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Il fascismo e la condizione femminile

1.4 Il Novecento

1.4.2 Il fascismo e la condizione femminile

Il regime fascista si appoggiò alle indicazioni cattoliche e all’autorità della famiglia per sostenere l’obiettivo di riportare le donne al focolare domestico, imponendo vincoli per contrastare quel processo di emancipazione, che le donne avevano iniziato attraverso l’uscita nella sfera pubblica con il lavoro extra-domestico, con il controllo delle nascite e con l’affermazione dei propri interessi individuali.

Mussolini portò avanti, infatti, una propaganda pro-natalista, a favore di una politica demografica che garantisse una forte crescita della popolazione italiana a consolidamento del regime, opponendosi al lavoro delle donne, che era considerato molto spesso dagli studiosi di demografia, come “nefasto alla natalità”(Sullerot,1969, p.158)

Era necessario ristabilire l’ordine nei rapporti tra i sessi e le politiche pro-nataliste, divenivano lo strumento per restaurarlo, in un’ottica di “emergenza nazionale” ( De Grazia,1997, p.75) per contrastare la tendenza al controllo delle nascite, le cui motivazioni si riconducevano all’insicurezza e alle difficoltà delle condizioni di vita, ma anche all’emancipazione femminile, che rappresentava “una spinta secondaria alla pianificazione familiare”(Ibidem, p.83).

Il regime improntò un’attenta politica per la protezione della maternità e migliorare le condizioni di vita delle gestanti e delle madri, nell’interesse del benessere del neonato, infatti,

proliferarono sevizi assistenziali pubblici27 alle famiglie, oltre all’incrementarsi di scuole per la professionalizzazione della pediatria, dell’ostetricia e delle balie.

L’intervento dello Stato aveva lo scopo di promuovere lo sviluppo della popolazione e la salute pubblica, ma anche di “diffondere l’ideale della famiglia e della vita coniugale in cui il marito occupava il ruolo di guida” (De Grazia,1992, p.98).

Le riforme sociali che ne seguirono, condussero al riconoscimento della paternità naturale, contestualmente alla maternità naturale, con la possibilità di riconoscere legalmente i figli illegittimi, eliminando ogni differenza legale tra legittimi e illegittimi.

Non erano, quindi, esclusi i padri dalle parole di Mussolini, che sottolineavano come i figli fossero la prova della virilità e con l’ingiunzione della tassa sul celibato (1926), molte coppie erano spinte a voler regolarizzare le unioni, in considerazione anche dei pregiudizi che incombevano sugli uomini celibi, indicati come parassiti, devianti e antipatriottici.

Ulteriori spinte alla procreazione, erano dettate da incentivi fiscali e monetari, come l’eliminazione dell’imposizione sul reddito alle famiglie numerose, elargizione di sussidi, premi di natalità e prestiti matrimoniali; la prole si identificava, quindi, nel servizio reso alla Nazione e le madri più prolifiche, in quanto fattrici e nutrici dei bambini, furono onorate durante la prima adunata Nazionale a Roma, nella celebrazione della Giornata della madre e del fanciullo, proclamata dal regime nel 1933.

La politica pro-natalista combaciava, dunque, con la politica della famiglia, che rappresentava una fondamentale primaria istituzione dello Stato fascista, garantendo ad esso la continuità della razza attraverso le generazioni.

La famiglia, che diventava, come sottolinea De Grazia (1992), la “cellula madre della società”(p.116), stava assumendo una nuova immagine, orientata alla sfera pubblica, negli interessi della collettività nazionale, interagendo, però, anche con i bisogni individuali, a cui la politica assistenzialista dello Stato cercava di rispondere. All’interno di questo rapporto tra Stato e famiglia, tuttavia, molte erano le famiglie in condizioni svantaggiate, che dovevano far fronte, altresì, a “bisogni immediati, quotidiani, particolaristici della sopravvivenza familiare”(Ibidem, p.164).

Le componenti femminili, pertanto, dovendo occuparsi della crescita dei figli e dei bisogni domestici, fronteggiando realtà discriminatorie contro l’occupazione femminile, furono

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L’Opera Nazionale per la Maternità e Infanzia (ONMI), fu fondata istituzionalmente nel 1925, ma le sue radici provengono dall’antichissima pratica di abbandonare i neonati non desiderati alla ruota degli esposti. Il governo Mussolini riprese il progetto del precedente governo liberale, di istituire un organismo nazionale, visto l’aumento delle nascite illegittime e delle morti dei soldati durante la prima guerra mondiale, che erano fonte di preoccupazione per la popolazione; l’ONMI si adoperava per i servizi alle ragazze madri e alla cura dei neonati (V. De Grazia, 1992, Le donne nel regime fascista, Venezia, Marsilio).

costrette a ricorrere alle risorse locali: alla solidarietà, alle associazioni religiose e ai legami parentali, mentre “l’ideologia ufficiale continuava a dipingerle come angeli del focolare”(Ibidem, p.163).

Infatti, nel regime fascista avanzava l’offerta di lavoro maschile, identificata da Mussolini, nella “fortissima virilità fisica e morale nell’uomo”(Ibidem, p.239), in contrapposizione alla “perdita degli attributi generativi”(Ivi) per la donna lavoratrice, nell’ottica di potenziali famiglie nuove nella vita della Nazione.

A tale scopo, il regime mise in atto “norme legislative e contrattuali tese all’espulsione della manodopera femminile dal mercato del lavoro” (Ivi), infatti i salari degli uomini furono ridotti, per far sì che fossero più competitivi con quelli femminili, fu ridotta anche la meccanizzazione del lavoro, che richiamava manodopera femminile. L’obiettivo si individuava, pertanto, nella riduzione dell’incentivo a sostituire gli uomini con le donne. La legge Sacchi del 1919, inoltre, evidenziò una “visione virile della vita” (De Grazia,1992, p.247), un prerequisito che mancava alle donne e necessario per poter accedere a quelle posizioni, come per esempio, magistrati, politici, funzionari di amministrazioni pubbliche, dirigenti di scuole superiori e insegnanti di particolari materie, che si ritenevano più adatte al sesso maschile.

Altre forme furono individuate dallo Stato fascista, per allontanare la donna dall’occupazione, rispecchiando una retorica a favore del lavoro femminile, ma salvaguardando i posti che dovevano essere assolutamente affidati agli uomini, perché ritenuti dannosi o pericolosi per le donne.

A tale proposito fu significativa l’introduzione della legislazione protettiva nel 1934, che, proibiva il lavoro notturno e che fosse svolto in condizioni pericolose per le donne, ma che si poneva come fine ultimo, impedire la concorrenza delle lavoratrici nei confronti degli uomini. Le norme a tutela delle lavoratrici, pertanto, prevedevano una serie di misure, che andavano dai sussidi a forme di protezione durante la gravidanza e maternità, tanto da essere considerate “protezione discriminatoria”, dal momento che tale legislazione “scoraggiava gli imprenditori ad assumere le donne, o le metteva nella condizione di decidere a lasciare il lavoro mentre i figli erano piccoli”. (Ibidem, p.246).

Nell’ambito lavorativo, pertanto, emergeva un atteggiamento di esclusione nei confronti delle donne, infatti, esse erano relegate in posti esclusivamente femminili, quindi svalutati, o nei livelli gerarchici più bassi, secondo un ordine di “naturalizzazione della divisione sessuale del lavoro” (Duby e Perrot,1990-1992d, p.499).

diversificazione del sapere nei programmi scolastici, che aveva l’obiettivo di mantenere le differenze tra ragazzi e ragazze.

Tuttavia, gli anni ‘70 si caratterizzarono dal forte aumento delle studentesse nella frequenza scolastica, desiderose di utilizzare i diplomi per gli impieghi di lavoro, cadendo nella trappola di una realtà illusoria, determinata, come fa notare la scrittrice Lagrave, dai “limiti che l’ordine sociale assegna alle donne sia nel lavoro, che nella scuola. Tali limiti sono tanto più mascherati dal momento che la scuola dà sempre più alle ragazze l’illusione di avere le stesse possibilità dei ragazzi” (Ibidem, p.502).

In ogni ambito, sia esso familiare, scolastico e occupazionale, l’ordine sociale e sessuale, quindi, interviene per mantenere la distanza, fissando le regole, come “una sorta di gioco in cui le donne si impegnano sempre più, vittime dell’illusione di poter uguagliare gli uomini…ma….più esse sono vicine al traguardo, più piovono le penalità” (Ibidem, pp.522- 523), come la conseguenza della storia di una costruzione sociale della disuguaglianza tra i sessi.