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La questione dell’allestimento in Mario Merz

4. Le installazioni di Mario Merz e Gilberto Zorio

4.2 La questione dell’allestimento in Mario Merz

La mancanza di documentazione, mentre l’autore è ancora in vita, dell’evoluzione di un’installazione nonché delle ragioni dietro la scelta di determinati materiali organizzati nello spazio in una maniera precisa, apporta numerose complicazioni agli eventuali riallestimenti postumi, comportando talvolta la loro arbitrarietà. Se non sempre l’adattamento fisico alle caratteristiche architettoniche specifiche del contenitore è una prerogativa delle installazioni, molte volte lascia spazio a un tipo di variabilità più sottile, meno appariscente, come nel caso di Mario Merz. Il procedimento scelto per erigere di volta in volta le opere consiste infatti nell’”appoggiare” i diversi materiali sulle strutture portanti, garantendo all’artista la possibilità di lasciare interagire i diversi elementi nel modo che più rispecchia lo spazio espositivo, poiché, come spiega Merz stesso, “nella scultura, per esempio, in cui un oggetto viene messo dentro l’altro, la scultura diventa una volontà di costruzione e di incastro: le mie sculture sono fatte per il contrario, per affermare che una cosa è appoggiata comunque su un’altra, anche in maniera irrazionale. […] non è un oggetto assoluto, è un oggetto relativo […], e si sente il gesto di qualcuno che ha portato lì questa cosa, l’ha appoggiata e l’ha lasciata lì. Non è abbandonata ma appoggiata”80.

Questo metodo di assemblaggio, accostando e impilando i diversi pezzi che raggiungono un loro equilibrio momentaneo e precario semplicemente entrando nei rispettivi campi di forza, è perfettamente coerente con il disvelamento di una temporalità spaziale sotterranea attraversata da un’energia in costante movimento, e anzi ne è il corollario. Anche quando l’artista sceglie di fissare i materiali alle strutture tramite ganci, morsetti e fili, quello che conta è dare l’impressione del gesto dell’appoggio, avvertire il vettore della forza che ha depositato un determinato elemento in una precisa posizione dello spazio non più sperimentato come solido bensì come deformabile e flessibile. Un tale approccio si ripercuote inevitabilmente sulle pratiche allestitive poiché, in assenza di una documentazione di riferimento, la mancanza di una struttura fissa e indivisibile fa in modo che si disponga solamente di linee guida generali, il che lascia spazio ad ampi margini di manovra circa la disposizione degli elementi che risponde a considerazioni sia di tipo interpretativo che pratico. Di conseguenza, nemmeno la Fondazione Merz si trova nelle condizioni di poter determinare con certezza una metodologia esatta per la ricostruzione delle opere, che non risultando né lavori site-specific, né installazioni dalla configurazione prefissata, hanno come unico punto di riferimento “l’immagine dell’opera finale”81. Ma proprio in questa caratteristica risiede il fascino e la complessità dell’opera di

Merz, in cui sia il lavoro che lo spazio sono avvertiti come componenti fluide in continuo e reciproco adattamento, che va interpretato di volta in volta in base anche alla propria sensibilità. Per questo motivo, è spesso accaduto che i cambiamenti apportati in fase d’allestimento abbiano snaturato le opere piuttosto che valorizzarle.

Nelle mostre che hanno avuto luogo dopo l’acquisizione da parte del Centre Pompidou, nel 80 G. Celant, Mario Merz (1971), in Mario Merz, a cura di G. Celant, Mazzotta, Milano 1983, p. 58.

81 M. Boggia in N. Boschiero, B. Ferriani, Mario Merz. Chiaro Oscuro, 1983, in B. Ferriani, M. Pugliese, Monumenti

1982, la scritta al neon di Igloo di Giap è inspiegabilmente migrata dalla parte superiore a quella inferiore dell’igloo. Un’alterazione che non ha evidentemente lo stesso peso delle variazioni precedenti, non solo perché effettuata da un curatore e non dall’artista ma anche per il fatto che modifica sensibilmente la percezione dell’opera. Lo stesso del resto è accaduto a Città irreale, la quale ha visto, prima del 1980 in un’occasione mai chiarita, il suo lembo di mussola più lungo, originariamente arrotolato lungo l’ipotenusa della struttura d’acciaio triangolare, srotolato e lasciato cadere davanti all’opera.

In Chiaro Oscuro è evidente come i curatori abbiano invece decifrato l’elasticità delle poche direttive d’installazione a proprio vantaggio, elaborando modifiche che sono infine diventate le sembianze definitive dell’opera, riproposta immutata a ogni esposizione dal 2002 in poi, e che le hanno conferito un aspetto che la Ferriani definisce molto più ordinato, forse troppo, rispetto all’originale82. Rispetto alla prima versione datata 1983, assemblata direttamente

in sede espositiva dall’artista in persona, per il riallestimento del 2002, effettuato sotto la supervisione degli assistenti della Galleria Stein (che per prima aveva acquistato l’opera nel 1985) in occasione dell’apertura del MART, sono stati infatti ideati stratagemmi per facilitare il montaggio e rendere più stabile l’intero lavoro. Nell’igloo coperto di fascine è stata aggiunta una rete metallica sopra il telaio d’acciaio per dare maggior sostegno e superficie d’ancoraggio agli elementi da posizionarvi sopra, con il risultato, però, che questi sono stati sistemati in

82 Cfr. Ibid.

Durante l’allestimento di Chiaro Oscuro presso il MART, in occasione del quale è stata aggiunta una rete metallica di supporto per facilitare l’aggancio della fascine. (B. Ferriani, M. Pugliese, Monumenti effimeri. Storia e conservazione delle

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maniera molto più fitta per coprire la componente estranea. Per limitare il rischio di danni alle lastre di vetro in fase di allestimento sono inoltre stati tolti i fermi che le fissavano all’interno della struttura e che ora sono tenute in posizione solamente dai pani di creta, assenti nella versione originale e presumibilmente comparsi nelle diverse modifiche e variazioni effettuate dall’artista prima della vendita alla galleria torinese, peraltro parallelamente alla scomparsa delle lastre di vetro affioranti tra le fascine. D’altronde il continuo ricambio e riutilizzo dei materiali una volta disallestita un’opera sembra essere, stando alla Fondazione Merz, una pratica tutt’altro che sporadica, dal momento che al termine di ogni mostra i lavori ritornavano, smembrati, nello studio dell’artista, che tra l’altro raramente conservava i materiali utilizzati e preferiva sostituirli, in quanto più economico83. In questo modo Merz si assicurava ampi spazi

di libertà compositiva in cui riarrangiare a ogni mutazione di coordinate i diversi elementi. Si prenda l’esempio di Igloo di Giap, esposta per la prima volta alla Galleria Arco d’Alibert di Roma nel 1968. In quella primissima versione, che fino all’acquisizione definitiva da parte del Centre Pompidou continuerà a essere sistematicamente modificata per adeguarsi agli ambienti e alle sensazioni dell’artista, i pani d’argilla, idratati, erano più voluminosi rispetto a quelli attuali e avvolti in una pellicola trasparente lucida che aderiva perfettamente alla superficie. Solo un mese più tardi, al Deposito D’arte Presente, i panetti, sempre bagnati, avevano già subito una notevole riduzione delle dimensioni, oltre a esser stati modellati in forma tondeggiante. Nel 1970 alla GAM di Torino così come nel 1973 alla Quadriennale Nazionale d’Arte a Roma l’argilla era stata liberata dalla pellicola di plastica e applicata in lastre di media grandezza direttamente sulla rete metallica. A differenza delle versioni precedenti, il materiale appare secco e presenta crepe in diversi punti. In successive rielaborazioni è stato poi reintrodotto il rivestimento in plastica ma sotto forma di sacchetti, e il grado di idratazione dell’argilla era sempre variabile.

L'evoluzione di Igloo di Giap.

In alto a sinistra: Deposito D'arte Presente, Torino, 1968. I pani d'argilla sono di dimensioni considerevoli e avvolti con della pellicola di plastica (Cosa cambia: teorie e pratiche del restauro nell’arte contemporanea, a cura di M.C. Mundici,

A. Rava, Skira, Milano 2013).

In alto a destra: GAM - Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea, Torino, 1970. I pani d'argilla sono stati liberati dai rivestimenti e alloggiati direttamente sulla rete metallica (P. Mussat Sartor, Paolo Mussat Sartor fotografo. 1968-

1978: arte e artisti in Italia, Stampatori, Torino 1979).

In basso a sinistra: X Quadriennale Nazionale d'Arte, Roma, 1973. Ancora privi dei sacchetti di plastica, i pani d'argilla sono stati ridotti nella dimensioni e aumentati nel numero (http://www.stsenzatitolo.com/st/prodotto/fausto-giaccone-x-

quadriennale-roma-1973/. Consultato il 16/05/2016).

In basso a destra: Castello di Rivoli, Rivoli, 2005. I pani d'argilla sono stati collocati in sacchetti, mentre alcuni neon sono migrati verso la base dell'opera (http://www.castellodirivoli.org/mostra/mario-merz/. Consultato il 16/05/2016).

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Città irreale al momento dell'acquisizione da

parte dello Stedelijk Museum, nel 1969.

Città irreale nel 1980, con il lembo in

corrispondenza dell'ipotenusa che ricade lungo l'opera.

(Modern Art: Who Cares?: an interdisciplinary

research project and an international symposium on the conservation of modern and contemporary art, a cura di U. Hummelen,

D. Sillé, Foundation for the conservation of modern art and the Netherlands institute for cultural heritage, Amsterdam 1999).

Due diversi allestimenti di Chiaro Oscuro, da confrontarsi con quella del MART di Rovereto. In alto: Palazzo dei Congressi, Repubblica di S. Marino, 1983-84. La prima mostra in cui

l'opera viene esposta, con fascine rade e priva dei pani d'argilla a supporto dei vetri. In basso: Castello di Rivoli, Rivoli, 2005. Le fascine aumentano di densità, sono già presenti i

pani d'argilla alla base dell'igloo trasparente.

(B. Ferriani, M. Pugliese, Monumenti effimeri. Storia e conservazione delle installazioni, Mondadori Electa, Milano 2009).

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Esempio di come la medesima idea venga esplorata da Merz in modi anche molto diversi tra loro.

Mario Merz, Objet cache-toi, 1968. Struttura tubolare in ferro, rete metallica, pani di creta, neon.

(B. Pietromarchi, Mario Merz. Igloo, Testo & Immagine, Torino 2001).

Mario Merz, Objet cache-toi, 1968- 1977. Struttura tubolare in ferro, rete metallica, vetri, morsetti, neon, bottiglia.

(B. Pietromarchi, Mario Merz. Igloo, Testo & Immagine, Torino 2001). Mario Merz, Objet cache-toi, 1968. Struttura tubolare in ferro, rete metallica, panini di stoffa cuciti, neon.

(http://berndwuersching.tumblr. com/post/37738809654/mario- merz-objet-cache-toi. Consultato il 16/05/2016).