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2. Mario Merz

3.3 La gomma

Come tutti i materiali sintetici, anche la gomma presenta una varietà di composizioni equivalente al numero di aziende che la producono e proporzionale agli usi per cui è impiegata. Una tale eterogeneità deriva in primo luogo dai tentativi effettuati nel corso di un secolo, dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento, di trovare un sostituto riproducibile in fabbrica della gomma naturale, che da quando la si era riusciti nel 1844 a stabilizzare tramite vulcanizzazione, impedendo così cambiamenti di consistenza alle temperature più alte e più basse nonché la marcescenza conseguente all’esposizione prolungata agli agenti atmosferici, trovò un elevato numero di impieghi in un ampio spettro di settori, soprattutto nella sua versione nota come ebanite, in cui la percentuale di zolfo aggiunta durante la vulcanizzazione supera il 25%. Dalle scarpe agli impermeabili, dagli pneumatici alle dentiere, dai gioielli agli apparecchi elettrici ai tubi, la gomma divenne rapidamente un materiale di importanza ragguardevole per le economie europee in espansione. Le ricerche di una versione sintetica della gomma vennero avviate da quasi tutte le potenze economiche dell’epoca, anche in quelle, come il Regno Unito, che per un approvvigionamento diretto si affidavano alle piantagioni nelle loro colonie, la cui distanza era però troppo grande per poter rappresentare davvero un vantaggio strategico. Nella nazioni come la Germania e gli Stati Uniti che invece potevano contare solamente sull’importazione, nacque la necessità di dover produrre la gomma in maniera autonoma, soprattutto per far fronte a quelle situazioni di politica internazionale che ne avrebbero ostacolato il rifornimento. E’ infatti in occasione della Prima Guerra Mondiale che nell’Impero tedesco viene impressa un’accelerazione allo sviluppo di processi per rendere più veloce ed efficiente la vulcanizzazione nonché effettuato un primo tentativo di produzione su larga scala di gomma sintetica, la gomma di metile, le cui proprietà e la cui qualità però non potevano competere con quelle della gomma naturale. Un ulteriore impulso alla ricerca venne dato in risposta alla riduzione della produzione e relativo aumento dei prezzi della gomma da parte dei Paesi esportatori nel 1926. Nonostante si fosse già a conoscenza dei metodi di fabbricazione di una versione sintetica dell’isoprene, ossia il monomero che è alla base della gomma naturale, questi risultavano troppo costosi, soprattutto se in relazione alle quantità e alla purezza richieste. Si decise perciò di volgere l’attenzione a composti appartenenti alla medesima serie omologa, con analoghe proprietà chimiche e proprietà fisiche variabili in base al diverso peso molecolare, e la cui sintesi risultava molto più economica. Il primo sul quale si lavorerà sarà il butadiene, che nel 1929 verrà impiegato per la sintesi del Buna S, il primo copolimero butadiene-stirene dal quale si svilupperanno tutte le gomme SBR, quelle che oggigiorno sono le più diffuse e che trovano il maggior numero di usi. A queste si aggiungeranno poi il polibutadiene, il nitrile, il neoprene, il silicone e il poliuretano, mentre la prima gomma sintetica basata sui polimeri dell’isoprene

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verrà prodotta solo negli anni Cinquanta.

I processi di degrado che interessano la gomma sintetica di cui sono costituite le camere d’aria e i copertoni, pur variando in base al tipo di elastomero e alla composizione della miscela, sono comunque riconducibili a un numero limitato di cause.

1) Ossidazione. Interessa gli strati più esterni di superficie esposta e, come nel caso della corrosione dei metalli, se l’ossigeno non ha la possibilità di passare oltre questi primi millimetri di gomma, le parti più interne possono rimanere integre per un lasso anche considerevole di tempo. Per lo stesso motivo, è un fenomeno molto più rapido e aggressivo durante i primi anni che rallenta man mano che diminuisce la quantità di materiale da consumare. Attraverso il processo di reticolazione, l’ossigeno introduce nuovi legami tra le catene polimeriche, diminuendo l’elasticità del materiale e rendendolo duro e fragile, con conseguente comparsa di fratture che portano a inevitabili distacchi, dal momento che espongono all’atmosfera anche gli strati più interni. Ma se l’ossigeno reagisce con gli atomi di zolfo apportati dalla vulcanizzazione, allora si assiste a una rottura delle catene, e il relativo indebolimento della coesione interna rende la gomma morbida e appiccicosa. Il prodotto finale di questa reazione sarà l’acido solforico, che a sua volta accelererà e aggraverà i processi di degrado, rappresentando un problema serio soprattutto per quelle gomme, come l’ebanite, in cui la concentrazione di zolfo è particolarmente alta. A catalizzare l’ossidazione contribuisce anche la luce, che assorbita da raggruppamenti atomici e gruppi funzionali per questo denominati cromofori, trasferisce energia alle molecole favorendo l’azione dell’ossigeno.

2) Ozono. Come l’ossigeno, si inserisce tra le catene polimeriche costruendo nuovi legami, che oltre a diminuire le proprietà elastiche, in questo caso si presentano particolarmente instabili, soprattutto se sottoposti a stress. E’ proprio in questi casi che compaiono i danni caratteristici provocati dall’ozono, sotto forma di fratture lineari perpendicolari alla direzione dello stress. 3) Proseguimento del processo di vulcanizzazione. L’effetto più importante che la vulcanizzazione ha sulla struttura molecolare della gomma è la reticolazione, che in un primo momento stabilizza il materiale, rendendolo più compatto e quindi più resistente. Le reazioni innescate però non vengono interrotte dalla diminuzione di temperatura, dai 150-170°C a quella ambiente, ma, per quanto lentamente, continuano, e il numero di nuovi legami costruiti dallo zolfo aumenta a un punto tale da causare danni invece che apportare benefici, infragilendo la gomma e minandone la durabilità.

Pur non essendo noti casi di restauro di elementi in gomma provenienti da opere di Zorio né il loro stato conservativo (anche nel caso delle camere d’aria di Colonna, danneggiate durante un allestimento e in seguito depositate in magazzino, non si è a conoscenza degli eventuali interventi eseguiti in occasione della sua esposizione nel 2010 per l’inaugurazione del MAXXI di Roma), le dinamiche di restauro per porre rimedio ai processi di degrado appena descritti sono già state affrontate in più occasioni e nel corso degli anni hanno generato una nutrita letteratura a riguardo. Perciò, per esaminare le possibilità di trattamento che, data la natura del materiale, bisognerà prima o poi inevitabilmente prendere in considerazione, soprattutto se ripetutamente sottoposto a pressioni e stress, si farà riferimento agli interventi di restauro documentati di due opere che fanno delle camere d’aria e dei copertoni i loro elementi essenziali: Presagi di

Birnam (1970) di Carol Rama63 e Gomma (1990) di Fabio Mauri64.

L’opera di Carol Rama è costituita da un cavalletto di ferro dipinto di nero su cui sono appoggiate 130 camere d’aria di bicicletta provenienti verosimilmente dall’ex fabbrica del padre. Le camere d’aria utilizzate sono costituite da una versione sintetica del poliisoprene e sono prodotte da almeno sei aziende diverse durante un arco di tempo lungo trent’anni, dagli anni Quaranta alla fine degli anni Sessanta, e gli unici segni di intervento diretto dell’artista sul materiale sono tagli effettuati con forbici per aprire la struttura tubolare di alcune gomme, per evidenziare la loro sensibilità tattile e le loro caratteristiche epiteliali.

Al momento del restauro le condizioni dell’opera erano critiche, con la superficie della maggior parte delle camere d’aria che presentava numerose fessurazioni, abbinate a una generale perdita di elasticità e distacchi di porzioni di materiale. Inoltre la quasi totalità delle parti esposte direttamente all’atmosfera era ricoperta da uno strato di sporco grasso e polvere, che opacizzava ulteriormente la superficie delle camere d’aria già sbiadita e alterata cromaticamente dalla fotossidazione. Sono stati infine rilevati diversi danni causati dal calore quali estesi fenomeni di deformazione e fusione di alcune aree a contatto tra di loro.

I processi di degrado che normalmente interessano la gomma sono stati accelerati e aggravati fino a raggiungere lo stato allarmante appena descritto dalla conservazione in un ambiente non idoneo. Le condizioni ambientali erano infatti avverse, con una temperatura superiore ai 25°C (invece che compresa tra i 15 e i 20°C) dovuta alla presenza di un calorifero e un’illuminazione maggiore ai 300 lux dovuta al suo essere posizionata sotto una finestra, ben lontana dall’intensità ideale, inferiore ai 100 lux.

La parte in gomma dell’opera di Fabio Mauri è invece costituita da una camera d’aria di carriola e da un copertone. La camera d’aria, formata da un copolimero a blocchi stirene-isoprene abbinato al carbonato di calcio usato come filler, era secca e presentava un fitto reticolo di microfessurazioni, che hanno comportano in alcuni punti distacchi di materiale. Era inoltre percorsa da uno squarcio per quasi il 40% della sua circonferenza, dovuto quasi sicuramente allo stress a cui la sottoponeva il copertone postole sopra. Entrambe le componenti inoltre erano ricoperte da uno strato superficiale di sporcizia e polvere.

Per lo studio di entrambi i manufatti sono state condotte due tipologie analoghe di analisi preliminari, di cui una per stabilire la morfologia e il livello di degrado del materiale (nel caso di

Presagi di Birnam era basata sulle differenze di emissioni fluorescenti, per Gomma si è invece

proceduto per osservazione in stereomicroscopia) e l’altra per verificarne la composizione (in entrambi i casi si è utilizzata la micro-spettroscopia infrarossa trasformata in Fourier, o micro- FTIR). Se nell’opera di Mauri il tipo di materiale da restaurare era limitato a quello della camera d’aria, in quanto il copertone era ancora in buono stato di conservazione, l’opera di Carol Rama si è rivelata composta di cinque tipologie diverse di gomma, complicando la fase di test dei consolidanti da impiegare.

63 A. Rava, E. Barberis, Restauro d’opera d’arte contemporanea in gomma: il caso di ‘Presagi di Birnam’ di Carol

Rama, in Lo stato dell’arte 12: volume degli Atti: 12. Congresso nazionale IGIIC: Milano, Accademia di Belle Arti di Brera, 23/25 ottobre 2014, Nardini, Firenze 2014.

64 E. Serio, C. De Angeli, F. Gherardi, L. Toniolo, C. Cantelmi, Restauro dei materiali polimerici ‘Gomma’ opera di

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Per quanto riguarda gli interventi di restauro assistiamo a due approcci diversi. La conservazione di Presagi di Birnam è stata condotta all’insegna dei principi brandiani di reversibilità, compatibilità e minimo intervento. Per prima cosa sono state rimosse le camere d’aria tanto danneggiate da essere irrecuperabili, archiviate in qualità di testimonianza e sostituite con venti camere d’aria dello stesso periodo che l’artista conservava per far fronte a casi come questo. Si è poi proceduto alla pulizia dell’opera, dapprima rimuovendo meccanicamente quei frammenti di materiale degradati in maniera irreversibile che avrebbero compromesso anche quelle parti ancora in buone condizioni, per poi passare alle operazioni di pulitura vera e propria dei depositi superficiali grassi e polverosi, divise in una prima fase di rimozione meccanica e in una seconda che prevedeva diverse e successive applicazioni di impacchi (prima di acqua demineralizzata e tensioattivi poi di solventi) in base alla persistenza dello

Iniezioni di consolidante in Presagi di Birnam.

(Lo stato dell’arte 12. Volume degli Atti: 12. Congresso nazionale IGIIC. Milano,

Accademia di Belle Arti di Brera, 23/25 ottobre 2014, Nardini, Firenze 2014).

Presagi di Birnam prima e dopo il restauro.

(Lo stato dell’arte 12. Volume degli Atti: 12. Congresso nazionale IGIIC. Milano,

sporco. Già ammorbidite dal trattamento con miscele acquose, gli è stata conferita una forma stabile e provvisoria grazie all’inserimento di tubi di polietilene per agevolare le iniezioni localizzate di consolidante, la cui percentuale, nella soluzione di solvente e protettivo in cui è stato disciolto, era variabile a seconda dell’entità del degrado. A questa soluzione è stato poi aggiunto del pigmento in polvere per integrare cromaticamente e così mimetizzare le applicazioni di consolidante.

Il restauro delle gomme di Mauri al contrario si è rivelato più invasivo e meno rispettoso della natura dell’opera. Era di primaria importanza restituire alla camera d’aria il suo aspetto originario e gonfio che fungeva da supporto al copertone, in quanto parte del significato dell’opera, ma le condizioni in cui versava compromettevano non solo la sua funzione espressiva di sostegno ma la mettevano a rischio di lacerarsi completamente e in maniera irrecuperabile. Le pressioni da parte della committenza e le tempistiche ristrette, nonché le indicazioni dell’Archivio Mauri che voleva l’originale restaurato piuttosto che sostituito, hanno però fortemente limitato la fase di studio per la ricerca di una soluzione ottimale e sostenibile, costringendo i restauratori a optare per opzioni meno desiderabili. Dopo la pulitura dei depositi superficiali di entrambe le gomme per mezzo di impacchi di acqua demineralizzata e Agar Agar, ci si è avvalsi di un perno che le attraversasse entrambe e fissato sul retro della tavola di legno per ridare stabilità strutturale. Si è poi riempita la camera d’aria di polistirolo inserito in calze di nylon per conferirle nuovamente la sua forma nonché un ulteriore sostegno, dal momento che nonostante la riparazione dello squarcio e il consolidamento delle micro-fratture non si sarebbe comunque riusciti a rigonfiarla. Queste operazioni sono state le ultime due a essere portate a termine, la prima attraverso l’inserimento di una toppa dello stesso materiale della gomma originale e il successivo incollaggio dei due lembi, la seconda grazie all’impiego di pasta siliconica nera opacizzata con il gesso.

Le diverse fasi della riparazione del copertone di Gomma (da sinistra a destra): inserimento dei perni; inserimento dei supporti in polistirolo; inserimento della toppa; incollaggio; risultato delle stuccature.

(Lo stato dell’arte 12. Volume degli Atti: 12. Congresso nazionale IGIIC. Milano, Accademia di Belle Arti di Brera,

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3.4 L’Eternit

Se per il restauro della gomma, come della maggior parte dei materiali artistici, la scelta tra le diverse modalità conservative (compresi il non intervento e la sostituzione) dipende dai principi etici e dalle convinzioni dei restauratori, nel caso dell’Eternit il ventaglio di opzioni appare assai più limitato, per non dire che una possibilità di scelta è addirittura inesistente. Il fibrocemento nasce nel 1901 dalla necessità di conferire un’armatura solida all’asbesto (altro nome dell’amianto), un materiale fibroso che abbina a un basso costo e alla facilità di estrazione e lavorazione, un lungo elenco di proprietà utili, in quanto è flessibile, non infiammabile, è caratterizzato da una notevole resistenza alla trazione e agli attacchi degli agenti chimici come di quelli biologici e offre un buon isolamento termico, elettrico e sonoro. I pannelli di Eternit, ossia il nome col quale il fibrocemento venne brevettato, furono così i primi prodotti ad avvalersi delle qualità dell’amianto, il quale durante tutto l’arco del Novecento trovò largo impiego nel settore edilizio disperso sia in matrice friabile, utilizzato soprattutto per coibentazioni e rivestimenti isolanti in cantieri navali e apparati industriali, che in matrice compatta, come il cemento, principalmente usato per la copertura di tetti e capannoni. L’amianto però è anche molto friabile e, se sottoposto a sollecitazioni meccaniche, si disgrega facilmente disperdendo nell’ambiente le sottilissime fibre di cui è composto. L’esposizione prolungata alle fibre d’amianto, che date le loro dimensioni (1300 volte più sottili di un capello) vengono inalate con facilità, porta all’insorgenza di patologie dell’apparato respiratorio come asbestosi, placche pleuriche, tumori del polmone e mesoteliomi.

Da qui la scarsità di alternative quando arriva il momento di dover intervenire su opere con elementi in fibrocemento: se non si vuole alterare il significato dell’opera non si potrà procedere alla sostituzione dell’Eternit con un materiale non nocivo per la salute con proprietà chimico- fisiche e cromatiche simili; allo stesso tempo, se non si vuole privare la narrazione storica di una valida testimonianza, si dovrà rifiutare l’idea di disassemblare l’opera in via definitiva e considerarla morta perché troppo pericolosa. L’unico approccio possibile rimane quello della messa in sicurezza del materiale tramite quella stessa tecnica di incapsulamento viene messa in atto negli edifici dei quali non si vogliono o non si possono rimuovere o confinare le parti contenenti amianto. All’impossibilità di sostituire il materiale originale va infatti affiancata la priorità di impedirgli di rilasciare la componente fibrosa nell’ambiente, conseguita attraverso la stesura di prodotti e vernici che tendano a inglobare le fibre di amianto, a ripristinare l’aderenza al supporto e a costituire una pellicola di protezione sulla superficie esposta.

Questa è la soluzione adottata da Galileo Pellion di Persano, il primo restauratore a essere intervenuto su opere in Eternit e, guarda caso, proprio su richiesta di Gilberto Zorio. Nel suo intervento in occasione del convegno tenutosi al Castello di Rivoli nel 201265, ha delineato

le modalità di bonifica di diversi lavori, inclusi i sopraccitati Senza titolo e Colonna. Se normalmente le operazioni di incapsulamento prevedono una prima mano di impregnante 65 G. Pellion di Persano, L’Eternit nell’arte moderna e contemporanea. Problematiche espositive e conservative, in

Cosa cambia: teorie e pratiche del restauro nell’arte contemporanea, a cura di M.C. Mundici, A. Rava, Skira, Milano

Gilberto Zorio, Colonna, 1967. Cilindro di Eternit, copertone. (http://www.serralves.pt/en/ museum/the-collection/a-closer- look/?l=Z&col=&cat=. Consultato il 16/05/2016).

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trasparente seguita da due di vernice coprente, data la particolare applicazione in campo artistico, questo secondo e terzo strato non si sono potuti stendere perché avrebbero modificato l’aspetto esterno dell’opera e di conseguenza la sua percezione. Una volta verificato che l’impregnante sarebbe stato sufficiente a consolidare il fibrocemento, prevenendo la fuga di fibre di amianto, si è proceduto al trattamento, nonostante anche il fissativo a base acrilica impiegato, l’Isolamiant 2, provochi una lieve saturazione cromatica. Questo tipo di consolidamento però si dimostra sufficiente solamente nel caso in cui il materiale da bonificare risulti integro. La questione si complica laddove l’opera sia interessata da una mancanza di porzioni di materiale dovuta a rotture e distacchi, soprattutto nel caso in cui questa ne comprometta la percezione. Se nelle opere di Zorio non sono stati riscontrati danni di questo tipo, Pellion di Persano li riporta a proposito di un’opera di Pascali, Campi arati e canali d’irrigazione66, composta da nove lastre di Eternit ondulato coperte di terra. In questo caso ha valutato due differenti tipologie d’intervento a seconda della posizione e dell’entità della lacuna. Su quelle parti che non erano visibili frontalmente, come gli spigoli scheggiati, è stato applicato l’impregnante mischiato a un colore rosso per consolidare e allo stesso tempo segnalare la parte mancante. Nel caso invece di veri e propri “buchi”, il restauratore ha realizzato in prima istanza dei calchi delle parti mancanti con rete di nylon e resina bicomponente coperti poi di cemento e incollati in corrispondenza delle lacune. Sulla parte frontale è stato poi applicato in un secondo momento un impasto di terriccio e impregnante per coprire e mimetizzare l’aggiunta.