• Non ci sono risultati.

Uscire dagli stereotipi e “la moralità dell’altruismo”

Le repentine e continue trasformazioni sociali, familiari e lavorative, impongono una revisione dei modelli culturali emergenti, che sembrano resistere e mantenere una polarizzazione della femminilità e mascolinità nei diversi contesti e dimensioni sociali; pertanto, la necessità di decostruire dei modelli culturali tradizionali, rappresenta la fase iniziale di un percorso che conduca al riconoscimento delle qualità femminili, nell’ottica della valorizzazione delle differenze di genere.

A tale proposito, Gilligan (1987) sostiene, che le donne “si giudicano in base alla propria capacità di prendersi cura delle cose e delle persone” (p. 25), sviluppando comportamenti e immagini di sé, che riflettono “l’ascolto di voci diverse dalle loro”, includendo “nel loro giudizio punti di vista diversi dal proprio” (Ivi), infatti, “è o non è una buona moglie, è o non è una buona madre, è o non è capace di badare ai figli e al marito” (Ruspini, 2001, p.122), sono i giudizi che le donne si aspettano dagli altri, perché sono esse stesse a giudicarsi.

Come è stato esaminato nei capitoli precedenti, la sensibilità per i bisogni altrui e la disponibilità a prendersi cura degli altri, in funzione delle aspettative sociali connesse all’identità di genere femminile, induce la donna, nel ciclo della vita, a ricoprire posti di governante, di nutrice, di collaboratrice e di sostegno al maschio breadwinner. Risulta scontato un ruolo di accudimento e di responsabilità per la cura, come se esso fosse “frutto di una combinazione tra anatomia e destino”, inevitabilmente rappresentativa di “una debolezza delle donne, piuttosto che una forza dell’essere umano” (pp. 25-26).

Seguendo questo punto di vista, emerge dagli studi di vari autori condotti sugli stereotipi sessuali, che la maturità dell’individuo adulto, come fa notare l’autrice statunitense, non è associata all’essere donna. La maturità è identificata da qualità, come “l’autonomia di pensiero, la capacità di prendere decisioni univoche, l’agire in modo responsabile”, che sono comunemente attribuite alla “virilità” e quindi “considerate indesiderabili se riferite alla femminilità” (p. 25).

Questi stereotipi, quindi, secondo una dimensione causale, hanno caratterizzato le biografie femminili e maschili, ponendole su un doppio binario, che conduce ad un mondo femminile, connotato da capacità espressive e da “relazioni intime” ed a un mondo maschile, che è caratterizzato e pervaso da abilità strumentali e da “relazioni strategiche”(Mengotti, 2006, p. 64-65).

A tale proposito, Gilligan (1987), citando una ricerca della Laver (1976) condotta su bambini e bambine di età scolare durante le attività di gioco, fa notare, come a quell’età, le femmine e i maschietti dimostrino differenze dovute al sesso, infatti, i giochi dei maschi erano più frequentemente competitivi e duravano più a lungo, i bambini non interrompevano mai il gioco neanche di fronte a momenti di litigi, riuscendo a stabilire nuove regole; le bambine, invece, dimostravano attenzione alla collaborazione, tentando di mediare le dispute per continuare il gioco, subordinando la continuazione dello stesso alla continuazione del rapporto, escludendo, quindi, la possibilità di elaborare un nuovo sistema di regole.

Gilligan (1987) sostiene, dunque, che lo sviluppo morale delle donne ruota intorno all’elaborazione di aspetti come “la bellezza e l’importanza dell’intimità, del rapporto e dell’accudimento”, ma che paradossalmente, la sensibilità per i bisogni degli altri, allo stesso tempo diviene il “contrassegno del loro deficit morale” (pp. 25-27).

La sensibilità, infatti, non è ritenuta funzionale alla tradizionale “arena pubblica” e al mondo del lavoro, dove, secondo un persistente pregiudizio, il modello maschile risponde meglio ai requisiti per una buona riuscita delle organizzazioni sociali e produttive, impostate sulla rigidità e negoziazione delle regole.

Le definizioni stereotipate di femminilità si associano di conseguenza, alla vita che si svolge all’interno delle mura domestiche, come espresso in precedenza, che si articola intorno alle risorse e alle attività di cura, in termini di beni e servizi per il consumo familiare, comprendendo attività domestiche, ma anche educative e di socializzazione dei figli, di assistenza ai familiari non autosufficienti, ammalati e anziani. Le donne, quindi, giocano un ruolo essenziale nello svolgere un lavoro mirato alla cura ed alla conservazione della salute, in termini di benessere, dei membri della famiglia, spesso molto gravoso perché di elevato livello di qualità (Ruspini, 2009).

Esse divengono figure centrali nell’assegnazione delle attività nella sfera privata e depositarie della competenza della cura e dell’assistenza dei propri familiari; pertanto, il conseguente vissuto emotivo femminile della responsabilità, rende più labile la distinzione tra sé e l’altro, all’interno di una trama di rapporti, dove si mescolano dimensioni di fiducia, di intimità, di valorizzazione dell’ascolto e di interdipendenza.

A tale proposito, emerge, dagli studi di Gilligan (1987), l’enorme conflitto che si origina dalla persistente contrapposizione tra egoismo e responsabilità e che conduce alla difficoltà per la donna di conciliare l’etica della responsabilità della cura e della “moralità dell’altruismo” (p.140), con la preoccupazione di essere fedele a se stessa o “dell’abnegazione di sé” (Ivi).

Infatti, le donne intervistate dall’autrice evidenziavano il desiderio di assumersi la responsabilità della propria vita e il desiderio di non far soffrire gli altri, intrappolate in quel conflitto della scelta, tra l’ideale di altruismo e il prendere coscienza dei loro bisogni e necessità, che impediva loro di trovare un modo per includere se stesse sullo stesso piano dell’altro, senza correre il rischio che un’affermazione di sé apparisse egoistica e dunque moralmente pericolosa.

Il conseguente comportamento femminile si rispecchia, pertanto, in un’attività di cura che determina una relazione asimmetrica, vista la mancata reintegrazione delle risorse spese, molto spesso associata ad un senso di frustrazione, che, tuttavia, non permette di accettare l’aiuto di terze persone a cui affidare i familiari anziani o i figli (Gilligan, 1987).

Sulla stessa linea, si pone l’impiego da parte delle donne delle proprie risorse monetarie, che, molto spesso, rinunciando a vari beni di consumo, utilizzano per il fabbisogno familiare. Ciò accade soprattutto nelle famiglie a basso reddito, dove “il ruolo di ridimensionamento delle strategie esistenziali”(Ruspini, 2009, p. 88), diviene proporzionalmente impegnativo e con molta probabilità a carico delle donne stesse.

3.1.1 Come il carico di lavoro può diventare agente patogeno

Come evidenziano i dati ISTAT, la crescente incidenza di cronicità delle malattie, assieme alla diffusione delle condizioni di non-autosufficienza, si traduce in un aumento di domande di cura rivolte ad un sistema di servizi sanitari e sociali, ma anche alle famiglie stesse, che si trovano a dover operare importanti cambiamenti nelle loro stesse organizzazioni, visto il caratterizzarsi prevalente di un modello familista nella cultura del nostro paese (Bimbi, 2003). Se da una parte, pertanto, è possibile il riassetto dell’insieme dei rapporti all’interno della famiglia e della parentela, dall’altro, tali compiti di care, che si intrecciano con la routine quotidiana del carico lavorativo familiare, costituiscono uno specifico aggravio soprattutto per le donne, di cui hanno tradizionalmente e culturalmente la titolarità, come approfondito in precedenza.

A tale proposito, le diverse indagini Multiscopo condotte dall’ISTAT negli ultimi anni, sulla difforme incidenza di patologie tra uomini e donne, indicano che, in molti casi, mortalità e condizioni di salute sono assai più riconducibili alla dimensione sociale e culturale del genere, anzichè ad una dimensione prettamente biologica.

Pertanto, vista l’importante correlazione tra patologie e complessiva storia di vita di ogni individuo, le varie ricerche hanno messo in evidenza come il lavoro domestico e familiare, soprattutto per quanto riguarda le pesanti rinunce alla cura di sé, costituisca un potente vettore

di rischio per la salute complessiva delle donne, in termini di insoddisfazione, bassa autostima, depressione e patologie da stress.

Quando nel corso della vita, la donna si fa carico anche di un lavoro extra-domestico, in particolare nelle problematiche situazioni di povertà, la doppia presenza contribuisce ad alzare l’indice patogeno, se correlato inoltre alla mancata o ridotta distribuzione del lavoro familiare e di cura, in termini di equità di genere.

Infatti, l’instabilità occupazionale, caratterizzata da forme di contratto atipiche e che caratterizza l’attuale mercato del lavoro, si traduce in una maggior offerta di lavoro femminile32.

Le nuove modalità di organizzazione flessibile dei tempi, che comportano in prevalenza una discontinuità della presenza nel mercato e la capacità di adattare il proprio lavoro ad eventi, tempi, ritmi e ruoli mutevoli, sembrano rispecchiare i meccanismi della vita familiare, a cui le donne, quindi, sono abituate ed allenate. “Lavorare secondo le circostanze” (Pruna, 2007, p.102), pertanto, diviene la caratteristica dell’occupazione femminile, che nonostante penalizzi le lavoratrici da molti punti di vista, si rivela indispensabile in assenza di sostegni adeguati. Pertanto, le donne sono più esposte degli uomini al rischio di instabilità del posto di lavoro e del mestiere, con un conseguente processo cumulativo di svantaggi, che riguardano, sia condizioni lavorative sfavorevoli: la diffusa irregolarità dei compensi economici, la sottoutilizzazione dei titoli e competenze e le scarse possibilità di avanzamento professionale, sia la gestione familiare, in riferimento alle necessarie modificazioni organizzative, in funzione dei ripetuti cambiamenti di occupazione.

Nonostante le donne sperimentino quotidianamente una capacità di adattamento a condizioni mutevoli, che hanno sviluppato in primis nella sfera delle attività legate alle necessità familiari, come accennato sopra, fatica e ansia si aggiungono nella gestione del complesso sistema di lavoro pagato e non pagato, determinando condizioni a rischio di infortuni e malattie professionali.

A tale proposito, una ricerca condotta dall’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, ha reso noto che nei paesi dell’UE, circa 40 milioni di persone sono affette da stress e tra queste si calcolano soprattutto donne, le cui cause sono riconducibili allo stato di affaticamento prodotto dall’eccessivo carico di lavoro e dall’instabilità dell’occupazione. 33

32

Il tema relativo alle forme di lavoro atipiche sarà approfondito nel paragrafo 3.2. “Una lenta trasformazione

dei modelli culturali di genere”.

33“ Il nuovo Testo Unico sulla Sicurezza nei luoghi di lavoro (Dlgs. 81/2008) ha messo in risalto che il Datore di lavoro deve valutare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, con specifico riferimento anche ai rischi da stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’Accordo europeo dell’8 ottobre 2004. Il dettato dell’art. 28 - Oggetto della valutazione dei rischi – rileva quindi che lo stress va considerato e valutato al pari di altri

Il tema della Salute e Sicurezza sul lavoro è stato integrato e approfondito, nella necessità d’individuare gli indicatori di rischio in ottica di genere, attraverso un progetto di ricerca svolto dal Comitato Unico di Garanzia per le Pari Opportunità, secondo un approccio multidisciplinare, che investe specialisti nel campo sociale, biologico e medico.34

Tra gli obiettivi del Dlgs. 81/2008, si contempla, inoltre, l’importanza di promuovere l’attenzione delle differenze di genere, sia in termini di valutazione dei rischi, sia di misure di sicurezza e prevenzione, nell’ottica dei funzionamenti societari e del benessere dei cittadini e delle cittadine, per cui, l’aspetto innovativo della legislazione si individua nell’obiettivo di superare la dicotomia tra sfera produttiva e sfera riproduttiva, in termini di rischi da stress lavoro-correlato, in considerazione della complessità delle diverse forme del vivere quotidiano.

In riferimento, dunque, agli aspetti che riguardano la precarietà del lavoro, la doppia presenza, l’organizzazione spesso ripetuta e mutevole di orari, in funzione della necessità di conciliare le esigenze di lavoro e di vita, i rischi per le donne si elevano all’ennesima potenza, a dimostrazione di una chiara connessione tra questi fattori e l’insorgenza di patologie, come evidenziano studi epidemiologici.

Infatti, sottolinea Mengotti (2006), “la salute non è più solo una condizione di assenza di malattia, ma è un processo di miglioramento continuo del benessere fisico e psicologico della persona”(p.75), per cui, una “concezione olistica del concetto di salute”(Ivi), rappresenta la strada che dovrà condurre all’attuazione sia di misure per la protezione e la tutela delle lavoratrici, sia all’inclusione di strategie mirate alla valorizzazione delle capacità e delle competenze, nell’ottica delle differenze di genere.

Il duplice obiettivo in tema di salute e sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici, riguarda di conseguenza le positive ricadute “in termini di benessere, di crescita del capitale umano e di risorse economiche. Solo così si potrà parlare di una concreta integrazione socio-sanitaria, in

primis, nella ricerca e, successivamente, nell’efficacia/efficienza delle politiche pubbliche

fattori di rischio al fine di individuare, adottare, verificare le misure di tutela necessarie a prevenire danni alla salute “totale” dei lavoratori.

L’Accordo Europeo, che “costituisce una pietra miliare per far comprendere, condividere, prevenire e gestire i problemi dello stress da lavoro, rileva che: lo stress da lavoro è un problema comune a datori di lavoro e a lavoratori; può colpire potenzialmente in ogni luogo di lavoro e qualunque lavoratore; assumerlo come problema può voler dire più efficienza e un netto miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza, con benefici economici per aziende, lavoratori e società tutta…”

34Progetto del Comitato Unico di Garanzia dell’INAIL: “Salute e Sicurezza sul lavoro, una questione anche di genere. Rischi lavorativi. Un approccio multidisciplinare.” Volume 4 . Quaderno della Rivista degli Infortuni e delle Malattie Professionali.(R.Biancheri, A.Carducci, R.Foddis e A.Ninci, a cura di). INAIL-Milano, 2013.

volte a migliorare concretamente la qualità della vita dei/delle cittadini/e” (Biancheri, 2013, p. 20).