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Il mito di Medea nella Tavola Ritonda Un’onomastica che disegna nuove genealogie

«La fontana di tutti i libri e romanzi che si leggano» Lo spirito enciclopedico nella Tavola Ritonda

3. Sui cataloghi della Tavola Ritonda Per una poetica della lista

4.2 Il mito di Medea nella Tavola Ritonda Un’onomastica che disegna nuove genealogie

Uno studio sistematico e esauriente dell’onomastica e della toponomastica nella Tavola Ritonda richiederebbe uno spazio che va oltre i confini di questo lavoro, nel quale ci si è prefissi l’obiettivo primario di mostrare in che modo il testo toscano utilizzi l’intelaiatura dell’ipotesto francese per attualizzarne il contenuto in base all’ampio ventaglio di conoscenze che provengono al suo autore da una preparazione di stampo enciclopedico. Si è quindi deciso, pur con la consapevolezza che molto resta ancora da fare in questa direzione, di scegliere un caso singolo dotato di una sufficiente dose di rappresentatività. Ci si concentrerà così sulla singolare rubrica genealogica che figura al § LXXIX della Tavola Ritonda.

Incardinato su una figura che proviene dal mito greco, questo passaggio testuale esemplifica efficacemente il modo in cui il nome proprio costituisca nella Tavola Ritonda un fondamentale vettore d’analisi, utile per comprendere la stratificazione di nuovi significati nella riscrittura italiana. L’estrema libertà con cui la Tavola Ritonda invoca per sé il diritto ad una personale impositio nominum – anche senza voler per forza chiamare in causa il modello adamitico della Genesi o mobilitare il Cratilo di Platone – rappresenta il chiaro segnale della capacità di giocare con i ricordi letterari e di intessere nella trama del romanzo arturiano fili che provengono da altri telai narrativi e che giacciono nella memoria poetica dell’autore in attesa di essere rimessi in circolo. Le autonome trasformazioni operate dalla Tavola nella nomenclatura dei personaggi presentano delle ricadute che vanno al di là della mera curiosità letteraria, utile magari a noi lettori moderni in quanto spia della conoscenza di questo o di quel personaggio attinto alla tradizione classica.

L’ipotesi che si intende sostenere è che, nella sua capacità di coinvolgere in modo generalizzato la semantica dell’intero codice narrativo, la presenza di un nome eccellente, posto come in questo caso a contatto con un retroterra enciclopedico, possa scatenare nel

romanzo un effetto “a grappolo”, in grado di generare delle vere e proprie costellazioni nominali che acquisiscono, nel caso preso in esame, la specifica forma dell’albero genealogico. Bisognerà allora procedere in via preliminare al confronto con il principale modello della Tavola, al fine di distinguere tra quei personaggi che, pur presenti nel Tristan en prose, vengono ribattezzati liberamente dall’autore italiano con l’evidente fine di traghettarli verso nuovi e inesplorati lidi dell’immaginario collettivo, e i personaggi che invece non figurano affatto tra le pagine del romanzo francese, e che andranno dunque interpretati come i latori di inedite aperture intertestuali. Il fine ultimo sarà chiaramente quello di sottolineare la perizia onomaturgica del compilatore della Tavola Ritonda.

Il passaggio prescelto riguarda un singolare elenco di nomi altamente evocativi che compaiono nel bel mezzo delle avventure di Tristano nelle terre di Logres. Tristano arriva presso un castello e il compilatore si premura di descrivere al lettore le coordinate geografiche e antropologiche del luogo.

Ma se alcuno mi domanderàe com’era appellato questo castello e per cui si manteneva, io dirò vero, che ’l castel era appellato Crudele, e la isola sì era appellata Perfida, e la dama che la manteneva sìe era appellata Medeas; la quale Medeas era la più lussuriosa dama del mondo e la più calda di suo corpo. E cosìe furono sue quattro sorelle; chè niuna di loro volle mai marito, per potere meglio lussuriare; e l’una fue Lavina, e la seconda fue Agnena, la terza fue Bresenda, la quarta fue Pulizena e la quinta fue questa Medeas; e tutte e cinque furono figlie della bella suora d’Amore, la quale discese de la gentile reina Calistra, la quale fue reina dello regno Femminoro, capo e membro di lussuria173.

Inutile dire che di questa fitta concentrazione di nomi non vi è traccia nel Tristan en prose. E altrettanto vale per gli altri Tristani italiani. Polidori non cela il proprio imbarazzo di fronte a questa originale aggiunta del testo toscano: «sogni d’infermi anziché fole da romanzi, son questi, e che tuttavia dimostrano la continuazione nei secoli analfabeti, come la grande alterazione avvenuta delle tradizioni greche e latine»174. Questo singolare avvicinamento alle suggestioni dei miti antichi non sarebbe insomma, secondo Polidori, nient’altro che l’abituale corruzione nella quale le lettere classiche incappano quando finiscono tra le mani degli sprovveduti e impreparati copisti medievali. D’altronde un tale cedimento alle lusinghe della classicità avviene in un testo che del mondo latino e greco non conserva praticamente nulla, eccezion fatta per la presenza di una singola allusione al fatto che Tristano sia un cultore della materia classica. Quando infatti Tristano «se ne va al suo palagio, lo quale aveva di per sè; ch’era appellato Luogo Franco, però che di lì a diece passi lo re non vi potea fare pigliare niuna persona; e quivi non si negava mai nè pane nè vino; e quivi continua mente trovavi

173 Tavola Ritonda, § LXXIX, p. 292. 174 Tavola Ritonda, § LXXIX, p. 292, nota 2.

acconcio da potere schermire e da giostrare, e da leggiere di belle storie, romane e troiane»175. La presenza di un simile dettaglio nella Tavola Ritonda non deve stupire, tanto più che i «bambini della Firenze del buon tempo antico erano allevati, sempre secondo Dante, nel culto dei racconti “de’ Troiani, di Fiesole e di Roma”, sentiti anzitutto come dotati di verità storica e forse contrapposti implicitamente con quelle ambages pulcerrime venute di moda insieme con le catenelle, le corone e le gonne contigiate, allorché Firenze si era pericolosamente aperta al mondo cortese e ai suoi allettamenti»176. A Tristano viene dunque impartita la stessa educazione dei suoi lettori toscani.

Il lapidario giudizio di Polidori a proposito del tentativo del compilatore della Tavola Ritonda di compiere un’incursione nel regno delle lettere greche e latine, scegliendo il canale dell’accenno al mito di Medea, non tiene però conto del fatto che la costellazione onomastica che fiorisce intorno a questo personaggio non si limita al semplice passaggio citato, ma rappresenta il punto d’arrivo di una originale galleria di ritratti femminili “disforici”, sviluppata nelle sezioni precedenti. L’esemplarità della menzione di Medea sembra infatti costituire uno dei possibili approdi paradigmatici della linea di episodi dedicata ai temi della vendetta e dell’onore che la Tavola Ritonda costruisce per un lungo tratto. La presenza di Medea sembra quindi essere consapevolmente motivata dalla conoscenza del ruolo e della funzione che il Medioevo attribuisce a questo personaggio.

Ma occorre procedere per gradi. In che veste arriva al compilatore della Tavola Ritonda il mito greco di Medea che il gusto medievale aveva così profondamente modificato? I tratti costitutivi di questo personaggio, la cui storia è inseparabile dalla leggenda degli Argonauti e che ha costituito il fulcro di una delle immortali tragedie euripidee, si sono cristallizzati intorno ad alcuni episodi principali; uno dei tratti più significativi riguarda senz’altro l’uccisione dei figli avuti da Giasone provocata dall’abbandono da parte dell’eroe177

. Medea infligge dunque a Giasone una punizione che tocca uno degli aspetti più importanti in una cultura patriarcale come quella greca, quale la prosecuzione della stirpe. Possiamo ipotizzare che questo nucleo primigenio della tragedia potesse essere forse presente al compilatore della Tavola Ritonda, visto che nel breve passaggio sopra citato egli edifica una genealogia tutta al femminile dalla quale gli uomini sono completamente esclusi. Le donne che abitano nel regno Femminoro – Medeas, Lavina, Agnena, Bresenda, Pulizena, e Calistra nel ruolo di capostipite

175

Ivi, § XXV, p. 93.

176 F. Cardini, L’acciar de’ cavalieri cit., p. 77.

177 P. Caraffi, Figure femminili del sapere (XII-XV secolo), Roma, Carocci, 2003, p. 39: «Medea distrugge la

genealogia maschile di Giasone, la sua discendenza. L’atto di Medea è condannato in maniera così grave perché non inscritto nell’ordine paterno». Cfr. anche R. Morse, The Medieval Medea, Cambridge, D. S. Brewer, 1996, e P. Caraffi, Medea Medievale, in «Studi Mediolatini e Volgari», 47, 2001, pp. 223-237.

– non contemplano la possibilità del matrimonio e ricercano la collaborazione con il maschile con l’unico fine di poter praticare la lussuria. È come se la Tavola Ritonda raccontasse un frammento della storia di Medea, fotografandone la vita “a tragedia avvenuta”, quando cioè l’elemento maschile, che nella versione euripidea scatenava una tensione con l’altro sesso che era all’origine stessa della tragedia, è già scomparso completamente. La Tavola Ritonda ci racconta insomma il sequel, che cosa accade a Medea dopo Giasone quando, insieme ad altre illustri “disilluse d’amore”, conduce la propria vita in una enclave, l’isola Perfida, che ripropone in terra arturiana i costumi di un regno, il regno Femminoro, dal quale gli uomini erano stati definitivamente espulsi.

Si tornerà a breve su questi fondamentali aspetti della riproposizione del mito nella Tavola Ritonda, aspetti la cui esplorazione è possibile proprio per il tramite dell’onomastica. Se ci si pone alla ricerca della genealogia che la letteratura ha, nel tempo, costruito per il personaggio di Medea, scopriamo che l’eroina è «figlia del re Eeta, discende dal Sole, di cui è nipote […], è sorella o nipote di Circe “terribile dea della parola umana” (Odissea, 10, 136) e figlia, secondo la versione più antica, quella di Esiodo nella Theogonia, di Idia, dea marina, “colei che sa”. Il suo stesso nome rinvia alla sfera del sapere, dell’intelligenza, alla metis. Nella tradizione più recente la madre di Medea è invece Ecate, sovrana degli Inferi. Il deciso cambiamento di genealogia di Medea nel tempo è legato alla necessità di costruire un’immagine più forte, non più donna sapiente, donna divina, ma strega, fattucchiera terrificante»178. Le riletture di Medea nel Medioevo ne sospingono l’immagine verso una rappresentazione sempre più perturbante, disegnando per lei una parabola che la conduce dall’originaria figura legata alla divinità solare fino a diventare un personaggio sinistro, la cui origine è compromessa con le forze ctonie.

Di tutto questo nella Tavola Ritonda non rimane traccia. Il testo toscano specifica, infatti, quale sia l’origine di Medea e delle sue quattro sorelle, ma le presenta come discendenti di una delle sorelle d’Amore, Calistra. L’appartenenza alla genealogia del dio d’Amore, che sembra un evidente paradosso, è in realtà coerente con il principio che sottostà alla creazione di questo originale catalogo di donne che, proprio perché tradite dall’amore, si dedicano a esso in una forma paganeggiante, libera da freni e condizionamenti morali. Spesso la vena misogina che percorre la letteratura medievale italiana – e in questo la letteratura enciclopedica non fa certamente eccezione – utilizza l’argomento della lussuria per gettare discredito sulla donna. Un caso emblematico si ritrova nelle rime dell’anonimo veneto che raccoglie e organizza i Proverbia que dicuntur super natura feminarum (XII secolo), che ha

nelle malvasie femene l’argomento principale del proprio lavoro; tra gli exempla femminili negativi che leggiamo in quest’opera, numerose sono le coppie “eccellenti” nelle quali la donna si rivela una traditrice: da Eva e Adamo, passando per Salamone e la moglie, Elena che abbandona Priamo per Paride, Sansone tradito dalla moglie, e naturalmente Didone. Infine, si arriva a Medea:

Medëa, la fii[ol]a del rei de Meteline, per amor de Iasón lo frar tras a rea fine, e felo desmembrare gitar per le spine, poi fuçì con lo druo per pelago marine. E poi con le soi arte ela Iasón aucise: eu no truo[vo] qi digame, ela que vïa prese. Voi qe leçé ’ste scrite, en celato e en palese vardaive da le femene, q’ele son vaire e grise179

.

Interessante notare che l’anonimo veneziano dichiari di non essere a conoscenza del destino di Medea. È proprio sulla sorte dell’eroina dopo l’abbandono da parte di Giasone, nello spazio di autonomia consentito dal vuoto di informazione della leggenda, che si concentra la Tavola Ritonda. Una sezione molto simile si può leggere anche nelle Questioni filosofiche, dove i casi citati sono analoghi a quelli dei Proverbia: si tratta dei racconti di coloro che, corrotti dalla lussuria, sono incorsi nella «privatione del senno et de lo intellecto»180. A questo proposito, le Questioni citano alcuni versi la cui provenienza è difficile da stabilire181: «unde dice un poeta “Considera Virçilio, Merlino cum Sansone / l’alto re Davit col filgliuol Salamone: / ciascuno per la femena perdea stato et honore»182. Qui non compare il nome di Medea, ma certamente risulta chiara la trattazione del suo personaggio in base agli schemi moralistici offerti dalla letteratura didattica medievale. L’immagine di Medea è quella di una donna totalmente in balia delle proprie pulsioni e dei propri desideri, che approda, dopo aver infinitamente amato, alla totale incapacità di provare un sentimento che vada al di là del semplice istinto fisico. Molto più statica dunque la rappresentazione ritondiana, che la fissa nell’emblema, nel simbolo, nella personificazione della lussuria, che sembra più ispirata a figure assimilabili alla Semiramide dantesca che derivata da una conoscenza più approfondita e problematica del mito classico.

179 Proverbia que dicuntur super natura feminarum, in Poeti del Duecento, ed. G. Contini, I, Milano-Napoli,

Ricciardi, 1960, pp. 521-555 (ivi, p. 528).

180

Questioni filosofiche, II, p. 153. Le Questioni filosofiche rappresentano il volgarizzamento delle Questiones

naturales, trattato didattico in forma di dialogo redatto nel XII secolo dal filosofo inglese Adelardo di Bath.

181 Ivi, Introduzione, I, p. XXXI: «Benché siano molti gli esempi coevi di svolgimento del tema tramite l’elenco

di famosi e sfortunati amanti del passato, incuriosisce […] l’esistenza di componimenti misogini di provenienza ferrarese nei quali si menzionano proprio il tradimento di David, gli esempi di Salomone e di Sansone e le disavventure amorose di Virgilio e Merlino».

Non si può comunque escludere l’ipotesi che l’inserimento di Medea tra le discendenti del regno femminoro possa essere ancora una volta determinata dalla profonda conoscenza della Commedia dantesca, e in particolare di Inferno XVIII (vv. 86-96).

Quelli è Iasòn, che per cuore e per senno li Colchi del monton privati fène. Ello passò per l’isola di Lenno, poi che l’ardite femmine spietate tutti li maschi loro a morte dienno. Ivi con segni e con parole ornate Isifile ingannò, la giovinetta

che prima avea tutte l’altre ingannate. Lasciolla quivi, gravida, soletta; tal colpa a tal martirio lui condanna; e anche di Medea si fa vendetta.

Giasone si sarebbe macchiato più volte, nelle sue peregrinazioni alla conquista del vello d’oro, della grave colpa di aver sedotto delle fanciulle innocenti, abbandonandole poi al proprio destino. Dante sembra qui trattenere l’immagine che di Medea gli giunge per il tramite di Ovidio (Metamorfosi, VII, 1-158; Heroides, XII), e cioè quella della vittima, al pari di Isifile/Ipsipile, del seduttore Giasone, collocato infatti dal poeta nelle Malebolge, il cerchio dei fraudolenti. Occorre qui soffermarsi sulla figura di Isifile/Ipsipile, figlia del re di Lemno, che era riuscita, a fronte della decisione delle donne lemnie di sterminare tutti gli uomini dell’isola perché ritenuti colpevoli di un eccesso di trascuratezza nei loro confronti, a sottrarre a questa sorte il padre Toante. È chiaro che nelle donne lemnie risiede il desiderio, originato dalla ribellione a una società maschile, di dare vita a uno stato ginocratico. È proprio sull’isola di Lemno che approdano gli Argonauti. Le donne dell’isola, si è detto, covavano sentimenti di profonda ostilità verso i propri uomini, che rapivano le ragazze tracie e vivevano con loro. Il mito primario al quale è ispirato il racconto delle donne di Lemno è naturalmente quello delle Amazzoni, le famose donne guerriere (la più valorosa è senz’altro Ippolita) delle quali si narra che si amputassero il seno destro perché costituiva un impedimento nel tiro con l’arco, e che lasciassero in vita, dopo la nascita, solo le figlie femmine.

Quello relativo al regno femminoro appartiene a un sostrato mitico molto diffuso, in varie forme, nel Medioevo. Se andiamo infatti alle Chiose all’Inferno, a proposito del passaggio prima citato di Inferno XVIII, Jacopo Alighieri nel raccontare il mito di Medea, si sofferma sul personaggio di Giasone accostando i casi di Medea a quelli di Ipsipile:

Colla qual segnoria permanendo, lasciando Medea, un’altra moglie riprese; per lo qual dolore ella celatamente due suoi figliuoli in alcun convito mangiar gli fece: per lo quale inganno parte di suo dovere qui della presente bolgia si segue.

Ancora del detto Iasone d’un altro inganna<men>to simigliantemente così si ragiona che, andando nel sopra detto paese di Cochia, ad alcuna isola di mare nominata Lenno pervenne, della quale, secondo i poeti, tutte le femmine con saramento insieme d’uccidere tutti i lor maschi, per alcuno odio ch’era tra loro e loro, fermamente si propuosero. Per lo quale, sentendo i[l] re della detta isola la notte che ciò si facea il lamento e ’l pianto che de’ suoi medesimi ciascuna facea, a sua figliuola, nominata Isifile, domandamento ne fece; la quale rispondendogli la continenza giurata gli disse, e simigliantemente che della terra, cioè de l’isola, incontanente si dovesse partire, però che a lei il cuore non sofferìa come all’altre d’ucciderlo: per la qual partita, l’altre da lei in cotal modo ricevettero inganno. E così sole per alcun tempo istando, il detto Iasone, come è detto di sopra, quivi ad esse pervenne; nella quale, per pugna d’assedio con certi compagni, a patti finalmente fu messo; dove colla reina delle dette femmine nominata Isifile a stare carnalmente si mise, promettendole che nella sua tornata nelle sue parti la ne menerebbe: e così, gravida di lui, nel detto luogo, sanza tornarvi mai, si rimase. Per lo quale inganno simigliantemente qui si concede183.

Risulta dunque chiaro che nella memoria del compilatore della Tavola Ritonda il ricordo dei miti di Ipsipile e di Medea poteva facilmente fondersi in un racconto unico, poiché la stessa Commedia le ricorda insieme tra le vittime del seduttore Giasone. È quindi Medea nella Tavola Ritonda a governare l’isola Perfida, regina di questa ginocrazia alla quale il compilatore toscano conferisce il nome di Regno Femminoro.

Questa fusione tra differenti figure femminili del mito classico è “autorizzata” anche da altri passi danteschi, per esempio da Inferno IV (vv. 124-126), dove compaiono, tra gli spiriti magni del Limbo, i personaggi di Pentesilea e Lavinia («Vidi Cammilla e la Pantasilea; / dall’altra parte, vidi ’l re Latino / che con Lavina sua figlia sedea»). Pentesilea è appunto regina delle Amazzoni, «reina de[l] regno femminoro, la quale essendo con grande cavalleria di donne in aiuto de’ Troiani venuta, da’ Greci finalmente fu morta»184. Non sarà dunque forse un caso che nell’elenco delle quattro sorelle di Medea fornito dalla Tavola Ritonda figuri anche Lavinia, personaggio virgiliano che, come abbiamo visto, Dante menziona a diretto contatto con quello della regina del regno femminoro, e che la Tavola Ritonda, pur essendo Lavinia la fedele sposa di Enea, poteva dunque facilmente assimilare (per una cattiva comprensione del passaggio dantesco oppure con una finalità ironica) a questo contesto. Per restare nell’ambito delle figure mitologiche collegate al mito delle Amazzoni, bisognerà sottolineare che il manoscritto senese, come riportato da Polidori185, presenta, per il nome della regina Calistra, la variante Talistre. Questo nome ricorda molto da vicino quello di

183

Iacopo Alighieri, Chiose all’Inferno, ed. S. Bellomo, Padova, Editrice Antenore, 1990, pp. 159-160.

184 Ivi, p. 104.

un’altra regina riconducibile al regno femminoro, Talestri, che ritroviamo, per fare un esempio medievale, nel volgarizzamento realizzato da Bono Giamboni delle Storie contro i Pagani di Paolo Orosio:

E però il grande Alessandro, dipo’ la morte di Dario, gl’Ircani e i Mardi si sottopuose: nel quale luogo essendo egli ancora alla battaglia inteso, il trovò Talestri, ovvero Minotea, reina delle Amazzoni, cioè del regno femminoro, la quale venia a lui con trecento donzelle per cagione d’avere figliuoli di lui186

.

Abbiamo citato un esempio italiano, ma bisogna ricordare che Talestri figura anche nel