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L’incipit del ms Firenze, BNC, Palatino 556: una mise en vers della prosa

Il dittico proemio-congedo nella tradizione italiana del Tristan en prose

6. La Tavola Ritonda

6.2 L’incipit del ms Firenze, BNC, Palatino 556: una mise en vers della prosa

La Tavola Ritonda non ha tra le sue fonti solo dei modelli transalpini – Tristan en prose, Queste del Saint Graal, Mort le roi Artu –, ma esibisce un rapporto di diretta discendenza dal Tristano Riccardiano (fine XIII secolo), il testimone più autorevole nella precoce penetrazione toscana del Tristan en prose, importante per antichità redazionale e in quanto rappresentante della cosiddetta redazione R che tanto peso ha avuto nella diffusione europea della leggenda tristaniana. Il Tristano Riccardiano costituisce infatti dunque la base indubitabile della prima sezione della Tavola Ritonda, così come quella delle successive traduzioni toscane e venete del Tristan en prose, fino a quelle spagnole e slave. A quanto emerge dalla combinazione dei dati che si possono trarre dai testimoni che ci sono fin qui pervenuti, la redazione R, prima di sfociare nella stesura della Tavola Ritonda come la

270 La presenza di Carlo Magno nel Tristan en prose e nella Tavola Ritonda sarà analizzata più avanti nel

capitolo dedicato ai percorsi ecfrastici. Cfr. infra capitolo V, § 5.2, “Carlomagno e la translatio gladiorum”.

271 Si ricordi che sono scritti in volgare pisano i frammenti di Pistoia (seconda metà XIII secolo), il cosiddetto

conosciamo oggi nell’edizione Polidori, avrebbe dato origine ad una prima versione della Tavola Ritonda, oggi andata perduta, che probabilmente conteneva l’intera storia di Tristano272 e che D. Delcorno Branca chiama per comodità Tavola Ritonda X273. La Tavola Ritonda X si sarebbe quindi dapprima diffusa in Toscana, dove avrebbe innescato la nascita della Tavola Ritonda toscana (edizione Polidori), e in un secondo momento avrebbe raggiunto l’Italia nord-orientale originando una differente redazione della Tavola Ritonda, attestata dal ms. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Palatino 556 (1446)274. Questa versione, di area padana, sarebbe quindi imparentata con la Tavola Ritonda toscana, ma non ne sarebbe un diretto discendente, poiché sembra appartenere ad un ramo indipendente rispetto agli esiti di quello toscano (che nel frattempo continuava a circolare), sviluppatosi quindi autonomamente dall’ignoto antigrafo275

.

Il manoscritto – commissionato dai Gonzaga di Mantova, secondo l’opinione di D. Delcorno Branca, o forse destinato a Maria Visconti e Francesco Sforza, se si accetta la posizione di A. Luyster276 – riporta una data, il 20 luglio 1446, e il nome di un copista, quello di Zuliano de Anzoli277. Ciò che rende il Palatino 556 un testimone unico nel panorama della tradizione tristaniana in Italia sono i 289 disegni a penna che punteggiano le sue 171 carte. Le sue illustrazioni mostrano una «genesi contestuale alla scrittura del testo»278, quindi è chiaro

272 Che sia questo il libro di tutte le storie arrivato nelle mani di Gaddo de’ Lanfranchi?

273 Cfr. D. Delcorno Branca, La «Tavola Ritonda»: tradizione toscana e padano-veneta, in Ead., Tristano e

Lancillotto cit., pp. 99-113.

274 Sul ms. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Palatino 556, si vedano: Il Tristano Riccardiano, ed. E. G.

Parodi, in particolare pp. XXXVI-LIII; P. Breillat, Le manuscrit Florence Palatin 556 cit.; M. Rasmo, Il codice

Palatino 556 e le sue illustrazioni, in «Rivista d’arte», 21, 1939, pp. 245-281; A. Stones, The Illustrations of BN, fr. 95 and Yale 229. Prolegomena to a Comparative Analysis, in K. Busby (a cura di), Word and Image in Arthurian Literature, New York-London, Garland, 1996, pp. 203-260; D. Delcorno Branca, I “Tristani” cit.;

M.-J. Heijkant, Tristan im Kampf cit.; A. Luyster, Playing with Animals: The Visual Context of an Arthurian

Manuscript (Florence Palatino 556) and the Uses of Ambiguity, in «Word & Image», 20, 2004, pp. 1-21; R.

Barber, The Grail Quest cit. Il testo è finalmente fruibile grazie a una recente edizione affidata alle cure di Cardini e che annovera i lavori di molti studiosi autorevoli: Tavola Ritonda. Manoscritto Palatino 556 della

Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, ed. R. Cardini, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2009. Si è

reso necessario allestire una edizione di lusso, riproduzione integrale con facsimile appunto per poter divulgare l’importante apparato iconografico legato alla leggenda tristaniana, che consta di 289 disegni eseguiti a penna che punteggiano le 171 carte di cui si compone il manoscritto. Importanti i saggi contenuti in questo volume: D. Delcorno Branca, Le carte piene di sogni. Introduzione alla Tavola Ritonda padana, pp. 3-18; L. Bertolini, La

lingua del Palatino 556, pp. 19-58; M. Faietti, La Tavola Ritonda, Zuliano degli Anzoli e la bottega dei Bembo,

pp. 59-82; A. Hoffmann, Il rapporto testo-immagine: un caso particolare, in Tavola Ritonda. Manoscritto

Palatino 556 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, pp. 83-102; P. G. Tordella, Le icone disegnate del manoscritto Palatino 556. La dimensione esecutiva come veicolo di lettura critica, pp. 103-112; A. Di

Domenico, Un cavaliere sotto l’insegna del leone rampante. Una nuova ipotesi di committenza, pp. 113-122; Id., Scheda codicologica, pp. 123-128. Le citazioni di questo testo padano della Tavola Ritonda saranno tratte da questa edizione e il testo sarà menzionato come Tristano Palatino.

275

Per l’analisi dello schema di trasmissione della leggenda tristaniana in Italia cfr. D. Delcorno Branca,

Tristano e Lancillotto cit., p. 112.

276 A. Luyster, Playing with Animals cit. 277

Si veda il colophon, alla c.172r, che riporta una data e una firma ben precise: «Questo libro fato per Zuliano di Anzoli fo livro in M.CCCCo.XI.VJ. a dì XX de luyo».

che i due aspetti, quello testuale e quello visivo, erano fin dall’inizio pensati come facenti parte dello stesso progetto culturale, probabilmente coordinato dallo stesso Zuliano de Anzoli, non si sa se solo nella veste di copista o anche in quella di disegnatore di un atelier lombardo legato al pittore Bonifacio Bembo279. Per quanto riguarda i modelli iconografici, i disegni a penna del Palatino riflettono gli schemi delle miniature della Francia del nord, ma denunciano anche il debito contratto con gli affreschi di tema arturiano che Pisanello aveva eseguito proprio nel palazzo ducale dei Gonzaga a Mantova280.

Anche nel caso del Tristano Palatino, il prologo rappresenta una utile via d’accesso per comprendere la distanza che separa questa versione padana dalla Tavola Ritonda toscana. «Dito di lo prinzipio di Lanziloto» è il “titolo” rubricato con il quale si apre la prima carta del manoscritto. Questa circostanza disorientante non manca di essere segnalata nel catalogo dei Codici Palatini della Biblioteca Nazionale di Firenze, che si premura di precisare: «Lancillotto è il titolo impresso nella coperta. Ma si tratta veramente della Tavola Rotonda, perché vi si comprendono i tre soliti gruppi di fatti, di Lancillotto, di Tristano, e della inchiesta del Santo Gradale»281. Il consiglio è dunque quello di non lasciarsi sviare dal titolo Lancillotto (impresso anche nella coperta) perché, come nella Tavola Ritonda, sarà sempre Tristano il cavaliere sul quale si concentrerà il fuoco narrativo. Ciononostante, non si può negare che una delle tendenze che sembrano caratterizzare il Tristano Palatino rispetto alle opere sorelle toscane è proprio il tentativo di concedere uno spazio più ampio al cavaliere antagonista di Tristano282. L’incipit pone fin da subito l’accento su uno degli aspetti in cui la versione padana differisce maggiormente rispetto alla Tavola Ritonda Polidori, nella quale si ha comunque nei primi capitoli la narrazione dell’iniziazione di Lancillotto alla vita cavalleresca, ma in una forma diversa da quella del Palatino, dove una delle maggiori innovazioni proposte al lettore si coglie non appena si varca la soglia della rubrica iniziale. Se l’orecchio che accompagna la lettura interiore della pagina si tende appena un po’, dietro una narrazione apparentemente prosastica si scopre che le prime tre carte del manoscritto si lanciano in quello che è stato interpretato come un rozzo tentativo di versificare il testo. La recente edizione del ms. coordinata da F. Cardini, nella trascrizione del testo, rispetta l’impaginazione del manoscritto riproponendone la facies grafica prosastica, ma basterà introdurre gli opportuni a capo per visualizzare con facilità l’assetto metrico. Bisogna infatti rilevare come sulla pagina del manoscritto si notino dei segni proprio in corrispondenza delle

279 D. Delcorno Branca, Lecteurs et interprètes des romans arthuriens en Italie cit., p. 176. 280 E. L. Goodman, The Prose Tristan and the Pisanello Murals, in «Tristania», 3, 1978, pp. 22-35. 281

I Codici Palatini della Regia Biblioteca Nazionale di Firenze, II/2, Roma, Presso i principali librai, 1890, pp. 119-120.

cesure rimiche, il che limita dunque le possibilità che in questa sede si proceda a un’operazione del tutto arbitraria.

Al nome de dio e dela sua madre verzene maria, da cui procede unia grazia. Che io vi volio dire e acomenzare

(per cortesia intendite, bona zente) de Lanziloto io vi volio contare come foe alevato imprimamente. E poi vi conterò di lo grando afare, come foe chavalero primamente: in corte di lo re Artuso di Camiloto, lo più prode homo sì fue Lanziloto283.

L’incipit con la preghiera alla Vergine ricalca lo spirito di devozione mariana che si riscontrava anche nella Tavola Ritonda, nonché quello di molti cantari in ottave, che presentano in apertura una invocazione religiosa. Il proemio ostenta infatti i tipici elementi dell’esordio canterino, per esempio l’esortazione rivolta al pubblico affinché si disponga al silenzio e ad un ascolto attento («per cortesia intendite, bona zente»). Segue la presentazione della materia e del suo protagonista. Sarebbe interessante andare oltre il proemio, per guardare quali innovazioni vengano apportate dalla riduzione in ottave della materia dei primi capitoli della Tavola Ritonda.

[Rubrica] Come la Dona di lo Laco scampò Lanziloto e, andando a corte, como s’inscontrò in li chavalieri

Lo re Bando morite di dolore, chi era suo padre per udito dire, e Lanziloto, lo pizolo garzone,

come elo foe alevato io vi lo volio dire. La Dona di lo Laco †lo fo sone†, tolselo per arte e fecilo nutrire, quatordice ani lo tene [celato?] che none vide figura d’omo. E que la dona savia e cognoscente vedea, per arte, ch’ela sapea fare, che Lanziloto lo donzelo piazente venìa prode homo per li arme portare, ché pochi se ne trovò a lo so vivente che di lo arzone lo podese corlare, se no Galaso da Dio aconpagnato: seria grande torto a tenirlo celato.

«Molto me increse e grande doia n’àgio como me restringie a lo mio coragio. A corte di lo re Artuso lo volio mandare che lo fazia chavalero a grando honore e per zintileza che io li donaròe trenta donzele con frescho colore». E fecilo venire amantinente, poi gli conta tuto lo convinenete: «Volio che andati a la Tavola Ritonda, questo valeto como vui sì menate davanti a lo re e non abiate vergogna; inseme como lui sì ve inzenochet[i], ditige che lo manda una dona che sta in uno laco per arte ordinata, che lo fazia chavalero a grando honore, che indela sua corte non è uno miore»284.

Si potrebbe proseguire con la citazione, ma già questo breve assaggio è sufficiente per dare un’idea del tentativo. Andando al di là dell’interessante iniziativa, presto abbandonata, di ricalcare nelle prime tre carte la tradizione epica e di esportare l’andamento delle ottave che si erano affermate nella produzione canterina italiana285 cimentandosi in un esperimento di versificazione di più ampio respiro, troviamo confermato quanto era stato anticipato nella rubrica. Mentre il testo della Tavola Ritonda toscana ci offriva in apertura una sezione tratta dal Guiron le Courtois286, qui nel Palatino la materia che si mette in versi è la giovinezza di Lancillotto, sezione che si ritrova anche nella Tavola Ritonda toscana, nella quale però compare solo all’altezza del § VI287. Entrambe le redazioni della Tavola donano assoluta centralità a un episodio il cui modello risale al Perceval di Chrétien de Troyes (presente nel Tristan en prose solo in posizione decisamente più avanzata288 e con Perceval protagonista): Lancillotto, allevato dalla Dama del Lago in un ambiente ovattato al riparo da ogni contatto con il mondo esterno, fa il suo primo incontro con la cavalleria, oggetto della sua stupita contemplazione estatica. Non è da escludere che, oltre al tentativo di collocare Lancillotto dai

284 Ibidem.

285 Per l’elenco dei cantari di argomento arturiano e tristaniano noti fino a questo momento si veda F. Cigni, Un

nuovo testimone del cantare Ultime imprese e morte di Tristano, in «Studi Mediolatini e Volgari», 43, 1997, pp.

131-191, in particolare p. 140, nota 41. Si vedano anche D. Delcorno Branca, Il cavaliere dalle armi incantate cit., e le edizioni: Cantari di Tristano, ed. G. Bertoni, cit.; Cantari fiabeschi arturiani, ed. D. Delcorno Branca, Milano-Trento, Luni editrice, 1999.

286

F. Cigni, Per la storia del Guiron le Courtois in Italia, in G. Paradisi, A. Punzi (a cura di), Storia, geografia,

tradizioni manoscritte («Critica del testo», 7/1), Roma, Viella, 2004, pp. 295-316; Id., Mappa redazionale del

Guiron le Courtois diffuso in Italia, in A. M. Finoli (a cura di), Modi e forme della fruizione della “materia

arturiana” nell'Italia dei sec. XIII-XIV, Milano, Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 2006, pp. 85-117.

287 Tavola Ritonda, § VI, p. 13. 288 Löseth, § 308.

margini della periferia narrativa alla centralità dell’inizio, vi sia anche l’intento di accompagnare gradualmente il lettore all’interno del testo con la stessa naiveté e la stessa gioia infantile che procura a Lancillotto la prima visione di tre cavalieri, che era «troppo bella cosa a vederli»289. Questo incontro fornisce infatti al romanzo il pretesto per elaborare uno dei primi tentativi di ripensamento della nozione di cavalleria. Nel Tristano Palatino, Galvano spiega al giovane Lancillotto il significato delle armi che compongono la sua armatura:

De tute le arme a domandar prendea, perqué le portava e que vertù avea. Respose meser Galvano lo Liale e de tute le arme sì li rendea rasone: «Lanza e spada portiamo per ferire e coraza per nostra guarnisone e questo scuto portiamo per coprire quando ne damo li colpi abandonati». E Lanziloto àvelo ascoltato,

de avere delle arme si era tuto inamorato290.

Dal confronto con la Tavola Ritonda, la versione del Tristano Palatino offre una immagine più “ludica” del mondo cavalleresco; la risposta di Galvano si arresta alla spiegazione della sola funzione offensiva/difensiva di lance, spade e scudi ed è infatti dell’aspetto più limitatamente “sportivo” che Lancillotto si innamora. Al contrario la medesima scena nella Tavola Ritonda toscana va oltre una visione così epidermica del mondo dei cavalieri: messa tra parentesi la centralità delle armi, l’esercizio della cavalleria consiste in una vera e propria missione all’insegna della filantropia e della carità cristiana.

Et allora li cavalieri et le donzelle, avendo inteso il damigello, cominciarono a rídare fortemente, dicendo: - Damigello, noi non siamo nè Iddio nè Angeli; anzi siamo cavalieri, li quali andiamo per li lontani paesi dimostrando nostra prodezza, acciò che torto non si facci ad alcuna persona - 291.

Anche da questo breve confronto emergono chiaramente le difficoltà di gestione connesse con il processo incipitario di riduzione in ottave, prontamente abbandonato forse per via della consapevolezza non solo della gravosità che un tale lavoro avrebbe comportato data la lunghezza della materia tristaniana, ma anche del pericolo di banalizzarne eccessivamente il dettato. Nella Tavola Ritonda toscana, infatti, il passo dedicato alla presentazione della cavalleria è volto a inserirla all’interno di una prestigiosa gerarchia, al cui vertice siede Dio,

289

Tavola Ritonda, § VI, p. 14.

290 Tristano Palatino, p. 135. 291 Tavola Ritonda, § VI, p. 15.

poi gli angeli e infine i cavalieri; una rappresentazione di questo tipo nasconde l’evidente intento di fare di quest’ordine una casta intermedia, di cerniera, tra l’umano e il divino. Nel Tristano Palatino, invece, non resta nulla della profonda e problematica contraddizione che lacera la rappresentazione del cavaliere, diviso nella propria interiorità tra le opposte istanze dell’individualismo («andiamo per li lontani paesi dimostrando nostra prodezza») e dell’impegno disinteressato a favore della collettività («acciò che torto non si facci ad alcuna persona»). L’aggiunta di questo episodio dedicato a Lancillotto, desunto dal Perceval ed evidentemente già presente nella cosiddetta Tavola Ritonda X, ma assente nella redazione R testimoniata dal Tristano Riccardiano, non è privo di conseguenze nella Tavola Ritonda e nel Palatino. Il compilatore decide di mostrarci già nella sezione incipitaria la cavalleria con lo sguardo nuovo, non ancora usurato dall’abitudine, del “fanciullino” Lancillotto, imberbe adolescente cresciuto in una campana di vetro, in un gineceo intriso di valori religiosi e completamente al riparo da qualsiasi contatto con l’universo militare. Al principio del romanzo, una coerente trattazione del mondo della cavalleria non poteva prescindere da una riflessione su di essa che viene condotta attraverso un sistema narrativo fatto di progressivi avvicinamenti. Sia essa mera contemplazione estetica come nel caso del Lancillotto del Palatino oppure adombri una concezione della bellezza che non può andare mai disgiunta dalle qualità morali come nel caso della Tavola Ritonda toscana, in entrambi i casi si può vedere in trasparenza il comportamento proemiale della Tavola Ritonda X, volto a rendere più “accogliente” e comprensibile al pubblico dell’Italia medievale il lontano e inattingibile mondo feudale della Francia duecentesca.

Anche la traduzione che del Tristan en prose fornisce il Tristano Palatino è massicciamente interpolata con materiale proveniente dalla Compilazione arturiana di Rustichello da Pisa, nonché, come si è già avuto modo di vedere con la Tavola Ritonda toscana, con l’intromissione di una versione della Queste del Saint Graal più aderente a quella offerta dalla Post-Vulgate292. E anche il Palatino presenta, proprio a causa della concorrenza tra più materie, più prologhi antagonisti. Si è visto come, poco dopo la sezione incipitaria dedicata alle avventure dei cavalieri della Tavola vecchia, la Tavola Ritonda toscana sentisse la necessità di inserire un secondo prologo, interamente dedicato a Tristano. Anche il compilatore del Palatino provvede a corredare il proprio rimaneggiamento di un secondo prologo, che corrisponde al primo della Tavola Ritonda toscana.

Como questo cunta e divisa delle belle istorie dilla Tavola Negra, zuè dillo re Uter Padre gone e delli soi chavaleri in dell’anno dopo la morte de Yesù Cristo zuè CCCXXX forno quelli torniamenti.

Signori e baroni, questo libro devisa de le bele aventure che ’vegneano allo tempo dillo re Uter Padragon e fono fate allo tempo delli nobeli baroni di la Tavola Negra che fono indelo ano CCCXXX poso la morte de Cristo. Et apresso contaremo di la Tavola Nova, zuè de meser Tristano e meser Lanziloto e meser Galasso, e de queli de la Tavola Ritonda e de chavaleri straneri che a quello tempo provaveno loro persone. E dito questo oderiti de la destrucione della Tavola Redonda, la qualle intravene per la inchestia dello Sangue Gradalle. Et imperò ziascuno pona beno mente de intendere, aziò che·llo letore sia gradito e·lli auditori recevano in sì dileto293.

Interessante poi la collocazione dell’“incipit” quando ormai il pubblico ha superato la lettura di oltre due terzi del romanzo: mutato l’ordine consueto delle parti, questo primo/secondo prologo si inserisce alla c. 124r, dopo una lunga sezione tratta dalla Compilazione rustichelliana. In questo modo, se il prologo nella Tavola Ritonda toscana era lo strumento proemiale della finzione della completezza, la dislocazione operata dal Palatino rende meno marcata la progressione cronologica tra cavalieri di vecchia e nuova generazione. Verrebbe da chiedersi, data la divergenza tra la versione toscana e quella padana, quale fosse l’assetto redazionale della Tavola Ritonda X. Difficile sbilanciarsi a favore di una maggiore vicinanza ad essa nella Tavola Ritonda toscana, dal momento che anche qui si denota una sorta di ripensamento del progetto iniziale, e ancora più a favore della padana, dove si avverte la difficoltà nel gestire in modo logicamente consequenziale l’opposizione tra generazioni di cavalieri, mutata anche da un punto di vista terminologico (qui si parla di Tavola Negra e Tavola Nova), alla quale bisogna aggiungere la riduzione del quartetto degli eccellenti cavalieri della Tavola Rotonda alla originaria triade del Tristan en prose, con la caduta della menzione di Palamede.

Anche l’epilogo del Tristano Palatino conferma quanto era stato già messo in luce a proposito della rinnovata centralizzazione di Lancillotto. Non troviamo infatti la conclusione cavalleresca della Tavola Ritonda. Il ritmo non decresce lentamente, ma si interrompe recidendo di netto i fili della narrazione, senza che il compilatore vi apponga alcun commento.

E quini steti Lanziloto a servire a Dio, e stete monaco da XXII mesi et apresso morite