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Nonostante le opere contemporanee presentino una complessità intrinseca estranea alle loro antenate che ne ostacola un agevole inserimento in una prospettiva storica, nonché un ancoraggio a interpretazioni e valori definitivi, per molto tempo si è continuato a fare un affidamento pressoché totale sulla teoria brandiana, trascurando, dal punto di vista del restauro, qualunque differenza che non risiedesse nell’aggiornamento e modernizzazione dei materiali. Con i progressi nell’ambito della storia e della critica d’arte, raggiunti grazie all’aumento della distanza storica rispetto alle opere e che hanno portato a una maggiore comprensione della complessità sia semantica che fisica dei loro materiali, e all’intensificazione del numero di occasioni di riflessione e discussione sulle metodologie di restauro, in molti hanno sottolineato la necessità di una revisione, almeno parziale, dei principi brandiani. Anche laddove sia stato reso manifesto un cambiamento dell’oggetto del restauro, le attitudini e l’apparato teorico- metodologico, che considerano il restauro un atto critico all’insegna del rispetto dell’opera e dell’intenzione di proseguirne la vita, sono rimaste intatte31. Persino in strumenti che si

inseriscono in una metodologia di respiro più ampio, come ad esempio il DMM di cui si è appena parlato, i principi di Brandi rientrano fra le considerazioni riguardanti l’etica del restauro, elevati così al rango di best practice e arricchiti di un massiccio valore morale. Spontanea sorge la domanda sul perché, essendo cambiata la natura dell’arte e il modo stesso di fare arte, tanto da poter dire che siamo in presenza di un’arte del tutto nuova, non si possa ricorrere a una ugualmente nuova teoria del restauro, cucita addosso all’arte contemporanea e ai suoi problemi esistenziali. Viene da chiedersi anche il perché non si possa concedere all’arte tradizionale il privilegio di una teoria del restauro perfettamente adattata alle sue esigenze, che invece deve essere piegata per poter essere applicata anche a entità così aliene. Infatti, mutando 31 Cfr. G. Bonsanti, Proposte per una teoria del restauro del contemporaneo, in Cosa cambia: teorie e pratiche del

restauro nell’arte contemporanea, a cura di M.C. Mundici, A. Rava, Skira, Milano 2013 e cfr. O. Chiantore, A. Rava, Conservare l’arte contemporanea: problemi, metodi, materiali, ricerche, Electa, Milano 2005

il concetto di arte, la quasi totalità delle direttive brandiane rischia di ritrovarsi drasticamente deformata, forzata nella matrice di una forma artis differente.

Seppure il riconoscimento debba avvenire ogni volta nella singola coscienza, in quel momento stesso appartiene alla coscienza universale.32

In Brandi l’opera d’arte è universalmente tale, apparendo con la stessa intensità sulla soglia di ogni coscienza e ricreando continuamente la medesima esperienza che diventa quindi condivisa e condivisibile, in un generale accordo di riflessioni e intenti. La teoria di Brandi è facilmente applicabile all’arte tradizionale perché in passato le qualità e i valori apprezzati, a livello estetico, tecnico e morale, erano ben definiti, e ciò che nobilitava le creazioni di un artista era manifesto e condiviso, semplificando così il processo di riconoscimento di un’opera d’arte e la sua distinzione da altri tipi di produzioni artigianali.

Ora che i valori tradizionali sono stati pensionati (se non a livello di pubblico, sicuramente a livello storico ed economico) e non sono stati sostituiti (come ben anticipato dall’operato del Dada e di Marcel Duchamp), riconoscere un’opera d’arte tra i tanti ed eterogenei prodotti artistici contemporanei può risultare assai complicato33. L’istanza estetica di cui parla

Brandi, attinente a un’interpretazione novecentesca della nozione di “estetica”, riguardante la definizione di opera d’arte e di arte nella sua totalità, e qui riferita all’artisticità che fa di un’opera un’opera d’arte, viene così messa in grande dubbio, mancando ormai il consenso proprio sulle condizioni estetiche stesse, dal momento che i parametri su cui si basavano le vecchie certezze sono definitivamente cambiati.

Si restaura solo la materia dell’opera d’arte.34

In base al primo assioma, l’intervento deve essere limitato esclusivamente alla componente fisica dell’opera in quanto luogo della manifestazione dell’immagine da cui dipendono la trasmissione e la ricezione. Presiedendo alla possibilità del riconoscimento, è quella la facoltà che la conservazione mira a preservare. Inoltre si restaura solo la materia e non l’immagine poiché, nonostante siano “elementi coestensivi”, è nell’immagine che risiede l’istanza estetica che conferisce all’opera la sua singolarità e pertanto non deve essere alterata, altrimenti il messaggio che comunica verrebbe inevitabilmente deformato. Per quanto questo sia valido anche nell’arte contemporanea, non si può non mettere in evidenza uno shift nel “cosa” viene comunicato: dall’immagine si passa all’idea, che dovendo rimanere ugualmente intatta pone non pochi problemi di metodo. Se nell’arte tradizionale il restauro dell’immagine comporta 32 C. Brandi, Teoria del restauro (1963), Einaudi, Torino 2000, pp. 6-7.

33 Tra l’altro, la locuzione comunemente usata di “opera d’arte” coniuga la definizione medievale di ars liberalis con il concetto estetico di derivazione romantica, ed è quindi legata alla maestria di determinate tecniche per la comunicazione di un valore estetico. Tuttavia, pur rigettando l’arte contemporanea questo tipo di esperienza estetica avente a che fare con l’idea di “bellezza”, si continua a utilizzare il termine “opera d’arte”, con le tutte le implicazioni che reca con sé. Verrebbe da chiedersi se sia corretto continuarlo a utilizzare, anche solo per comodità e convenzione linguistica. 34 C. Brandi, Teoria del restauro (1963), Einaudi, Torino 2000, p. 7.

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la perdita dell’autorialità e quindi dell’autenticità e dell’originalità del messaggio - e può essere evitato con le dovute precauzioni rifiutando qualunque intervento troppo ardito nonché i cosiddetti “restauri di fantasia”, nell’arte contemporanea risulta più facile snaturare l’idea poiché, a differenza dell’arte precedente in cui ciò che si restaura lo si ha davanti agli occhi in forma materiale e tangibile, l’idea non può essere vista e toccata nella sua interezza, essendo costituita anche da parti immateriali, come allusioni e riflessioni filosofiche che le componenti concrete hanno solo il compito di suscitare, o comunque esterne all’opera in sé, come le interazioni con gli agenti atmosferici e con il pubblico. Non solo le esigenze dell’opera rimangono quindi talora oscure, ma la scarsità di strumenti per comprenderla, di cui si è già parlato, comporta un rischio elevato di travisare il suo significato e di non identificare l’idea e le fattezze e i materiali in cui si incarna. Ne consegue che, per quanto venga perpetuata la coincidenza tra materia e ciò che questa veicola, la loro identità non potrà non essere di tipo diverso. Nell’arte tradizionale infatti la materia ha un ruolo meramente di supporto: è necessaria ma non ha un significato se non come veicolo. In sé non significa nulla, è inerte. Nell’arte contemporanea, al contrario, la materia è spesso il significato. Pertanto, se l’opera d’arte continua sì a essere un intero - l’unicum di cui si parlava prima - non sarà più definita dalla coniugazione di istanza estetica e istanza storica, ma sarà sancita dall’unione di significato e materia - il fattore temporale considerato o come collaterale o, nel caso dell’arte con componenti effimere, come contribuente al significato dei materiali.

Il restauro deve mirare al ristabilimento dell’unità potenziale dell’opera d’arte, purché ciò sia possibile senza commettere un falso artistico o un falso storico, e senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo.35

Nel secondo assioma si ha l’istituzione del rapporto dialettico tra le due istanze che per Brandi concorrono alla qualificazione dell’opera d’arte come tale, ossia quella estetica e quella storica. La placida conciliazione tra la necessità di preservare le testimonianze dell’invecchiamento e della storia dell’opera e l’imperativo di proteggere la sua artisticità si trasforma, in epoca contemporanea, nel principio di rigida esclusione delineato da van Wegen: un aut-aut tra la conservazione dei materiali originali indipendentemente dalla loro capacità di essere efficaci veicoli di significati e la sopravvivenza della completezza dell’idea anche a costo di vestirla di abiti non di marca e di seconda mano. Il compromesso brandiano, dalla risoluzione abbastanza agevole, si complica a tal punto da veder moltiplicarsi non solo il numero di esigenze in gioco, ma anche e soprattutto la natura di queste, che può esulare dall’ambito artistico o essere legata alla materialità dell’opera in maniera solo secondaria, come le considerazioni riguardanti la sua importanza all’interno della produzione dell’artista e della società di cui fa parte - indice del fatto che l’opera è uscita, sotto più aspetti, dal bidimensionale regno metaforico di cui faceva parte, ritrovandosi, ancor più profondamente di quanto immaginasse, immersa nella realtà delle cose. Ancora una volta, la messa in discussione dell’universalità dei valori artistici implica una 35 Ibid., p. 8.

proliferazione delle dimensioni del problema e dei punti di vista sotto cui esaminarlo.

La materia come epifania dell’immagine dà allora la chiave dello sdoppiamento […] che ora si definisce come struttura e aspetto.36

Nell’arte contemporanea la differenza tra queste due componenti si fa ancora più labile che nell’arte tradizionale, poiché talvolta vengono a coincidere e accade che l’aspetto di un’opera diventa la sua stessa struttura - dopo tutto, il dissolvimento del supporto nell’opera non può che generare una tale confusione dei ruoli e indistinguibilità delle parti, in cui vengono abolite le gerarchie espressive in favore di un’entità omogenea caratterizzata da un unico scopo condiviso. Basti pensare ancora una volta ai ready-made, o alle opere di Thomas Hirschhorn, in cui le conformazioni di cartone e nastro da pacchi che irrompono nella stanza sfondando il soffitto sono a un sol tempo ossatura e sembianza di se stesse, così da rendere una simile differenziazione tanto superflua quanto inutile: sono semplicemente ciò che sono, alleggerite dalla sparizione della distinzione tra un “interno” e un “esterno” che infine si dispiega in un unico limpido e chiaro livello di materia, trasferendo la complessità strutturale dall’opera concreta alla mente dell’osservatore. Anche in opere come Candelabra with heads (2006), in cui le figure sono quasi totalmente ricoperte dal nastro da pacchi e sembrano scomparire all’interno, le parti nascoste si dimostrano indispensabili alla creazione della fisionomia - e quindi dell’aspetto – finale.

Ma si pensi anche ai lavori di Nam June Paik, in cui tanto i video quanto i televisori in sé concorrono nella medesima misura alla produzione del significato. Gli apparecchi televisivi infatti non sono solamente supporti visivi ma materiali artistici veri e propri, dotati di una loro poetica e di una loro funzione in qualità di elementi scultorei, e talvolta l’artista impiega i loro peculiari meccanismi di funzionamento per dare vita alle forme e alle distorsioni delle immagini che si vedono sullo schermo. Gli unici tipi di arte che mantengono una qualche duplicità, oltre a quelle opere che si inseriscono nel filone della pittura e della scultura propriamente dette, sono la video-arte e la net-art, di cui l’ultima rappresenta un caso tutto particolare, non necessitando di un restauro del supporto dal momento che cambia di volta in volta a seconda di chi visiti la pagina web.

L’immagine è veramente e solamente quello che appare.37

L’unità figurativa dell’opera d’arte si dà in una con l’intuizione dell’immagine come opera d’arte.38

Alla luce dello shift verso l’idea, tutte quelle proposizioni e principi che si basavano sull’immagine necessitano di una rivalutazione. Poiché l’idea, pur assumendo una forma fisica concretizzandosi nei materiali, rimane comunque intangibile, soprattutto perché si costruisce 36 Ibid., p. 10.

37 Ibid., p. 15. 38 Ibid., p. 16.

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di una galassia di rimandi di significato, situazioni storiche, storie e ricordi che possono apparire solamente alla coscienza dell’osservatore e dell’artista, e pertanto richiederà misure conservative di natura differente rispetto a quelle riservate all’arte tradizionale.

A questo proposito, nei corollari 1 e 2 alla definizione di unità figurativa viene sancito come, nel caso l’opera risulti “fisicamente frantumata”, “l’opera dovrà continuare a sussistere potenzialmente come un tutto in ciascuno dei suoi frammenti” e “si dovrà cercare di sviluppare la potenziale unità originaria che ciascuno dei suoi frammenti originali contiene”. Anche questo risulta assai problematico da mettere in pratica nell’arte contemporanea, dal momento che l’idea e i materiali che costituiscono le opere formano una sinergia talmente perfetta che nel caso uno dei due non sussista o non sia più operativo l’intera macchina smetterà di funzionare e non sarà che un rottame o un rifiuto. Da un lato, se scompare l’idea alla base dell’opera, ci si ritrova davanti a delle semplici cose accostate l’una all’altra e prive di una logica che le leghi insieme; dall’altro, l’opera contemporanea sussiste esclusivamente se tutte le sue parti sono presenti e attive, poiché prese singolarmente, smembrando l’opera, non sono che cose. La margarina, estrapolata dal contesto dell’opera di Beuys, non è che grasso per cucinare.

Non bisogna respingere il ristabilimento dell’unità potenziale fino a distruggere l’autenticità, e cioè sovrapporre una nuova realtà storica inautentica, assolutamente prevalente, all’antica.39

Un qualsiasi privilegio della materia sull’attività dell’uomo che l’ha foggiata, non può essere ammesso dalla coscienza storica, poiché l’opera vale per l’attività umana che l’ha foggiata e non per il valore intrinseco della materia.40

Tra gli elementi che rendono la teoria brandiana non del tutto adatta a un’applicazione contemporanea vi è anche il costante riferimento al concetto di autorialità e al valore a esso conferito, in cui l’autore prevarica la voce dell’opera con la sua presenza, ossia con l’attività manuale che l’ha foggiata, inestricabile dall’opera come unità. L’utilizzo di materiali di fattura industriale e beni di consumo, scelti proprio per le loro caratteristiche visive e per ciò che rappresentano nella loro forma attuale, nega volontariamente e a priori il tocco personale classicamente detto, che ora si identifica molto più spesso, come si vedrà con gli artisti dell’Arte Povera, con l’elaborazione di un vocabolario visivo composto da un ristretto numero di elementi precostituiti (non amorfi, come gli oli o il marmo) disposti secondo precisi schemi più o meno predefiniti. Diventa così un linguaggio fatto di forme e materiali piuttosto che di un determinato modo di manipolare la materia.

A proposito della riconoscibilità della firma dell’artista, non si può però non riconoscere come anche nell’arte contemporanea abbia una certa rilevanza, per quanto di natura diversa da quella dell’arte tradizionale. Se infatti nell’arte tradizionale questa è rintracciabile nella manualità e nella tecnica, nella scelta dei colori e dei modi di trattare i soggetti, che rappresentano quindi un denominatore comune dell’opera e le conferiscono una certa uniformità, nell’arte contemporanea l’operazione è più simile all’assegnazione di un marchio: le opere di un 39 Ibid.., p. 32.

medesimo artista risultano talvolta talmente eterogenee (e questo soprattutto dagli anni Novanta in poi, poiché ancora negli anni Settanta le ricerche dei singoli artisti si focalizzavano per lunghi periodi su temi e interrogativi di forma precisi e ben distinguibili gli uni dagli altri, anche all’interno di movimenti estremamente omogenei come il Minimalismo) o composte interamente da materiali pre-costituiti privi di alcun intervento manuale che l’attribuzione al suo creatore avviene esclusivamente per il significato e il senso che assumono all’interno della poetica dell’artista stesso.

Nonostante la lunga lista di differenze, nella teoria brandiana sono comunque presenti diverse considerazioni che mantengono la loro validità intatta anche quando vengono riferite alle opere contemporanee e che non si possono ignorare in quanto da un lato portano ad alcune analogie metodologiche, mentre dall’altro chiarificano i motivi per cui si continuano a mantenere i principi brandiani come punti saldi della pratica del restauro.

In primo luogo il concetto di rudero è applicabile integralmente alle opere contemporanee: nel momento in cui un’opera non è più riconducibile alla sua unità potenziale (in base alla definizione estetica del rudero), questa non rimane altro che una mera testimonianza di un passato artistico irrecuperabile (secondo la sua definizione storica). Nelle opere contemporanee, laddove si perda il significato e l’idea alla base dell’opera è perché si sarà privilegiata la seconda opzione ipotizzata da van Wegen, ossia la conservazione della materia originale in quanto Kunstwollen dell’epoca, e l’opera sussisterà esclusivamente in qualità di documento storico. Esempi di questo approccio sono la decisione di non sostituire i motori obsoleti delle opere semoventi con altri di nuova fattura, o la riproposizione di un’installazione in un luogo diverso da quello per cui era concepita, pur con i medesimi materiali. Allo stesso modo, quando il materiale non venga più a sussistere l’idea persisterà esclusivamente come fotografia o filmato - si pensi a una performance o a un happening, ma anche alle opere a base di cibo, come quelle di Dieter Roth.

Invariato rimane il divieto di intervenire per “analogia” o “fantasia”, poiché ci si deve limitare a svolgere i suggerimenti impliciti in frammenti e testimonianze per non snaturare e deformare il messaggio originale. Un discorso diverso va fatto però per il restauro di ripristino, poiché invece che bandirlo, nell’arte contemporanea andrebbe prima considerato quanto i segni del tempo impediscano la materializzazione dell’idea.

Infine la definizione di restauro come momento metodologico, in cui nel riconoscimento dell’opera d’arte in quanto tale giace l’imperativo morale della conservazione e trasmissione al futuro dell’opera, ossia proprio quel principio su cui la maggior parte dei restauratori e degli storici sembra concordare a prescindere dalla loro considerazione del resto della teoria, risulta essere anche il più ambiguo. Se da un lato lo scopo e il relativo intento morale del restauro risultano imprescindibili, dall’altro l’indecisione circa l’atto di identificazione e la mancanza di una reale storicizzazione rischiano di invalidare l’intera operazione. La messa in discussione della possibilità di un’epifania in presenza di un’opera è della stessa natura della critica mossa nel primo capitolo alla teoria di Danto: il capolavoro non è la manifestazione più alta di quell’entità metafisica che è l’arte, poiché entrambe vengono pensate e realizzate nell’ambito di una pratica umana definita dal momento storico-geografico in cui prende forma

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e in base alla quale vengono valutate.