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Mercatores Dinadano e la filosofia dell’utile

«La fontana di tutti i libri e romanzi che si leggano» Lo spirito enciclopedico nella Tavola Ritonda

5. Il pubblico della nuova “enciclopedia” comunale

5.3 Mercatores Dinadano e la filosofia dell’utile

Si è visto che, per poter accedere al rango di cavaliere errante, il Tristano della Tavola Ritonda aveva dovuto promettere di abbandonare ogni arte e ogni mercatanzia, per dedicarsi esclusivamente alle nobili avventure della Tavola Rotonda. Esiste però un personaggio che, con i suoi comportamenti e le sue riflessioni, sembra smentire la perentoria affermazione della irriducibilità della cavalleria alla mercatanzia. Si fa naturalmente riferimento a Dinadano. Si può assumere come punto di partenza per una riflessione sulla possibilità che la riscrittura del personaggio di Dinadano offerta dalla Tavola Ritonda possa mirare a fare del savio disamorato l’araldo di una filosofia dell’utile l’opinione che F. Cardini esprime su questo personaggio: «niente è davvero chiaro in lui; non possiamo leggerlo come un cavaliere ridotto alle dimensioni della bottega e tagliato sulla mentalità di mercanti o di banchieri pur accesi di fantasie cavalleresche. La sua sembra piuttosto una critica ai costumi cavallereschi ispirata sia pur mediamente a una chiave filosofica “naturalistica”»297

. Cardini ritiene infatti che intendere la filosofia di Dinadano come un «ragionare a livello di “ragione di mercatura”»298 non sia altro che un fraintendimento della complessità del personaggio, che non cessa mai,

1210 et 1260». L’edizione più recente è quella curata da A. Classen (Tristan als Mönch, Greifswald, Reineke, 1994).

297 F. Cardini, L’acciar de’ cavalieri cit., p. 109. 298 Ibidem.

neanche per un solo minuto, di essere un cavaliere errante, latore di un messaggio pienamente riconducibile agli ideali della Tavola Rotonda.

Se la Tavola Ritonda etichetta Dinadano come il savio disamorato, sarà sul terreno della riflessione sull’amore che il personaggio potrà rivelare più chiaramente la propria essenza. Nella letteratura cortese, in cui il galateo amoroso impone delle regole ben precise, il parlamento d’amore rappresenta una delle modalità privilegiate di rappresentazione di un gioco erotico in equilibrio instabile tra omaggio feudale e desiderio sensuale. Il parlamento d’amore, sottogenere dialogico della letteratura cavalleresca, è ben rappresentato nel Tristan en prose299 e, in particolare, degno di nota è il colloquio tra Isotta e Dinadano300, perché la presenza di un personaggio “anticortese” all’interno di una cornice narrativa che impone una topica ben definita innesca dei meccanismi stranianti rispetto alla prospettiva di genere.

L’episodio del parlamento d’amore tra Isotta e Dinadano nasce da una beffa ordita da Tristano, che convince Isotta a ospitare Dinadano alla Gioiosa Guardia e a fingersi bisognosa d’aiuto. Dinadano rifiuterà però di farsi difensore della causa di Isotta e si limiterà ad accettare, pur malvolentieri, di portare un elmo in ricordo della dama. Anticipando l’esito al quale si intende giungere, il confronto tra lo svilupparsi di questa scena nel Tristan en prose e il modo in cui viene ripresa nella Tavola Ritonda mostrerà come la reazione del Dinadano italiano sia improntata a una ferrea logica mercantile, così come al mondo della mercatanzia è ispirato chiaramente il vocabolario al quale egli attinge.

I primi cambiamenti apportati dalla Tavola Ritonda mostrano la volontà di calcare la mano sul carattere anticortese del personaggio. Nel Tristan en prose, Tristano, che si trova alla Gioiosa Guardia, racconta a Isotta di Dinadano, sottolineando che la ragione della stima e dell’amicizia che lo legano a lui risiede nelle sue capacità affabulatorie: Dinadano è per Tristano «un des chevaliers del monde qe je plus aim, de meillors paroles, de meillors solaz, et de cui je ameroie plus la conpaignie»301. E quando Isotta domanda a Tristano perché si diverta a far irritare Dinadano così spesso con le sue provocazioni, Tristano risponde: «je ne le faz pas por corronz mes por deduit. Ces paroles et ces bons diz me plesant si merveilleusement qe ja mes ne querroie departir de lui. Et sor tout sen vous di je bien q’il est bon chevalier, preuz et hardiz asséz, mes il n’est pas si desmesuréz com sont maint autre

299

Cfr. D. Demartini, Miroir d’amour, miroir du roman. Le discours amoureux dans le Tristan en prose, Paris, Champion, 2006.

300 Tavola Ritonda, § XCIII. Cfr. Le Roman de Tristan en prose (version du manuscrit 757 de la Bibliothèque

nationale de France) [V.I], ed. J.-P. Ponceau, De l’arrivée des amants à la Joyeuse Garde jusqu’à la fin du tournoi de Louveserp, III, Paris, Champion, 2000, §§ 48-61. Le successive citazioni tratte da questo tomo

saranno indicate nel seguente modo: Tristan en prose, V.I/3.

chevalier»302. Tristano sottolinea dunque come Dinadano non sia desmesuréz, segno evidente dell’esistenza, in molti compagni della corte del re Artù, di una sorta di deriva “fanatica” nel modo di intendere la missione cavalleresca. Nel Tristan en prose, è Tristano che, sapendo che Dinadano, giunto alla Gioiosa Guardia, cercherà albergo per la notte in un borgo vicino, invia uno dei suoi scudieri per proporgli di alloggiare al castello. Al contrario, nella Tavola Ritonda, lo scudiero riporta a Tristano ben altre notizie sul comportamento di Dinadano:

E mangiando in tale maniera, per la sala venne uno scudiere, lo quale disse a Tristano: - Sire, alla porta sì è uno cavaliere errante, il quale voleva entrare dentro; e perchè non gli fue tantosto aperto a suo volere, disse che arso fosse lo castello e chi lo manteneva; ed èe albergato nel borgo di fuore, e portava tali insegne303.

È chiaro come nel testo italiano l’apparizione di Dinadano produca immediatamente uno slittamento di registro, orientato alla creazione di un’atmosfera marcatamente comica. Sia nel Tristan en prose che nella Tavola Ritonda, Tristano decide di nascondersi e di lasciare che Dinadano e Isotta intavolino un parlamento d’amore304. Isotta convoca dunque Dinadano e, fin dalle prime battute, il dialogo tra i due mostra, nel caso del testo toscano, l’abbandono del registro aulico sul quale si dovrebbe impostare il discorso amoroso (o il canto poetico) cortese, mentre si generalizza il prelievo lessicale e concettuale dall’ambito mercantile, adoperato come strumento di opposizione dialettica nella costruzione del contro-discorso di Dinadano.

Isotta comincia dunque a provocare Dinadano: dichiara di aver sentito raccontare grandi cose sul suo conto e, in particolare, rivela di essere rimasta colpita nell’apprendere le grandi cavallerie compiute in nome della dama amata. La risposta di Dinadano non si lascia attendere:

Dama, – ciò disse Dinadano, – certo che colui che ve lo disse, veramente egli vi gabbò o vero nollo intendeste bene; imperò che amore non mi va tanto pugnendo il cuore, ch’io per ciò mi travagliassi in fatto d’arme. Che non èe grande tempo, ch’io diventai arrogante per amore, o vero ch’ella fu potenzia di vino che me lo fece fare; ch’io m’innamorai d’una dama, e per lei io mi crucciai con uno mio grande amico, lo quale è appellato messer Tristano; ed egli mi diede tale colpo, che io ne fui presso che morto. E quella fue la prima volta e saràe quella di dietro, che io giammai d’amore m’impacceròe305.

302

Ivi, p. 115.

303 Tavola Ritonda, § XCIII, p. 357.

304 Ivi, pp. 357-358: «noi passeremo nell’altra sala di làe, e voi mandate per Dinadano, e non dandovi voi a

conoscere; e metterétevi con lui in grande parlamento d’amore, e intenderete bene sue parole; chè, per certo, egli bene vi farà ridere, con grande sollazzo».

Dinadano fa qui esplicito riferimento all’episodio del suo innamoramento per madonna Losanna della Torre Antica, narrato nella Tavola Ritonda al § LXXVII. Mentre le argomentazioni con le quali Dinadano apre il suo discorso si rinvengono anche nel Tristan en prose, i motivi dell’arrogante per amore e della potenzia di vino appartengono invece esclusivamente alla Tavola Ritonda. La condanna dell’ubriachezza che altera nell’uomo la capacità di giudizio fa eco alle analoghe riflessioni che si potevano leggere nella sezione ritondiana dei vanti di Ferragunze306; e d’altronde, l’idea che il vino possa far uscire di senno e indurre a compiere degli atti scellerati è un argomento piuttosto diffuso nel Medioevo.

Le argomentazioni di Dinadano si estendono ben presto a considerazioni sul valore della cavalleria in generale e sulla necessità, che egli avverte come prioritaria, che l’esercizio di tale nobile “mestiere” vada disgiunto dalle implicazioni erotiche che nella visione tradizionale esso dovrebbe sottintendere:

Dama, - ciò dice Dinadano, - assai torti ò già fatti già tornare a ragione, e òe campate e difese a’ miei dì assai dame e damigelle: chè per altro non siamo noi cavalieri arranti, che per aiutare la ragione contro al torto307.

In quest’ultimo passaggio si manifesta la piena consapevolezza di sé e del ruolo della cavalleria che il personaggio di Dinadano esibisce nel testo italiano, aspetto che si oppone diametralmente all’insicurezza e alla scarsa considerazione dei propri meriti che egli rivela invece a Isotta nel testo francese. Nel Tristan en prose, infatti, Dinadano dichiara di fuggire l’amore soprattutto a causa della sua inadeguatezza a un compito al di fuori della sua portata. Nessuna dama vorrebbe infatti stare al fianco di un uomo tanto al di sotto delle aspettative che si ripongono in un cavaliere errante:

Et une autre chose a qi plus me metroit en creance qe dame de valor ne me peüst amer se faintement non, si est ce qe je ne sui ne bel chevalier ne bon ne preuz ne hardiz, ne si envoisié de moultes choses com sont li autres chevalier. Or donc madame, se dame meïst son cuer par aucune aventure, ne cuidéz vos q’elle l’en retresast tost, quant elle me trouveroit desfaillent de toutes les bontés q’en bon chevalier doit avoir? Elle s’en tendroit a honie et a deceüe, si me lesseroit maintenant. Por qoi je lesse del tot amor308.

L’atteggiamento del Dinadano francese è rinunciatario, proprio di colui che sente chiaramente tutto il peso della propria impotenza, anche se non si può escludere del tutto che dietro queste parole remissive, si nasconda la consueta ironia del personaggio. Nella Tavola Ritonda, invece, Dinadano ostenta orgogliosamente le proprie vittorie, reclamando per sé

306

Ivi, §§ X-XI.

307 Ivi, § XCIII, p. 359.

meriti che il lettore sa bene non corrispondono al vero («assai torti ò già fatti già tornare a ragione, e òe campate e difese a’ miei di assai dame e damigelle»). Il ripiegamento interiore del Dinadano francese si tramuta insomma in un vero e proprio gab nel Dinadano italiano. Quando poi egli afferma «chè per altro non siamo noi cavalieri arranti, che per aiutare la ragione contro al torto», Dinadano sta applicando un principio di esclusione: vuole offrire l’immagine di una cavalleria autosufficiente, bastante a se stessa, e tenta quindi di recidere il presupposto basilare che rappresenta il motore del perfezionamento cavalleresco, l’amore. Nell’opinione di Dinadano, al cavaliere errante, come al giudice, spetta il discernimento del torto dalla ragione: come a colui che si fa esecutore della giustizia in terra non è richiesto per lo svolgimento dell’attività giudicante di manifestare il proprio stato amoroso, così al cavaliere non dovrebbe essere richiesto, secondo Dinadano, di immischiarsi con l’amore.

All’esposizione delle argomentazioni teoriche, segue la prova pratica: nel Tristan en prose, Isotta, come concordato in precedenza con Tristano, chiede a Dinadano di prestarle aiuto per risolvere la spinosa questione che la vede coinvolta, il pagamento di un pesante tributo. Dinadano, dopo averci pensato un po’ su, risponde:

Dame, or sachiéz qe le reqerre, si est legier; il ne vous coste pas granment au demander, mes li fait, si est moult greveux […] Dame, dame, ce Diex me doint bone aventure, je ne vos cuidoie tant mesfait avoir qe vos me deüssiéz voloir mal de mort! […] Porriéz vos en nulle guise plus apertement ma mort porcachier qe fere moi entrer en champ encontre trois chevaliers? Ma priere de chascun matin et de chascun soir, si est tex qe je pri Dieu qe il me doint pooir et force qe je peüsse mon cors defendre encontre un seul chevalier : et souventez foiz m’est il ja avenu qe je mon cors ne pooit defendre encontre un seul chevalier, ançois m’en partoie honteusement et a deshonor. Et vos, sor ce, me vouléz metre a conbatre encontre trois? Dame, or aperçoi je bien qe vos mal de mort me vouléz; se ne sai ou je l’ai deservi! Et quant je voi qe vos estez si durement ma mortel ennemie, je sui cil qi en nulle guise ne demourroit hui mes avec vos, ainz m’en irai tout maintenant, se vos ne me creantéz qe vos de cel fait ne me tendroiz ja mes paroles309.

È facile per Isotta domandare di essere protetta e liberata; è invece decisamente più complicato per chi, come Dinadano, deve tradurre in azione la richiesta e rischiare la morte combattendo contro tre cavalieri. Il discorso allora si capovolge: non è Dinadano che commette l’errore di sottrarsi al suo dovere di soccorrere una dama in difficoltà, che è uno dei compiti canonici del cavaliere errante, bensì è Isotta che si dimostra crudele nell’esporlo, con la sua incauta richiesta, a un rischio sproporzionato («vos mal de mort me vouléz»).

Nella Tavola Ritonda, la replica di Dinadano, pur mantenendo inalterata la sostanza del ragionamento, è polarizzata sul versante dell’“utile”:

Dama, dite ch’io combatta con altri per voi e in contro a uno pro’ cavaliere? Dama, certo delle parole egli n’èe buono mercato, e ’l combattere è molto pericoloso: chè il primo priego ch’io faccia la mattina si è, che Iddio non mi apparecchi innanzi cavaliere di troppa grande prodezza; chè pur di tali derrate, io sì n’òe spesse volte vergogna. Chè io sono troppo caro costato a chi m’àe allevato in questo mondo: sicchè di me io non vorrei fare tale mercato, che mi tornasse danno310.

L’aggiunta dei corsivi serve a evidenziare come il vocabolario attinto al mondo delle attività mercantili riorienti il discorso del Dinadano italiano, che rinuncia alla dismisura delle pretese di una cavalleria errante che rischia di compromettere l’unica “merce” della quale dispone il cavaliere, e cioè se stesso («sicchè di me io non vorrei fare tale mercato, che mi tornasse danno»). Dietro la visione della cavalleria di Dinadano si nasconde un’etica orgogliosamente improntata alla “ragione di mercatura”. Dinadano valuta coscienziosamente il costo dell’impresa, ne soppesa con attenzione il profitto che potrà trarne, e l’utilità o, al contrario, l’infruttuosità rispetto agli eventuali rischi da correre.

Il principio che lo porta ad affermare l’importanza del giusto mezzo è esattamente lo stesso senso pratico che condurrà il mercante Paolo da Certaldo nel suo Libro di buoni costumi a sottolineare a più riprese l’importanza della misura. Come sottolinea V. Branca a proposito dei 388 precetti che compongono l’opera di Paolo da Certaldo, «questa misura, questo giusto modo – elevati a costume di vita nella insistente raccomandazione di “urbanità” e “cortesia” («cortesia non è altro se non misura»: 82) – sono proprio quelli che, secondo i precetti degli stessi francescani, possono far superare la divaricazione fra la “ragion di mercatura” e la visione cristiana dell’esistenza»311

. Quando Paolo da Certaldo afferma «in ogni tuo fatto abbi misura acciò che tu non possi fallare, che chi avrà misura ne’ suoi fatti soprastarà a ogni vizio»312, o consiglia «abbi freno in tutti i tuoi fatti, però che “se viverai senza freno, ogni bene ti verrà meno”»313

, oppure sottolinea che «molto è bella cosa e grande sapere guadagnare il danaio, ma più bella cosa e maggiore è saperlo spendere con misura e dove si conviene»314, ritroviamo riassunto in forme gnomiche e dall’andamento proverbiale, peraltro assimilabili alle cadenze della Tavola Ritonda, la medesima visione del mondo sottostante alle parole del Dinadano italiano.

Eppure Dinadano, e in questo trova conferma il ragionamento di F. Cardini esposto all’inizio, non è un mercante né è intenzionato a esserlo. Essere cavaliere è infatti l’unica

310

Tavola Ritonda, § XCIII, p. 359. I corsivi sono miei.

311 V. Branca (a cura di), Mercanti scrittori. Ricordi nella Firenze tra Medioevo e Rinascimento, Milano,

Rusconi, 1986, p. XXXII.

312

Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, p. 62.

313 Ivi, p. 230. 314 Ivi, p. 78.

dimensione nella quale Dinadano sa (e intende) radicare la propria esistenza; essere cavaliere è il suo modo di stare al mondo. Ma egli vuole essere esponente di una cavalleria che attinge alle recenti acquisizioni delle nuove classi emergenti, specie quelle dedite al commercio, che hanno saputo, agli occhi di Dinadano, afferma con forza la ricerca di una razionalità dei comportamenti, finalmente svincolata dalle remore di una visione eccessivamente ancorata al passato e immobilizzata dal perpetrarsi di costumi ormai privi di senso e controproducenti.

La sottile argomentazione del Dinadano italiano modula, attraverso diverse fasi, il passaggio da un iniziale atteggiamento di spavalderia alla vera e propria vigliaccheria orgogliosamente esibita. Agli occhi della regina Isotta, e a confronto con la visione tradizionale del coraggio offerta dal romanzo arturiano, Dinadano appare come un personaggio alla Capitan Fracassa o sul genere del miles gloriosus della commedia plautina, che dapprima si pavoneggia delle proprie qualità, ma che, sottoposto a una prova reale, non riesce a reggere il confronto con i propri vanti. Osservando la vicenda dalla prospettiva di Dinadano, invece, le proprie obiezioni, opposte alla richiesta di Isotta, rientrano nella naturale salvaguardia della propria vita, bene che non può rischiare di perdere per soddisfare i capricci di una dama. Il primo dovere che Dinadano sente di dover compiere è appunto quello di salvaguardare la propria incolumità fisica.

Per tale parole io ne farei di peggio; e se voi me lo dite più, stasera subitamente io mi dipartirò di questa rôcca. Chè dite ch’io combatta e mettámi alla morte per diliberare voi: ma non pensate ch’io sia già tanto folle; chè se io perdesse, a me sì sarebbe il danno, e a voi non sarebbe uttulitade315.

Nella sua capacità di registrare acutamente le ricadute di ogni gesto, il Dinadano italiano sostiene una filosofia dell’utile che mira a indagare la realtà attraverso la lente del principio di causa-effetto. L’inesorabile utilitarismo del suo pensiero è, per una mentalità cortese, nient’altro che volgare empiria, piatto materialismo. Le parole delle quali Dinadano si serve (utilità, danno, vantaggio, mercato, derrata, costo, risparmio) sono chiaramente ricavate dal vocabolario del mercante, come dimostrano le occorrenze lessicali nei passaggi sopra citati. E sebbene il discorso di Dinadano non mobiliti esplicitamente il richiamo a una forma di rendimento o di vantaggio monetari (che è quello al quale mira più prosaicamente il mercante), l’individualismo che esso sottende rinvia a un sistema “egoistico” e “egocentrico”, che mal si coniuga con lo spirito di compagnonaggio o con l’immagine di vindex pauperum che fa della cavalleria errante una vera e propria militia Christi.

Il messaggio del quale Dinadano si fa promotore è che la cavalleria errante debba potersi “mettere sul mercato”. In un modo del tutto spassionato e senza mirare all’arricchimento, ma sempre avendo di fronte a sé l’idea di riuscire a conquistare onore e fama nell’universo arturiano, compiacendosi di sentire risuonare il proprio nome sulle bocche di quelli che contano: in questo senso si può affermare che Dinadano intenda promuovere la convinzione che il cavaliere faccia commercio di sé.

La cavalleria non manca tra l’altro di manifestarsi nelle tipiche forme concorrenziali che caratterizzano il libero mercato, circostanza che risalta con particolare evidenza nel topos dei cataloghi di cavalieri, che servono a segnalare al lettore, attraverso l’instaurazione di un confronto agonistico, l’indice di gradimento di questo o di quel personaggio. Dinadano si limita a squarciare il velo sull’esistenza di una “fabbrica dei cavalieri”316

, sulle logiche “capitalistiche” che inevitabilmente, e in questi casi inconsciamente, vengono applicate anche in un’epoca premoderna quando si mescolano l’etica – quella del cavaliere che non intende accumulare una ricchezza economica grazie alle proprie avventure – e il guadagno, nel senso del vantaggio personale (anche solo nei termini di un ritorno di immagine) che egli trae dall’esporsi al pericolo317

.

In quest’ottica, un ulteriore modo per declinare la logica dell’utile è il principio del risparmiarsi al presente per potersi “vendere” con maggiore profitto in una circostanza più