura classica e contemporanea: ammonimenti sui pericoli insiti nel matrimonio («no·lla torre, però ch’ella è impedimento dello studio e quasi d’ogni bene adoperare»273; lo stesso Seneca avverte: «la femina è duca de’ mali, artefice di malvagità, assediatrice degl’animi»274

) vengono riportati fedelmente, per essere in un secondo momento decostruiti dalla visione dello stesso Pucci: «non so vedere per che cagione i filosofi e gl’altri uomini si dilettano a dispregiare tanto le femine, con ciò sie cosa che ’l Signore del cielo e della terra degnò di venire in lei»275.

È, ancora, innovazione originale della Tavola Ritonda la circostanza che induce Meliadus a prendere in sposa Eliabella, in quanto “simbolo” della riappacificazione tra il re Artù e Meliadus, che nel testo toscano erano scesi in campo l’uno contro l’altro. Il sovrano di Logres invita Meliadus a prendere moglie per ovvie ragioni di politica matrimoniale («per meglio confermare nostra pace»276), e per poter avere degli eredi che garantiscano la prosecuzione del suo lignaggio. Di fronte all’invito del sovrano, Meliadus replica:

Sire, sappiate che io ero fermo di non préndare mai donna et di conservare mia virginità per infino alla mia fine: ma, da poi che a voi piace et ella è di vostro lignaggio, io ne so’ assai contento. Ma prima ch’io la ’mprometta, la voglio vedere277

.

Il valore della verginità come strumento per la salvezza dell’anima dell’uomo era stato già consacrato nei romanzi graaliani, nei quali il cavaliere celeste Galaad portava a compimento

272

Tavola Ritonda, § V, p. 12.

273 Antonio Pucci, Libro di varie storie, p. 209. 274 Ivi, p. 214.

275

Ivi, p. 218.

276 Tavola Ritonda, § X, p. 32. 277 Ibidem.

l’impresa del Sacro Vasello solo in virtù della sua purezza. Meliadus sacrifica invece le sue convinzioni sull’altare della corona e degli equilibri politici, ma non rinuncia a proclamarsi persuaso che solo l’aderenza al modello monastico gli avrebbe potuto garantire la benevolenza divina. Meliadus propone quindi se stesso dapprima come un vero e proprio miles Christi, che rinuncia al mondo limitandosi a servire la Chiesa, abdicando così alla fruizione della piena libertà della condizione laicale; in un secondo momento, la scelta del matrimonio lo attira tra le fila di quella cavalleria che «accetta di porsi al servizio della Chiesa traducendo nell’area temporale, l’area dell’agere che ad essa è proprio, il combattere, la volontà stessa della Chiesa e della sua gerarchia»278.

Ampiamente documentati sono gli scambi tra il mondo comunale e quello conventuale, poiché la diffusione della cultura laica non può fare a meno, tra fine Duecento e i primi del Trecento, della mediazione degli ordini mendicanti279. Un episodio significativo della messa a confronto tra il prototipo del cavaliere monaco e di quello del cavaliere villano280 si ha nella Tavola Ritonda quando Tristano viene liberato dalla prigionia nella quale lo tiene il re Marco, grazie all’intervento di Prezzivalle lo Gallese, e fugge poi con Isotta lontano dalla Cornovaglia alla volta della Gioiosa Guardia (§ LXXXIX).

I due amanti si mettono dunque in viaggio insieme con Alcardo e Brandina, e Tristano, per potersi spostare più segretamente, decide di travestirsi: «si fece allora fare una cappa monacale, e sì la si addobba sopra l’armadure»281. Se già la stratificazione dell’abbigliamento, con la cappa sopra l’armatura, metaforizza la sovrapposizione tra due ordini, quello cavalleresco e quello monacale, sarà l’entrata in scena di Lancillotto a impostare in modo esplicito la contrapposizione tra il mondo degli oratores e quello dei milites.

Lancillotto, che viaggia in incognito, colpito dalla bellezza della dama che il finto monaco reca con sé, gli rivolge un consiglio: probabilmente, infatti, un uomo di Chiesa, poco esperto delle faccende del mondo, non si rende conto della pericolosità che la dama gli venga sottratta, dato il costume, molto diffuso nelle terre di Logres, che i cavalieri erranti possano reclamare per sé una dama en conduit. Il vero pericolo, spiega Lancillotto, è la bellezza della dama, che la rende desiderabile agli occhi dei cavalieri. Lancillotto proietta quindi il proprio desiderio su un terzo cavaliere immaginario che egli ipotizza potrebbe assediare con facilità una dama accompagnata da un semplice monaco. Al primo assalto, il finto monaco-Tristano

278

F. Cardini, Modelli eremitici e aventure cavalleresca, in Id., L’acciar cit., pp. 157-171 (ivi, p. 158).

279

Cfr. A. Coco, R. Gualdo, Enciclopedismo ed erudizione nei volgari italiani: una panoramica sugli studi

recenti, in N. Bray, L. Sturlese (a cura di), Filosofia in volgare cit., pp. 265-317, in particolare alle pp. 278-280.

280 Si veda, per il Tristan en prose, J. Traxler, Courtly and Uncourtly Love in the Prose Tristan, in D. Maddox

and S. Sturm-Maddox (a cura di), Literary Aspects of Courtly Culture: Selected Papers from the Seventh

Triennal Congress of the International Courtly Literature Society, Cambridge, D. S. Brewer, 1994, pp. 161-169.

risponde con garbo, sottolineando di disporre del pieno controllo della situazione: «Cavaliere, andate a vostro cammino; chè chi me la togliesse, arebbe più forza di me»282.

Il secondo assalto verbale si sposta dall’argomentazione intorno alla bellezza della dama alla considerazione sull’aspetto fisico del monaco: le sue vigorose fattezze indicano a chi lo guardia che debba trattarsi di un uomo estremamente forte. Ma l’esser bene “intagliato di membra” non è secondo Lancillotto una condizione sufficiente per trasformare un povero monaco in un vero e proprio miles.

Per mia fè, ch’io non conosco cavaliere che ’n fatto d’arme non potesse più di voi; chè, perchè voi abbiate la forza e siate bene intagliato di vostre membra, voi non areste la maestrìa nè lo ardire del combattere283.

Lancillotto sta qui difendendo la propria categoria: poiché il mondo della cavalleria non si appiattisce al semplice esercizio della forza bruta, non è sufficiente avere la forza per pensare di poter sostenere un duello. Abbracciare la cavalleria errante rappresenta una scelta di vita che comporta un continuo processo di perfezionamento, nonché un percorso di formazione articolato e complesso, nel quale rientrano la conoscenza dell’arte del combattimento (la maestrìa) così come una forte vocazione allo sprezzo del pericolo (lo ardire del combattere). Ciò che Lancillotto si dimentica di sottolineare è che il vero e perfetto cavaliere è anche e soprattutto colui che afferma se stesso attraverso la messa alla prova delle proprie qualità morali. E infatti, come vedremo, Lancillotto non si atterrà a questo fondamentale “vincolo” arturiano.

La replica di Tristano, che ha ormai fatto propria la maschera del monaco e che dunque di questo ordine difende le posizioni, sottolinea «che perchè noi siamo a l’ubedienza della regola, voi cavalieri ci tenete a troppo vili: ma questa cappa non ci toglie però la forza nè lo ardire del cuore»284. Tristano allude forse a quegli ordini clericali di monaci armati che, avvezzi alla pugna spiritualis285, non si sottraggono neanche alla battaglia sul campo militare. Tristano, nella Tavola Ritonda, incarna quindi contemporaneamente due punti di vista. Da una parte, si fa veicolo dell’immissione della voce dei cavalieri di Dio, e lo fa servendosi delle armi dell’ironia. Non va dimenticato che nella scena precedente a questa, Tristano aveva sfruttato proprio un travestimento da monaco per potersi infilare sotto le lenzuola di Isotta, al momento del suo ritorno in Cornovaglia («e tanto adoperòe, che Tristano andòe a lei in guisa

282 Ivi, p. 341. 283

Ibidem.

284 Ibidem.

d’uno sacerdote il quale l’andasse a vicitare»286

). A breve distanza quindi, Tristano si serve dell’abbigliamento monacale per celare la propria identità, e diventare allo stesso tempo uno strumento del discorso polifonico del compilatore toscano.

Questo «travaglio di parole»287 tra Lancillotto e Tristano prosegue poi con un terzo assalto verbale, che si conclude con la proposta da parte di Lancillotto di assumere su di sé la difesa della dama, iniziativa non richiesta da Tristano. Il finto monaco, seccato perché il cavaliere sconosciuto si offre di scortarlo nella foresta, risponde servendosi del lessico giudiziario: «volete essere tutore sanza volontà delle parti, e datevi impaccio di cosa che non vi tocca e non vi fae mestiere»288.

L’atmosfera tra i due comincia a farsi tesa, in particolare quando Tristano comprende che l’insistenza del cavaliere sconosciuto discende dall’interesse che egli manifesta nei confronti di Isotta. Tristano ricorre allora al buon senso popolare (si serve di un proverbio: «voglio in tale maniera essere nanzi solo, che essere male accompagnato»), per riportare ordine nel sovvertimento delle regole cavalleresche attuato da Lancillotto, il quale non solo pretenderebbe di imporre una protezione non richiesta, ma accusa persino il monaco di aver rapito la fanciulla, adducendo come motivazione non tanto l’inappropriatezza della condivisione di un viaggio tra un monaco e una dama, quanto il fatto che il monaco conduca una fanciulla tanto bella. Secondo Lancillotto, questo rappresenterebbe un’assenza di rispetto per l’abito monacale:

Certo, monaco monaco, molto mi rispondete rubesto; chè, per la mia fè, e’ sarebbe bastevole al buon messer Tristano di Lionisse, lo quale si èe lo cavaliere del mondo. Ma, poca ira che tu mi facci, io non ti riguarderò, per mia fè, nè per cappa nè per cappuccia; anzi te l’avvolgeròe tanto alla gola, che soperchio ti parrà289

.

E d’altronde il narratore sottolinea come lo stesso cavaliere misterioso abbia piena coscienza del fatto di trasgredire alle più banali regole della cavalleria («e conosceva bene ch’egli faceva grande peccato a metterlo a tanta ira: ma la bella donzella gli piaceva tanto tanto, ch’egli non potea altro fare»290

). La figura del cavaliere villano incarnata da Lancillotto agisce dunque in risposta a un principio di puro piacere: Lancillotto non indirizza le sue scelte secondo ragione, ma mosso dal proprio desiderio. È esattamente questa la follia della ragione dalla quale rifugge Dinadano, quella dismisura che porta uno dei migliori cavalieri al mondo a mettere da parte qualsiasi freno sociale, morale o religioso in nome del desiderio per una

286 Tavola Ritonda, § LXXXVIII, p. 337. 287 Ivi, § LXXXIX, p. 341.

288

Ivi, p. 342.

289 Ibidem. 290 Ivi, p. 343.

dama. Se il cavaliere sconosciuto chiama in causa Tristano senza sapere che questi è proprio di fronte a lui sotto le vesti del monaco, la ricerca di un principio di simmetria porta il compilatore a immaginare, con sottile ironia, che anche il finto monaco richiami paradossalmente alla memoria proprio Lancillotto, e non certo portandolo a esempio di virtù e qualità cavalleresche:

Per buona fè, vi giuro, io non ne lasceròe per voi, nè per vostre minacce, nè per tanto argoglio quanto voi avete; che basterebbe, in buona fè, a messer Lancialotto de Lacch, lo quale è il fiore degli cavalieri erranti. Ma, per tanto, non pensate però, ch’io del mio vi doni a mal mio grado tanto che vaglia uno picciol danaio. […] Sire, sire cavalier, se voi volete pur meco briga, io di ciò per niente già non vi verrò meno; imperò che la mia regola e Dio il comanda; ciò io dico che Cristo permette, e dice: - Aiutati, chè io t’aiuteròe al bisogno -.291

Il passo si offre a una duplice interpretazione: le minacce, sottolinea Tristano, potrebbero forse indurre un cavaliere come Lancillotto a abbandonare il duello, ma non certo lui che, per quanto si professi monaco, non intende venir meno alla dimostrazione del proprio valore; oppure Tristano afferma che tanto orgoglio quanto dimostra il cavaliere sarebbe abbastanza perfino per Lancillotto, e che quindi, ironicamente, neanche lo stesso Lancillotto sarebbe tanto sbruffone.

Dal canto suo, Lancillotto, per nulla intimorito dal richiamo alla propria reale identità, conduce il suo ultimo assalto verbale svelando le proprie reali intenzioni: «Servigiale di Dio, la coscienza mi riprende di farvi villania; ma troppo più mi costrigne l’animo d’avere cotesta bella dama»292. Nella dialettica inscenata tra ordo bellatorum e ordo oratorum, Lancillotto sembra qui slittare verso il terzo ordine della società medievale, poiché si macchia di un atto di manifesta villania. Il cavaliere che il lettore immaginava cortese compie deliberatamente un processo di discesa e di degradazione sociale che comporta l’oblio delle regole della cortesia. Se l’anticortesia di alcuni cavalieri fa parte della rappresentazione tradizionale del mondo arturiano, ciò che stupisce è che qui sia Lancillotto a venire reclutato tra le fila di personaggi del calibro di Brehus, Keu o Galvano293.

291

Esortazione molto diffusa nei sapienziari medievali. Cfr. Paolo da Certaldo, Libro dei buoni costumi, ed. A. Schiaffini, Firenze, Le Monnier, 1945, p. 147: «non essere avaro nè pigro in fare che tu abbi santà, anzi vi metti ciò che puoi fare, e amici e parenti. Simile, s’ài malati in casa, no gli abbandonare mai: falli servi[re] [e atare infino ch’è] morto; ché Dio dice: “aiutati, e io t’atrò”; e quand’e’ vede che tu t’aiuti co’ buoni medici, co le buone medicine, co le buone orazioni e limosine, e egli “in una ora lavora”: sì che mai non t’abbandonare quando se’ malato; sempre abbi speranza di guarire, e aiutati».

292 Tavola Ritonda, § LXXX, p. 343. 293

Cfr. L. Harf-Lancner, Gauvain l’assassin: la récurrence d’un schéma narratif dans le Tristan en prose, in A. Crépin, W. Spiewok (a cura di), Tristan-Tristrant. Mélanges en l’honneur de Danielle Buschinger à l’occasion

La risposta di Tristano si risolve comunque nella consueta arguzia con la quale ribatte a ogni assalto di Lancillotto: «Quanto per lo peccato, già non lasciate voi; imperò che arditamente io lo vi perdono, e sono acconcio di donarvi ancora la penitenzia. E ora ne siamo alla pruova, chè io sìe vi disfido»294. Allo scontro fisico segue il riconoscimento finale, e tutte le questioni morali sollevate da questo increscioso episodio (la violenza dei cavalieri erranti, il peccato, la colpa, la coscienza, cortesia e villania) vengono lasciate completamente irrisolte. Non c’è stupore quando Tristano e Isotta scoprono che a macchiarsi di una tale villania è stato proprio Lancillotto. È come se, in questo gioco di maschere, i personaggi risultassero del tutto spersonalizzati, semplici vettori di istanze narrative dissonanti che il compilatore italiano si compiace di far confluire nel romanzo, e dunque non responsabili delle opinioni che essi incarnano.

Forse il compilatore sceglie di sospendere la conclusione in uno stato di virtualità per demandare il peso del giudizio, che di solito non manca di formulare, al lettore. Ma è possibile anche che la pluridiscorsività affidata qui a un cavaliere, Lancillotto, al quale vengono fatti indossare i panni del villano, e a un altro cavaliere, Tristano, che si serve delle vesti del monaco per viaggiare in incognito, si arresti al semplice gusto della contraffazione delle regole del genere romanzo. D’altronde, come afferma M. Bachtin, «la creazione basata sul travestimento e sulla parodia porta il costante correttivo del riso e della critica nella serietà unilaterale dell’alta parola diretta, il correttivo della realtà che è sempre più ricca, più essenziale e, soprattutto, più contraddittoria e pluridiscorsiva di quanto possa essere contenuto nel genere alto»295. E nell’inserire un «correttivo della realtà», il compilatore toscano si diverte contemporaneamente a mostrare l’imperfezione di Lancillotto (il cui amore per Ginevra è decisamente meno esemplare di quello che lega Tristano a Isotta) e a drammatizzare, attraverso l’opposizione tra Tristano e Lancillotto, quel confronto tra cavalleria e monachesimo che innerva la religiosità dell’Italia medievale.

Vi è inoltre un ultimo tassello che bisogna aggiungere a questo episodio per poterne comprendere in maniera più articolata il significato. Il racconto del travestimento di Tristano da monaco, che pure è assente nel Tristan en prose così come negli altri Tristani italiani, non è però del tutto ignoto all’intertesto tristaniano nel suo insieme. Esiste infatti un’opera, il Tristan als Mönch296, opera tedesca in versi scritta tra il 1210 e il 1260, che è incentrata

294

Ibidem.

295 M. Bachtin, Voprosy literatury i estetiki, Moskva, Chudožestvennaja literatura, 1975; trad. it. C. Strada

Janovič, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 2001, p. 420.

296

Tristan et Yseut. Les premières versions européennes cit., p. 1579: «Le poème épisodique Tristan le Moine, qui comprend 2075 vers, est parvenu jusqu’à nous en deux manuscrits du XVe siècle, et ce, en liaison avec le

proprio su questa variante della leggenda tristaniana. Non esiste naturalmente la possibilità di stabilire una dipendenza diretta tra la Tavola Ritonda e l’opera duecentesca, ma occorre sottolineare che anche il messaggio del testo tedesco è interamente giocato sull’ambivalenza della cavalleria, mai pienamente all’altezza delle aspettative che la tradizione ripone nella figura del cavaliere errante; anche qui il processo di degradatio si svolge, come nella Tavola Ritonda, senza che il discorso sfoci in un’aperta polemica o in una diretta critica nei confronti del cavaliere manchevole.

La coscienza letteraria del compilatore toscano gli consente dunque di recuperare (anche se non è dato sapere attraverso quali canali) e di integrare al proprio testo un’altra fonte tristaniana che, inserita in un contesto come quello della Tavola Ritonda, instaura un’ulteriore dialettica tra generi. Un nuovo modello narrativo, proveniente da una delle innumerevoli riscritture del mito di Tristano, viene ricoperto da un moderno habitus culturale e linguistico, che lo traghetta verso la riflessione sugli ordini monacali nell’Italia comunale.